“La mia vita in una fiaba”: la nostra Storia nella storia di Roberto Innocenti
di Marcella Onnis
A seguire Pinocchio non ci si annoia mai e si ha sempre qualcosa da scoprire, da imparare. Grazie a lui, per esempio, sono approdata al saggio “Pinocchio e Collodi” di Rossana Dedola, poi – catturata da un circolo virtuoso – grazie a quest’ultima sono giunta a “La mia vita in una fiaba”, lunga intervista in cui a lei si racconta il più celebre illustratore del romanzo collodiano: Roberto Innocenti.
PINOCCHIO, COLLODI, INNOCENTI E DISNEY – Una seria ricerca su “Pinocchio” non può che includere il contributo di questo artista, così come l’approfondimento sul suo autore, Carlo Lorenzini in arte Collodi, o la lettura di “Pinocchio: un libro parallelo” di Giorgio Manganelli. Come ricorda Rossana Dedola ne “La mia vita in una fiaba”, infatti, il Pinocchio illustrato da Roberto Innocenti è quello «che si è affermato nel mondo, è stato tradotto in più di venti lingue, […] si è affiancato a quello di Walt Disney e lo ha addirittura scalzato, offrendone un’alternativa mondiale e permettendo che venisse letta la vera storia inventata e firmata dal suo autore» (ma altrettanto prezioso per tenere viva la memoria di Lorenzini – maestro, scrittore, intellettuale ma prima e sopra di tutto uomo – è il contributo dato dalla stessa Rossana Dedola con il suo saggio).
Il confronto Innocenti-Disney è senza dubbio uno dei temi più interessanti di questa (auto)biografia e anche uno dei più godibili, grazie alla pungente ironia con cui l’illustratore toscano ne parla. Piuttosto sconcertante è, per esempio, il fatto che gli avvocati della “Fabbrica dei sogni” lo diffidarono «dall’usare il nome di Pinocchio, di cui asserivano di avere il copyright». Davanti a questa idiozia, difendere il colosso americano diventa impossibile anche per chi con i loro cartoni ci è cresciuto. Né si può dar torto a Innocenti quando punta il dito sulla stucchevolezza delle loro rivisitazioni di fiabe celebri, arrivando addirittura a definire patetica la loro “Cenerentola”. Curioso, però, che – a differenza di Nicola Dusi nel suo contributo a “Le avventure di Pinocchio” (raccolta degli atti di un convegno organizzato a Urbino nel 2001) – non si soffermi sulla veste tirolese affibbiata a Pinocchio dalla Disney. Probabilmente non avrà voluto infierire.
LA GRANDE STORIA IN UNA “PICCOLA” STORIA – Definire “La mia vita in una fiaba” un’autobiografia in forma di intervista è riduttivo (oltre che, probabilmente, tecnicamente impreciso): è, infatti, anche una sorta di Bignami ragionato di Storia e di Storia della grafica, un’indagine sull’editoria e sulle politiche culturali italiane, un’analisi critica dell’Italia di ieri e di oggi… Il tutto racchiuso in un lungo dialogo in cui Roberto Innocenti, brillantemente guidato e stimolato da Rossana Dedola, (si) racconta con naturalezza, un pizzico di poesia, ironia dolceamara e non cercata simpatia.
