IN VISITA ALLA S.C. DI TERAPIA DEL DOLORE E CURE PALLIATIVE

Struttura di eccellenza dell’ospedale Molinette di Torino

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

Tra le molte intense attività ospedaliere, quella relativa alla S.C. Terapia del Dolore e delle Cure Palliative (C.P.), merita una particolare ”attenzione” soprattutto per le sue peculiarità. Recentemente ho avuto l’opportunità di visitare tale Struttura della Città della Salute e della Scienza di Torino (ospedale Molinette), ospite del direttore dott. Paolo Cotogni che mi ha illustrato alcuni aspetti della stessa. Tale Struttura di estende su due piani: il 4° è interamente dedicato alla terapia del dolore (antalgica) e mette a disposizione degli utenti 5 ambulatori per 5 giorni alla settimana, sia al mattino sia al pomeriggio. Qui vengono accolte persone con dolore prevalentemente cronico, alle quali vengono prescritti farmaci antalgici e, se indicato, attuate procedure interventistiche di terapia antalgica in regime di Day Hospital/Day Surgery mirate a modulare il “pain generaetor”, ovvero il punto della via del dolore nel quale nasce lo stimolo doloroso. A questa S.C. si rivolgono persone con un ampio spettro di quadri clinici del dolore: dal comune “mal di schiena” alla nevralgia del trigemino, per fare due esempi. I medici anestesisti di questa S.C., esperti di terapia del dolore, tramite l’esame obiettivo e, se indicata, la diagnostica strumentale, individuano il “pain generaetor” e attuano una scelta razionale e mirata della terapia (farmacologica e/o interventistica) con cui trattare il dolore. «Questa attività – spiega il dott. Cotogni – prevede anche prestazioni complementari come l’agopuntura e l’ipnosi, che consentono di interagire con la persona con dolore cronico in modo multidimensionale e multidisciplinare attraverso un approccio bio-psico-sociale. L’équipe che lavora nel reparto del 4° piano è composta da più professionisti esclusivamente dedicati alla terapia del dolore, che caratterizza un Centro di terapia del dolore di eccellenza, ossia sono contemporaneamente presenti tutti i giorni medici, infermieri e psicologi, questi ultimi coordinati dalla dr.ssa Giorgia Macchi che vanta una lunga esperienza anche in psicoterapia, fondamentale per gestire le persone affette da dolore cronico». La presenza di infermieri esperti, consente di dare continuità assistenziale sulla base della notevole esperienza acquisita nel trattamento del dolore cronico. Questa S.C., istituita nel 1998, è oggi composta da 11 medici 1 psicologo coadiuvato da alcuni tirocinanti, 14 infermieri e 13 operatori sociosanitari. Più di recente, nel 2018 invece, c’è stata l’apertura del reparto di degenza ordinaria (“Acute Palliative Care”), al 3° piano, una Unità clinica unica nel suo genere nella realtà ospedaliera pubblica, in quanto rappresenta un luogo di accoglienza  dove i pazienti vengono ricoverati per attuare le C.P. quando l’intensità dei sintomi non consente più loro di di rimanere al domicilio. In questo reparto medici, infermieri e psicologi si concentrano sulla persona malata intervenendo sul controllo dei sintomi, e sul controllo della sofferenza che deriva dalla presenza dei sintomi, sovente molto intensi tali da compromettere la qualità della vita. Le persone che afferiscono a questo reparto trovano una Struttura aperta (H24) non solo per l’assistenza dei pazienti, ma anche