A quattr’occhi con Francesco Abate: scrittore, giornalista e …
Qualche settimana fa vi abbiamo parlato di Chiedo scusa, ma non potevamo liquidare così, con poche parole, un libro del genere. È anche per questo che abbiamo chiesto un incontro a Francesco Abate, colui che ha dato l’anima a questo intenso romanzo. Giornalista, scrittore, ex dj, futuro docente della nascitura Università di Aristan – Facoltà di Scienze della felicità, ma prima di tutto un uomo dai modi cortesi e i toni pacati, dotato di senso dell’umorismo ma anche di una grande sensibilità: ecco cosa ci ha raccontato di sé e del suo mondo.
Partiamo da Chiedo scusa: ti è costato molto mettere tanto di te in un libro?
Sì. Mi è costato nella fase di scrittura, non sempre, però alcuni momenti son stati molto faticosi, dolorosi, anche da un punto di vista veramente fisico. Ricordo che quando ho finito di scrivere il capitolo in cui si racconta dell’intervento senza anestesia, mi sono accorto di avere la febbre: è ovvio che era una reazione psicologica, non era determinata da nessun altro tipo di patologia. Poi, parecchie volte, mi è costato nel momento in cui ho deciso di andarlo a presentare, attraverso la forma del reading, dello spettacolo. Nel momento iniziale, io pensavo che mi sarebbe costato soltanto nel vincere i primi giorni, le prime rappresentazioni: non mi aspettavo che, invece, non sarebbe finita mai e che le emozioni sarebbero cambiate, però sarebbero sempre rimaste molto profonde. Mi hanno provato. Non è una presentazione in cui tu racconti una storia fittizia per cui ti distacchi, sei solo quel volto professionalmente e cerchi di fare la tua buona figura da scrittore. Qui ovviamente il discorso è diverso, ma io pensavo “insomma, arrivati alla centoventicinquesima presentazione, non mi farà più male”. Così non è stato, però l’ho messo nel conto e non me ne lamento. Soprattutto, non me ne lamento.
Perché si fa così fatica a domandare sinceramente scusa?
Perché io credo che le ammissioni di colpa o comunque dei ragionamenti così importanti si fanno solo ed esclusivamente quando c’è un momento di criticità nella vita. Non è detto che, però, da una situazione di questo tipo poi uno ne tragga la lezione conseguente e intendo essere attraversato da dei profondi dolori, come questo, e da delle situazioni per cui veramente sei convinto di dover chiudere con la tua vita. La possibilità di rinascere ti dà la possibilità di “azzerarti” per quello che sei stato e di ripartire per quello che sarai, fermo restando che non è detto che tu sarai un uomo migliore, una persona migliore. Se, però, parti dalla coscienza che sei stato una persona che poteva essere senza dubbio migliore, allora inizi questo percorso del domandare scusa, fondamentalmente a tutti quelli che, a differenza tua, continuano a stare in questa situazione di sofferenza o che non hanno superato, come invece l’hai superata tu, quella situazione, per cui sono morti, per cui hanno dovuto seppellire dei cari, per cui continuano a soffrire, per cui hanno una prospettiva che non è la prospettiva che è stata data a te. Noi trapiantati, paradossalmente, da un certo punto di vista, rispetto ai malati terminali e con patologie croniche, siamo dei fortunati: a differenza di un malato di cancro, che non ha alcuna prospettiva nel momento in cui le terapie non funzionano, per noi, nel momento in cui le terapie non funzionano più, c’è l’ultima possibilità, che è quella di fare il trapianto, cioè di usufruire della vita di un’altra persona che se ne va per riguadagnare la nostra. Non è concesso questo agli altri malati, conseguentemente io credo che fondamentalmente debba nascere una nuova coscienza: diversamente, il trapianto si limita a essere un’operazione meccanica. Così non può essere considerata. Se si matura tutto questo, allora si ha una dimensione diversa. Devo dirti che l’ottanta per cento delle persone che io conosco, che ha affrontato la mia stessa esperienza, cambia radicalmente ed è pronta a chiedere scusa. C’è poi quel venti per cento che ha un tipo di reazione diametralmente opposta per cui “io ho sofferto e tutto mi è dovuto”, “io ho passato le pene dell’inferno e tutto mi è dovuto”, “sono stato al limite della morte, anzi magari ci sono anche andato e tornato indietro”, quindi hanno un atteggiamento – come spiego nel libro – strafottente, esigente. È un atteggiamento che, probabilmente, un po’ tutti affrontiamo nei primi giorni dall’uscita dall’ospedale, dall’uscita dai tre mesi di terapia pesante che devi fare, perché sei un po’ esausto e magari puoi scivolare in questo atteggiamento. Però, nel momento in cui riguadagni la vita, deve finire: non è giustificato, non è giustificabile. Purtroppo, c’è un venti per cento che, invece, questo atteggiamento lo mantiene. Però vivono male e vivono male non solo da un punto di vista psicologico, anche da un punto di vista clinico: chi non riesce ad avere questo tipo di accettazione poi ha sempre guai continui. È come se tutto quel male che si è cercato di cacciar via con l’operazione rimanga e faccia i suoi danni.