Partiamo allora dalla Storia che, scritta dall’intrecciarsi delle storie di tanti uomini, a suo volta incide, inglobandole in questo intreccio, su altre vite ancora, segnandole per sempre. La traccia che, ad esempio, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza hanno lasciato in Roberto Innocenti, all’epoca bambino, è profonda e indelebile. Ancora oggi ripensa alla guerra come «il vuoto, una sensazione di desolazione». Non sarebbe male se i potenti di oggi si fermassero un attimo a riflettere su questa testimonianza, se riflettessero sul futuro che attende i tanti bimbi che ancora oggi nascono e vivono in terre violentate: «Un bambino costretto a vivere in tempo di guerra è un bambino che cresce in modo molto strano, perché di solito nell’infanzia i bambini desiderano e fanno altre cose: i giochi, i balocchi, i soldatini, i pupazzetti. La guerra nega la prima infanzia e io la guerra ce l’avevo intorno. Infatti la comodità della seconda guerra mondiale rispetto alla prima è che, nella prima, i soldati dovevano andare al fronte, lontano, mentre la seconda guerra mondiale è venuta a trovarci tutti a casa. Era una guerra a portata di mano. Mi sono trovato dentro uno “spettacolo” che nessuno aveva pensato di vietare ai minori». E ancora: «Dicevano: “Comincia la pace”. E io mi chiedevo:“Ma che è?”» perché la guerra «credevo fosse uno stato naturale delle cose, perché io non avevo vissuto l’anteguerra come i bambini più grandi».
Ma ancor di più, perché ci obbligano a fare i conti con un passato scomodo, ci scuotono queste parole: « Vedendo Mussolini, questo schifoso individuo che dal balcone di piazza Venezia dichiara guerra […] a mezzo mondo, mi è venuto in mente che questo mezzo mondo è venuto a trovarci armato perché era stato invitato. […] da allora non ho una grande opinione degli italiani, perché sotto quel balcone ce ne erano diversi, diversi, diversi milioni. E nelle case ce ne erano tanti altri. E quindi non tutti gli italiani erano contrari, come oggi pare che sia stato». E prosegue: «Il fascismo si sa che l’abbiamo inventato noi in Italia, non siamo solo vittime del fascismo, ne siamo anche gli inventori». Piuttosto difficile trincerarsi dietro un “io allora non ero neanche nei pensieri dei miei genitori”, soprattutto quando ci dimostra con un altro episodio che siamo un popolo di voltagabbana: «Allora non lo potevo sapere, ma mentre gli Alleati aspettavano a sud dell’Arno, i partigiani entrarono a Firenze combattendo contro i nazifascisti. Fu la prima battaglia urbana fra partigiani e fascisti. Improvvisamente alle finestre tutti avevano le bandierine rosse, i fazzolettini rossi. Erano diventati tutti comunisti? Non mi fido mai degli italiani come sono, o come si presentano. Dopo il 18 aprile quei fazzoletti diventarono tutti bianchi. Insomma, la mutevolezza ha le sue convenienze o crede di averle.»
L’ALLUVIONE DI FIRENZE – La Storia vista con gli occhi di Innocenti bambino è, però, anche l’alluvione che colpì Firenze nel ’66, «Quando l’Arno è entrato a casa degli zii senza bussare». Una frase che, con amara, ironica e involontaria poesia, sintetizza un dramma in poche parole. La richiama pure Rossana Dedola nella sua recensione al “Cappuccetto Rosso” illustrato dall’artista, forse perché ne racchiude lo “spirito” o, perlomeno, quella parte che lascia emergere nel corso di questa lunga intervista. Non è da tutti, infatti, riuscire a ironizzare su un evento che ha inciso fortemente sulla propria vita: «L’alluvione ha portato via tutto il mio passato. Dopo il Sessantasei, non ho più foto di quando ero bambino, ho perso i disegni, i quaderni, i libri, i fumetti […]».