delle persone a lui care che desiderano star loro vicini. «L’attività del reparto – spiega il dott. Cotogni – è continua: i due terzi dei pazienti ricoverati provengono dal P.S., e sono persone che accusano sintomi non controllati e che impattano fortemente sulla loro qualità di vita. Nell’85-90% dei casi sono persone affette da patologia oncologica, le restanti sono affette da patologie che rappresentano l’evoluzione verso una fase avanzata di una malattia cronica: cardiaca, respiratoria, epatica e neurologica. In questo reparto nel 2023 sono stati ricoverati oltre 430 pazienti, provenienti da tutta la Regione. Se le richieste  di ricovero sono superiori alla disponibilità del nostro reparto, i pazienti vengono ricoverati in altri reparti e, dal 2015, abbiamo istituzionalizzato anche un team per le C.P. ospedaliere; questo team di medici e infermieri prende in carico il percorso di C.P, dei pazienti ricoverati anche in altri reparti». Visitando questo reparto di degenza si percorre un corridoio sul quale si affiacciano quattro stanze a due posti letto ed una stanza singola per un totale di 9; le pareti sono decorate artisticamente a soggetti naturali e in cromia tenue, in cui traspare luce e “serenità” contemplativa, ancorché garantita da una silenzio composto. All’ingresso del reparto la postazione di “accoglienza” della medicheria è totalmente aperta (priva di porta o sportello). Qui incontro l’infermiera Miriam Jagodnik che vi lavora dall’apertura del reparto. «La parte più bella di questo lavoro – mi spiega – è il far parte di un gruppo molto affiatato, coeso e determinato nel dare il meglio di sé, sia per il paziente sia per la sua famiglia, organizzando il miglior percorso possibile e accompagnandolo nel migliore dei modi. In molti casi il percorso è particolarmente impegnativo da accettare sia da parte del paziente stesso sia dei suoi famigliari, e per questo motivo si lavora sulla “accettazione”, peraltro non sempre scontata, e per questa ragione il dialogo è fondamentale. All’inizio alcuni pazienti ci considerano “comuni” operatori sanitari, ma poi con il tempo il rapporto e l’empatia si fanno strada». In questo reparto non mancano i pazienti che hanno piacere di poter rivedere e accarezzare il loro cane per una sorta di “istantanea” pet therapy, come componente complementare della terapia psicologica. E proseguendo il dialogo con l’infermiera Jagodnik, domando: – Ai fini della reciproca comprensione, ossia tra il sanitario e il paziente, quali altri accorgimenti sono richiesti?- «Da parte nostra – spiega – bisogna avere “un passo in più”, e altrettanto reciproca è la collaborazione con gli psicologi-psicoterapeuti, proprio perché in questa realtà clinica a volte la vita avrà un termine… La maggior parte dei pazienti è cosciente di ciò, mentre altri, soprattutto gli anziani, chiedono di non sapere, magari delegando ai propri famigliari. È quindi molto importante la cosiddetta “presa in carico”, sia del paziente sia della sua famiglia, valutando l’esistenza di presupposti per assistere a casa il proprio congiunto; ma non tutte le famiglie sono in grado di gestirlo soprattutto al proprio domicilio per una serie di ragioni… anche pratiche, oltre al fattore età. In buona sostanza, si cerca di soddisfare al meglio le reciproche esigenze con l’ascolto e la comprensione, e questo può significare la miglior presa in carico della persona malata».