Invece, quell’ottanta per cento che impara a chiedere scusa poi, nel lungo periodo, lo mantiene questo atteggiamento oppure c’è il rischio che dimentichi un po’?
È chiaro che c’è questo rischio. Alcuni maturano un distacco rispetto all’impegno e all’atteggiamento che avevano all’inizio. Però, forse la situazione sarda è particolare perché intorno al Centro trapianti di fegato si è creata una vera e propria comunità [l’associazione Prometeo, ndr] che condivide non solo i momenti in cui ti incontri in ospedale per il day hospital, perché devi fare i controlli (chi trimestrali chi quindicinali) e poi c’è chi ha qualche rognetta e ci deve tornare magari dopo tre giorni, quindi comunque sei lì, in una sala di attesa come questa in cui ci si confronta e con alcuni di questi hai fatto i giorni peggiori della terapia intensiva. Ma, aldilà di questo, l’associazione ha cercato di far sì che – attraverso le attività culturali, le attività ricreative vere e proprie (cioè gite con pranzi, cene, bambini, nonni e nipoti …), le attività sportive, le gare, il tifo … – alla fine si crei una comunità, quasi una lobby, per cui ci si rende conto che è nel costante sostegno dell’uno con l’altro e nell’agire come gruppo che non si perde, innanzitutto, questo criterio di solidarietà e coscienza. Tant’è che ogni volta che c’è un nuovo trapianto, noi lo attendiamo quasi come se fosse una nuova nascita e ci preoccupiamo, chiediamo chi è, anche se per noi sino a quel momento rappresenta un perfetto sconosciuto perché, dal giorno dopo, se tutto va bene, e poche settimane a seguire, sarà uno che con noi seguirà lo stesso iter. Per cui se, all’interno dei trapiantati sardi, che sono circa duecentoventi, centocinquanta seguono questo cammino, è una percentuale altissima.
C’è anche qualche trapiantato che magari rifiuta il confronto con chi ha vissuto quest’esperienza?
Beh, abbiamo detto che c’è quel venti per cento. Devo dirti, però, che quelli che veramente si chiudono sono pochi. Pochi pochi. E, ti ribadisco, fanno un errore fondamentalmente per se stessi. Con questo girare per tutto l’anno in tutto il Paese, ho avuto la possibilità di incontrare altre realtà fra le quali, soprattutto, quella dell’Emilia Romagna e ho partecipato a diverse loro iniziative. In Emilia Romagna esiste un tipo di comunità tra trapiantati di fegato e di rene che è molto simile a quella sarda, tenendo anche conto del fatto che molti sardi, prima del 2004, andavano a trapiantarsi nelle strutture di Modena e di Bologna. Quindi esiste – anche all’interno di quella realtà – una forte presenza di sardi che si sono trapiantati al Sant’Orsola, dove peraltro il primario è un cagliaritano, seppure abbia fatto un percorso che l’ha portato negli Stati uniti, poi a Roma e quindi manchi da Cagliari forse da venticinque anni.
Cosa non sei disposto a perdonare agli altri e cosa non perdoni a te stesso?
Agli altri son disposto a perdonare tutto.
Tutto tutto?