TEMPI DI MAIALI INGORDI – Queste e altre note biografiche consentono non solo di farsi un’idea dell’uomo Innocenti, ma anche di capire meglio dinamiche e problematiche dei tempi passati (ad esempio, quali problemi concreti potesse creare, anche sul lavoro, non sposarsi in Chiesa e/o non essere cattolico nella seconda metà del secolo scorso) ma anche dei tempi attuali. Colpiscono, tra le tante, queste sue affermazioni, idealmente legate al discorso di Nicola Piovani sulla musica passiva: «L’immagine fissa è la sola che i bambini e i ragazzi, ma anche gli adulti, guardano e ricordano e anche la sola che non importuna, che non entra in casa attraverso la televisione o la radio o la pubblicità». O ancora: «Bisogna decidersi a stornare o a strappare una parte del profitto o delle immense ricchezze accumulate da pochi a proprio personale profitto a beneficio della crescita culturale della popolazione mondiale a essi assoggettata.» E alla domanda di Rossana Dedola “Se dovessi rappresentare questa situazione in un manifesto che cosa disegneresti?” risponde senza peli sulla lingua: «Un branco di maiali grassissimi che si affollano intorno al trogolo e che non lasciano nemmeno una ghianda a chi li nutre».
PER I BIMBI SEMPLICITÀ, NON SEMPLIFICAZIONE – Illuminante (e nuovo per chi non ha esperienza in questo campo) è, inoltre, ciò che afferma riguardo a bimbi e ragazzi: «Anche se gli editori dicono che bisogna essere semplici coi ragazzi, ho scoperto che i ragazzi non hanno il sovraccarico di tristezze, ricordi, pensieri, stress, tutto quello che si ha da adulti. Hanno la mente libera, e quindi anche aperta, se li metti di fronte a una cosa complicata si divertono moltissimo a smontarla e a cercare di capirla. Quindi non c’è questo bisogno di semplificare. La semplicità è una cosa, la semplificazione è quello che è imposto al mondo intero».
DATO UN MEZZO, OCCORRE SAPERLO USARE – Attuali e difficilmente contestabili anche le considerazioni che Innocenti fa riguardo alla grafica, altra attività da lui svolta in passato con altrettanta maestria. Tant’è vero che, negli anni Settanta, alcuni suoi manifesti furono pubblicati su “Graphis Annual”, «che era allora la più autorevole pubblicazione annuale internazionale che si dedicasse alla grafica e all’illustrazione», spiega lo stesso interessato. Riferendosi agli studi grafici milanesi di Bob Noorda e Massimo Vignelli, tra i migliori negli anni Sessanta (periodo che Innocenti indica come particolarmente positivo per la creatività in generale, soprattutto all’estero), afferma che «[…] avevano la consapevolezza che la grafica fosse una scienza esatta, basata sulla matematica, applicata alla funzione e all’estetica. La fantasia, se era necessaria, veniva dopo». Ma quanti oggi, anche fra chi esercita quest’arte, ne sono consapevoli? Solo chi lo è potrà trovare utile il mini-prontuario di grafica che Innocenti (involontariamente) fornisce in queste pagine.
Qualcuno forse storcerà il naso leggendo queste altre parole, ma – piaccia o no – contengono una verità incontrovertibile e, purtroppo, valida non solo per la grafica: «Il computer ha dato la batosta finale perché tutti pensavano di essere grafici, quindi hanno ammazzato la grafica facendo cose orrende. Praticamente la grafica non esiste più, basta guardare la stupidità, l’errore colossale che c’è in tutto, compresi i grandi manifesti per la strada dove i testi che si dovrebbero leggere sono alti quanto i titoli di un giornale che da lontano nessuno li vede, né li può leggere. Sono tutte cose sbagliatissime. Ovviamente la colpa non è del mezzo, il computer, all’inizio piuttosto primitivo, ma del modo in cui viene capito e usato. Le idee non sono nel computer e neanche le regole della grafica. In una generazione si