Al 3° piano dove vi sono gli ambulatori della Terapia del Dolore mi intrattengo con la referente  dott.ssa Veronica Perlo, per una breve intervista

Dott.ssa Perlo, qual è il suo ruolo in questo reparto?

“È di coordinamento della sala operatoria e degli ambulatori per la gestione e l’accesso dei pazienti, e quindi del loro percorso terapeutico che entra a far parte di diversi algoritmi seguendo determinate  linee guida, protocolli, etc. la gestione riguarda anche quella del personale medico, che peraltro è un gruppo molto giovane che ha bisogno di “confrontarsi” con altre realtà, apprendere nuove modalità di approccio alla terapia del dolore, e questo credo sia parte del mio ruolo ed essere per loro riferimento e una guida”

Quali sono i tipi di dolore seguiti e come vengono trattati?

“Il dolore cronico “benigno”, non legato ad un tumore, ha un trattamento di prima fase farmacologico, in seconda fase con procedure peridurali o blocchi articolari, e una terza fase, detta di neuromodulazione, con l’utilizzo di tecniche come la radiofrequenza, l’impianto di neurostimolatori, in funzione di farmaci, etc.”

Sono tutti casi risolvibili o ci sono delle eccezioni?

“Ci sono anche delle eccezioni in quanto si tratta di casi non risolvibili, nemmeno con la neurostimolazione… E ciò dipende dal tipo di patologia che, per la verità, sono spesso “banali”, ma il problema piuttosto è dove ha origine il dolore, ed è la persona che fa la patologia, oltre alla concomitanza di comorbilità e loro caratteristiche. In tutto ciò il dolore coinvolge molto l’aspetto bio-psico-sociale”

E per quanto riguarda le malattie neuropatiche?

“Queste patologie, come ad esempio il diabete, l’ernia discale, etc., rispondono alla neurostimolazione ma in modo soggettivo. Ciò vale anche per il trattamento della patologia oncologica: somministrazione di farmaci, infiltrazioni e neurostimolazione ma con indicazioni diverse”

Quale l’età media di questi pazienti?

“È sempre più avanzata, e la tendenza riguarda per lo più pazienti geriatrici, in prevalenza di sesso femminile nella misura del 60 per cento”

La mia presenza in questa S.C. mi ha dato l’opportunità di seguire alcune fasi del dialogo tra medici, infermiere e alcuni pazienti, ricoverati  nel reparto di degenza, e i loro famigliari. Ciò in un clima di apparente serenità, dove il contatto umano fra le parti ha trovato la massima espressione della professionalità, della reciproca comprensione e/o accettazione degli aggiornamenti  sia del decorso della patologia che della terapia. Un approccio non solo professionale ma per certi versi anche di tenera “complicità”, caratterizzata da un tono di voce lento, cadenzato e sommesso da ambo le parti. Anche per tutte queste ragioni, prima di congedarmi ho intervistato il direttore della Struttura.

PARTICOLARI COMPETENZE E ATTENZIONE PER CHI HA BISOGNO DI CURE PALLIATIVE IN OSPEDALE

Intervista al dott. Paolo Cotogni, direttore della S.C. Terapia del Dolore e Cure Palliative dell’A.O.U. Città della Salute e della Scienza (Molinette di Torino)

Dott. Cotogni, quale è la situazione attuale in merito all’accesso e alle cure palliative in ospedale?

“A distanza di anni dall’emanazione nel 2020 della Legge 38, in realtà c’é ancora molto da fare, perché al cittadino che si trova ricoverato in ospedale possa essere garantito il diritto di accesso alle cure palliative (C.P.), come previsto dalla Legge. I primi che vanno resi consapevoli di questa necessità di garantire l’offerta di C.P. anche in ospedale sono gli operatori sanitari, ma anche coloro che si occupano di programmazione sanitaria a tutti i livelli. Ma non dobbiamo sentirci in ritardo perché anche nel Regno Unito, dove sono nate le C.P. moderne, sono arrivati tardivamente a comprendere che gli ospedali sono il luogo dove più frequentemente erogare le C.P.”

Quali altri aspetti vanno sottolineati?

“Prima di tutto che le C.P. sono indicate esclusivamente per il malato oncologico. Nulla di più errato tant’è che anche nella Legge 38, è scritto che le C.P. sono rivolte alla cura attiva e totale dei malati che siano affetti da una malattia caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da prognosi infausta. Questi malati ed i loro familiari hanno bisogno di una presa in carico nella maniera più competente, e più attenta, a quella fase della traiettoria della malattia nella quale i loro bisogni di controllo dei sintomi diventano più acuti e le loro esigenze più pressanti in termini di qualità della vita, come pure le loro aspettative relativamente all’assistenza”

Quindi, quali sono i pazienti per i quali è più indicato accedere ad un percorso di C.P.?

“Sono attivabili per malati di tutte le età, tant’è che esiste una Rete di C.P. pediatriche che è distinta da quella per adulti. Le C.P. sono accessibili per le persone con patologie neoplastiche, con tutte le malattie croniche (cardiache, respiratorie, epatiche e renali) che hanno un’insufficienza d’organo nella fase avanzata della loro storia clinica; ma anche le malattie neurologiche in stadio avanzato, incidenti cerebrovascolari acuti, malattia di Parkinsom sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e la demenza”

Questo quadro comprende anche le distrofie muscolari?

