Diritto di cronaca e diritto alla riservatezza, partendo da un convegno in quel di Cagliari
“Il diritto di cronaca e la tutela della riservatezza tra stampa e televisione”: questo il titolo – già di per sé allettante – di un convegno che si è tenuto ieri nel capoluogo sardo su iniziativa della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari e dell’associazione “Articolo 21”.
All’evento sono intervenuti avvocati, magistrati, esperti di tutela dei minori, giornalisti e docenti di diritto costituzionale per cui il primo dato interessante è che, partendo da punti di vista differenti e potenzialmente contrapposti, sia comunque stato definito un “nucleo duro” di principi condivisi. Principi che dovremmo tenere tutti a mente perché tutti siamo fruitori di notizie ma ne siamo anche, almeno occasionalmente, fornitori.
La prima considerazione generale da tenere a mente è che se oggi siamo sommersi da informazione-spazzatura non è solo per via della scarsa professionalità dei giornalisti e della poca serietà delle loro testate, ma anche perché questa è l’informazione che “rende”. E rende perché è quella che la maggioranza del pubblico cerca. Se è vero, infatti, che a fare giornalismo serio sono rimasti in pochi, è anche vero che comunque non è così difficile individuare queste perle rare: semplicemente, c’è una spiccata tendenza a preferire chi e ciò che ha nei confronti della notizia un approccio sensazionalistico e “gossiparo”.
Dal dibattito sono poi emersi alcuni concetti-chiave, alcuni abbastanza noti e largamente condivisi, altri forse quasi ignoti o ignorati:
– in base al codice di procedura penale, il giudice non può conoscere gli atti di indagine fino al dibattimento in aula perché è lì che deve formarsi la prova e questo è stabilito per garantire una decisione imparziale. L’attuale cronaca giudiziaria, infarcita di indiscrezioni sulle indagini (spesso grazie alla complicità di vanitosi pubblici ministeri), di fatto vanifica l’intento del legislatore e – cosa ancor più grave –influenza l’operato del giudice e soprattutto delle giurie popolari, nei casi in cui è prevista la loro presenza;
– chi fa cronaca giudiziaria non dovrebbe mai dare per scontato che il pubblico conosca i meccanismi processuali e dovrebbe sempre fornire gli elementi per comprendere l’effettiva portata dei singoli eventi (ad esempio, non bisognerebbe far sì che un avviso di garanzia venga valutato alla stregua di una condanna);
– chi si occupa delle vicende giudiziarie che hanno dei minori come protagonisti deve essere consapevole del rischio che ciò influisca negativamente sulla formazione della loro personalità;
– una sana vita democratica richiede che il processo si celebri nelle aule dei tribunali e non sui media;
– i comportamenti privati di chi ricopre un ruolo pubblico devono poter essere giudicati dal pubblico se disonorevoli, in quanto il secondo comma dell’articolo 54 della nostra Costituzione prevede che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”;
– “la trasparenza è una precondizione della vita democratica” (cito testualmente le parole della Dott.ssa Anna Cau, magistrato del Tribunale dei minori di Cagliari);
– i limiti al dovere di cronaca non devono andare oltre la misura necessaria per garantire il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte nella notizia;
– i bavagli all’informazione tutelano i potenti e non i deboli. Di mio aggiungerei, però, che se tutti i giornalisti fossero fedeli ai principi deontologici su cui si fonda la loro professione e se rispettassero il cosiddetto “decalogo del giornalista” definito dalla Corte di Cassazione nel lontano 1984 (sentenza n. 5259, del 18 ottobre 1984, Cass. I civ.), sarebbe molto più difficile sostenere l’utilità di “leggi-bavaglio” e ancora più arduo sarebbe trovare loro sostenitori tra il pubblico. Tra l’altro, non possiamo dimenticare che tentativi da parte dei governanti di mettere a tacere la stampa ce ne furono anche ai tempi delle prime avvisaglie di Tangentopoli, ossia prima dell’entrata in politica di Berlusconi. Non solo: è da illusi credere che, tolto dalla scena politica il Cavaliere, il sistema dell’informazione in Italia guarirà. Troppo concentrato è, infatti, il mercato dell’editoria per poter assicurare un vero pluralismo. Né si può scordare che alcuni personaggi sul cui ingresso in politica si vocifera sono fortemente legati a gruppi di famiglie/aziende che controllano una grossa fetta di questo mercato e di cui, però, non si conosce l’ effettivo potere decisionale, come invece accade per l’impero berlusconiano;
– il patologico uso delle intercettazioni da parte dei media non tocca solo il Presidente del Consiglio ma anche la gente comune, che peraltro ha meno occasioni e mezzi per potersi difendere tramite i media stessi;
– la giustizia penale oggi sta supplendo quel ruolo sanzionatorio e stigmatizzante che la società civile è ormai incapace di svolgere nei confronti dei comportamenti che ledono l’etica civile;
– il dibattito democratico richiede un clima sereno che, in Italia, attualmente non c’è.
Alla luce di queste considerazioni, è dunque impossibile non sentirsi “colpevoli” di nulla …
Marcella Onnis – redattrice