sono perse tutte le tracce delle conoscenze acquisite nei secoli. Anche la comunicazione è cambiata. Non esistono più i manifesti, la pubblicità e le immagini arrivano tutte dalla televisione. Sono solo spot televisivi filmati e poi stampati su giornali, quasi sempre brutti, devo dire. Erano molto meglio prima, anche se la pubblicità non mi è mai piaciuta. Penso che questo corrisponda al livello culturale degli operatori, che è molto calato, si è semplificato, anzi, non ci sono più operatori qualificati, ma ragazzi che fanno di tutto un po’. Ogni industriale ha un cugino talmente bravo col computer che non importa andare all’agenzia pubblicitaria. Questo è il mondo in cui siamo precipitati […]»
LIBERI SÌ, IMPROVVISATI NO – Dalle riflessioni del celebre illustratore è, dunque, possibile trarre consigli utili per la grafica, per il disegno e, per estensione, per tutte le forme d’arte. Evidente è la più ampia portata della sua convinzione che «[…] non basta disegnare bene, bisogna disegnare liberi», ma anche dell’accortezza di non essere mai approssimativi e superficiali: chi vuole lavorare/creare seriamente, deve studiare, documentarsi, toccare con mano la realtà di cui deve/vuole occuparsi. Significativo, in proposito, è quanto racconta riguardo all’incarico di illustrare “Un canto di Natale” di Dickens: «Ovviamente su libri come quelli bisogna documentarsi, perché non si può fare una fiabetta alla Disney, e quindi sono andato a cercarmi Londra». O ancora: «La peculiarità dei libri con riferimenti storici o ambientali, quasi sempre classici, è che l’illustratore deve diventare scenografo, costumista, operatore di macchina, e disegnare gli attori principali stando attento a non sbagliare epoca, neanche nei dettagli. Non puoi mettere in testa a qualcuno un cappello che non si usa più. Per questo motivo, i classici affrontati in questo modo richiedono molto tempo e grande impegno». Sarebbe, del resto, da ingenui pensare che risultati eccellenti si possano raggiungere solo grazie al talento e in un quarto d’ora. Innocenti è un artista vero, ma è anche un professionista serio, talmente serio che è stato capace di impiegare settimane per realizzare una sola tavola, pur di raggiungere il risultato auspicato.
Aspiranti illustratori e narratori in generale (perché non solo a suo parere «illustrare […] è un modo di raccontare») devono, inoltre, appuntarsi queste parole: «Per fare un libro, ci vuole sempre un’idea. Ogni libro deve avere una sua ragione di nascita […]». E che lui sia un bravo narratore lo suggerisce il modo in cui si rapporta alle storie: «[…] quando disegno, non mi sento io che disegno, mi sento io al servizio del racconto, il mezzo per realizzare nel modo migliore il progetto».
QUESTIONE DI ETICA – Le considerazioni di Innocenti, però, vanno oltre la tecnica: hanno anche una valenza etica, che può ugualmente essere estesa ad altre forme d’arte e di rappresentazione. Particolarmente evidente, questo, quando parla della tavola di “Rosa Bianca” (suo primo progetto d’autore, ma anche primo libro per bambini sul tema della Shoah) in cui rappresenta un bambino con le braccia alzate: «È la fotografia del bambino del ghetto di Varsavia. Uso la citazione […] per non scherzare, per ricordare e imputare a qualcuno un crimine. Io ho un grande riguardo e un grande rispetto per le vittime di quelle storie. Inventarne uno, un qualsiasi bambino che piange, mi sembra una soluzione patetica, facile e poi come un imbroglio pubblicitario per catturare la commozione immediata del lettore. Mi sembra di mancare di rispetto nei confronti delle vittime e della loro verità inventare dei visi che non sono loro. Preferisco ricorrere alla citazione, riproporre cose che si sanno, anzi che si dovrebbero conoscere già».