“Le distrofie muscolari sono malattie che impattano molto sull’aspetto dell’autonomia della persona malata per il progressivo indebolimento dei muscoli, ma questi malati, se seguiti presso Centri esperti, possono avere un’aspettativa di vita di molti anni”

Ma vi sono altri cambiamenti culturali che vanno diffusi’

“Sì, c’é ancora un cambiamento culturale importante che va implementato tra i professionisti sanitari, ma anche tra le persone affette da patologie caratterizzate da un’inarrestabile evoluzione, che è costituito dal momento della presa in carico da parte dei Servizi di C.P. Esisteva un modello (oggi superato) in cui si identificava questa presa in carico con l ‘”end of life” (fine vita), inteso come le ultime ore o giorni di vita della persona malata. Già dal 2009 l’Associazione Europea per le C.P. (EAPC) aveva esteso l’”end of life care”, ossia le cure di fine vita a mesi (fino a un anno) prima del decesso”

Ma allora quando deve avvenire la presa in carico?

“Questo è il punto più critico. Una volta compreso che le cure di fine vita non sono quelle erogate negli ultimi istanti di vita del malato, la presa in carico da parte dei Servizi di C.P. può essere offerta a tutte le persone che abbiano un’aspettativa di vita inferiore”

Ma se un paziente che ha bisogno di un percorso di C.P. si presenta in Pronto Soccorso (P.S.) cosa succede?

“In questo Presidio, in accordo con la Direzione Sanitaria, nel 2015 è stato attivato dalla nostra Struttura Complessa il Team per le C.P. ospedaliere, costituito da medici ed infermieri… Come Team identifichiamo tra i malati che afferiscono al P.S. quelli che hanno le caratteristiche per avere un percorso di C.P. e li ricoveriamo nel nostro reparto di degenza”

 E quindi si procede al ricovero del paziente in una Unità dedicata?

“Esattamente. Ed è il Progetto che è stato attuato qui nel Presidio Molinette dal 2018, attivando un reparto di degenza ordinaria (Acute Palliative Care), unico in Italia, dedicato al ricovero di malati con sintomi non controllati con la necessità di presa in carico di C.P., ed in questi sei anni abbiamo ricoverato oltre 2.000 malati, la maggioranza dei quali in attesa di ricovero nel P.S. di questo Presidio ospedaliero. Questi malati hanno bisogno di avere un luogo di cura di riferimento, di non essere ricoverati “a pioggia” nei vari reparti ospedalieri, ma presi in carico da più figure professionali esperte in C.P. quali medici, infermieri e psicologi-psicoterapeuti. Se per un malato durante il ricovero in questo ospedale viene decisa una transizione dalle cure attiva alla fase C.P., viene richiesta la consulenza palliativa del Team per la presa in carico e, se possibile, il trasferimento nel nostro reparto di degenza. In alcuni casi ricoveriamo malati in trattamento oncologico attivo ma che hanno dei sintomi molto scompensati, come per esempio il dolore. Il ruolo di questo reparto è anche quello di garantire il diritto di questi malati di essere curati da esperti di terapia del dolore, che risolvano il sintomo e li rinviino, in migliori condizioni cliniche, ad un percorso oncologico per la prosecuzione delle cure”

Come stabilite il percorso di C.P.?