E se a qualcuno Innocenti dovesse apparir spocchioso, leggendo per intero “La mia vita in una fiaba” scoprirà che, invece, è semplicemente obiettivo. Prova ne sia il fatto che così come riconosce i propri innegabili meriti e gli altrui innegabili difetti, così degli altri sa anche riconoscere i meriti. Come quando evidenzia che, oltre al suo, di Pinocchi «ce ne sono anche di ben fatti». E poi, diciamolo: “Viva l’onestà!”. Perché non c’è niente di male nel riconoscersi meriti e pregi evidenti, mentre ce n’è tanto nel fingersi modesti e nello sminuirsi attendendo trepidamente di esser “contraddetti” e “smentiti”. Come dice questo aforisma di un celebre filosofo, infatti:
Nelle persone di capacità limitate la modestia è semplice onestà, ma in chi possiede un grande talento è ipocrisia. Arthur Schopenhauer
— Gli Aforismi (@aforismitop) 13 Agosto 2015
“QUI GLI ILLUSTRATORI NON CONTANO PROPRIO NIENTE” – Lo sguardo critico di Innocenti si sofferma molto, per ovvi motivi, sull’editoria italiana, con considerazioni che spaziano sull’imprenditoria in generale: «Quando vedono uno seduto alla scrivania che progetta qualcosa pensano che sia uno che mangia pane a tradimento, o che sia un lusso superfluo.» Per quanto riguarda il suo lavoro in particolare, lamenta soprattutto il fatto che in Italia, contrariamente ad altri paesi europei e agli USA, gli illustratori non siano considerati alla pari degli scrittori e degli altri artisti: «[…] qui gli illustratori non contano proprio niente. L’Italia sceglie di farsi rappresentare all’estero unicamente dalla pizza, dalle cipolle di Tropea, dal vino, dagli spaghetti o dal grana padano. Tutte cose molto buone, naturalmente. E i più grandi artisti promossi e protetti dallo Stato, questo sì, sono gli stilisti». E ancora: «[…] con un editore italiano non mi ci metterei mai e poi mai, è un mestiere da cancellare. Se fossi rimasto solo con gli editori italiani non sarei sopravvissuto. Censurano e sono incapaci di esportare gli autori. Rispetto solo i piccoli editori, che lavorano per passione, che faticano tra mille difficoltà e risultano precari come vasi di coccio fra vasi di ferro»; l’«editoria per bambini e ragazzi […] è il solo spazio superstite per chi vuole, disegnando, raccontare e comunicare».
Acclamato all’estero, ma per lungo tempo snobbato o, perlomeno, poco compreso nel suo Paese, Innocenti ci ricorda che è sempre tristemente valido il detto Nemo propheta in patria: «[…] ho sbagliato a non andare via, ma ho sperato che in Italia cambiasse qualcosa, e in effetti in Italia è cambiato molto, molto in peggio.» Una visione negativa che evidenzia – senza timore di smentita perché i fatti parlano da sé – le lacune di tutte le parti in causa, a partire dalle istituzioni: «Mentre il pubblico, almeno una parte, senza visibilità o pubblicità scopre l’illustrazione, le istituzioni sembra quasi che l’avversino, non solo che siano disattente, ma che volutamente vogliano disinteressarsene. Ma non mi sento solo, dal momento che tutta la cultura viene ignorata dalle istituzioni»; «Mi chiedo […] perché, a livello istituzionale, in Italia non abbiano voluto né promuovere né interessarsi di politiche per l’educazione infantile, cancellando perfino la storia contemporanea dai testi scolastici». E chi si sente di smentirlo quando afferma che «[…] se gli italiani avessero un nutrimento culturale adeguato, sarebbero assai migliori delle istituzioni che pretendono di rappresentarli […]»?
LIBERI DAL LIETO FINE – Per concludere torniamo – arricchiti – al punto di partenza, che scherzosamente possiamo definire Innocenti vs Disney: «Il lieto fine lo lascio sempre molto volentieri alla Disney. La mia proposta è che i ragazzi scoprano nelle figure la bruttezza, la trascuratezza e la violenza e sospettino di quello che riteniamo normale, che gli vengano dei dubbi sul fatto che tutto debba essere così com’è e che l’unica felicità possibile sia quella promessa dalla pubblicità affissa in alto». Chissà che, lasciati i ragazzi liberi di comprenderlo, pure noi adulti non riusciamo a re-imparare questa verità…