“Obiettivamente non è sempre facile definire l’aspettativa di vita di un malato che inizi un percorso di C.P., ed è una grande sfida che ha implicazioni cliniche ed etiche. Ma più che definire l’aspettativa di vita, è centrale identificare con un approccio bio-psico-sociale i bisogni fisici, psicologici e sociali di quella persona, elaborare un piano assistenziale integrato e “ritagliato” sulle sue esigenze e quelle dei suoi familiari o caregiver. Se il malato ha ancora bisogno di controlli ravvicinati viene invitato a visite ambulatoriali in ospedale; quando non sarà più in grado  di venire in ospedale allora sarà preso in carico a domicilio  da un’Unità di C.P. domiciliari. Quando il malato non sarà più in grado di essere gestito a domicilio per l’aggravarsi dell’intensità dei sintomi, o perché non ha una famiglia in grado di sostenere il carico, l’hospice sarà il luogo di cura. Per proporre il percorso di dimissione ai malati ricoverati nel nostro reparto utilizziamo dei criteri che sono stati definiti da una deliberazione della Regione Piemonte nel 2002. Il percorso di dimissione protetta del malato prevede due livelli assistenziali: la presa in carico a domicilio da parte dell’Unità di C.P. domiciliari, oppure il trasferimento in hospice. Le condizioni necessarie perché possano essere erogate le C.P. a domicilio sono un livello di complessità ed intensività delle cure compatibili con l’ambiente domestico e la disponibilità della famiglia a collaborare”

Come è visto dal paziente il medico di C.P. al primo incontro?

“Bisogna preparare bene il primo approccio e sapersi presentare per il momento più critico sono i primi secondi. Bisogna spiegare  cosa sono le C.P. e come si intende aiutare la persona per vivere questa fase della malattia. Se ci si presenta con empatia e capacità di ascolto questo approccio permette di non incontrare “opposizione” da parte della persona ed i suoi familiari. Un altro aspetto di cui il malato deve essere informato è il percorso di dimissione. Infatti, molti desiderano tornare al proprio domicilio ed uno degli aspetti più difficili da accettare ed elaborare dai malati che vanno in hospice, è proprio quello del non poterlo fare”

Qual è l’aspetto più complesso nella comunicazione con il paziente?

“L’aspetto più complesso nella comunicazione con il malato è l’accertarsi di cosa ha capito della sua malattia. Se il malato è all’oscuro  della diagnosi, oppure se non ha compreso o ha rimosso le informazioni ricevute dai curanti sulla propria condizione di malato in fase avanzata, di una malattia che non risponde più a trattamenti specifici, allora è necessario capire come e quanto debba essere aumentato il suo livello di consapevolezza della malattia. La situazione ottimale è quando la persona malata è consapevole sia della diagnosi e sia della prognosi, ma la più frequente è quella di una consapevolezza di diagnosi ma non di prognosi, generalmente una sovrastima della prognosi”

Le reazioni del paziente uomo e donna sono le stesse?

“L’uomo è un po’ più fragile perché affida la propria gestione alla donna che gli sta accanto. La donna ha delle “chiavi di lettura” della vita che noi uomini non abbiamo… L’uomo di fronte alla sofferenza va incontro più facilmente alla confusione e quindi alla disperazione, mentre la donna è più preparata ad affrontare la malattia, la sofferenza e la morte; nel contempo è più fragile se ha figli, specie se minori di età perché soffre di più per l’idea del distacco. Anche nell’assistenza dei propri cari, nel ruolo di caregiver, la donna ha maggiori capacità nell’ascolto e nell’accudimento”

Il medico di famiglia collabora con la vostra Struttura?

“Il medico di famiglia è generalmente “assente” durante il ricovero della persona malata nella nostra Struttura, perché non è più come molti anni fa quando veniva in ospedale a chiedere del suo malato. Il medico di famiglia resta uno dei professionisti da coinvolgere nel caso di attivazione delle C.P. domiciliari dopo la dimissione dall’ospedale”

Quanto è presente la figura del caregiver?

“Oggi è presente un marcato cambiamento della composizione dei nuclei familiari, spesso costituiti da un solo genitore o da persone singole. In Italia ci sono circa 22 milioni di malati fragili con patologie croniche, di cui quasi 9 milioni con una forma patologica grave, che vivono in questa condizione di fragilità per diversi anni i quali vengono assistiti da oltre 8 milioni di caregiver che sono per oltre due terzi donne. In questo contesto sociale, non è facile individuare un familiare che si faccia carico del malato nella fase finale della vita consentendo così di attivare le C.P. domiciliari”

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