Sì, sì. Nel momento in cui poi c’è il riconoscimento di un errore il perdono è totale; nel momento in cui non c’è magari faccio più fatica io, però non tocco neanche il dover affrontare il sentimento del perdono: mi scivola, non ha importanza per me. Non ha nessuna importanza. Niente di quello che noi possiamo considerare offesa ha più importanza. Cosa non mi perdono io? No, non sono io che mi devo perdonare: sarà alla fine di questo cammino che mi si dovrà dire se sono stato perdonato o meno. Non spetta a me questa affermazione.
Torniamo alla tua attività di scrittore: ti trovi meglio a scrivere in autonomia o a quattro mani, visto che hai provato tutte e due le esperienze?
Mah, corrispondono a delle esigenze differenti a seconda del libro e sono, diciamo, complementari. Tenendo conto che adesso ho voglia di scrivere nuovamente da solo. In realtà, su dieci/nove romanzi, due sono stati scritti con Massimo Carlotto, uno è stato scritto in gruppo e poi questo [Chiedo scusa] per il quale, però, come dice Valerio Mastandrea stesso, lui è stato una stampella. Per cui abbiamo provato un po’ tutte le forme: con Carlotto, in gruppo, con un grande cagacazzo come Valerio affianco (che non scriveva e poi magari anche scriveva, ma rompeva le scatole) e poi ci sono cinque romanzi in solitudine. E anche per i prossimi due sarò da solo. Però è bello incontrarsi con gli scrittori, perché c’è un confronto, c’è una mediazione. Son cose diverse.
Ora una domanda per Abate-giornalista: secondo te, è vero che media e pubblico hanno sviluppato un’attenzione morbosa nei confronti del crimine?
Sì. Dici bene, laddove imperversano magari trasmissioni televisive in cui la morbosità viene sviluppata attraverso grafici e ricostruzioni anche inutili, “plastichini” ... Meraviglia il fatto che viene fatta una scelta, ovvero proviamo a fare un esempio: la scelta viene fatta su un caso classico, che può essere appunto un delitto maturato all’interno di un determinato ambito (i giovani), un determinato argomento (una morbosità sessuale) e allora si punta particolarmente l’attenzione. Faccio subito un esempio giusto per capirci: perché interessarsi in maniera morbosa di un omicidio come il giallo di Garlasco – con tutto il rispetto nei confronti di Chiara Poggi, ci mancherebbe altro – ma, ad esempio, mezzo grafico non si è mai visto e non si vedrà sicuramente per il triplice omicidio di avantieri sera [l’intervista è stata realizzata lo scorso 7 dicembre, ndr] a Villacidro all’interno di un’azienda gestita da oristanesi? O, ancora, perché il rapimento di due cooperatrici romane (Francesca e Francesca) tiene testa sui media per mesi e, invece, il rapimento di Rossella Urru è completamente dimenticato? Sono dei sistemi, secondo me, fortemente studiati a tavolino da determinati media. Da determinati media, non da tutti.
Ti sei mai pentito di aver espresso pubblicamente una certa opinione?
Mai.
Da Abate- ex dj, invece, voglio sapere qual è l’album o il brano più brutto che abbia mai ascoltato e quale il più bello.
Eh … Sono tutte e due delle liste lunghissime, di brani belli e di brani brutti. Allora, vediamo di far torto a qualcuno … È anche vero, però, che un brano molto brutto è testimone di un’epoca, per cui ha il merito di identificare un’epoca per la sua bruttezza o sciatteria. Sicuramente, un brano bruttissimo è Mi scappa la pipì di Pippo Franco, con cui ha addirittura partecipato come ospite d’onore a Sanremo. Fammi pensare, invece, a una canzone molto bella … Bisognerebbe fare una selezione … Una che mi viene in mente così è Com’è profondo il mare di Lucio Dalla.
Ora ci parli un po’ di Aristan?
Allo stato attuale Aristan è un progetto che può partire o anche non partire, nel senso che entro il 25 dicembre è necessario soddisfare il vincolo dei 380 iscritti. Se Aristan diventa realtà – come speriamo che sia – , è una sorta di percorso che si decide di intraprendere al nostro fianco. Noi non siamo dei professori: siamo degli stimolatori di idee, di sentimenti, di emozioni. Per cui è un mettere a disposizione la propria esperienza in determinati argomenti, in determinate maniere, a favore di chi non dico debba conquistare in questa maniera la felicità, ma magari può svolgere il proprio lavoro o decidere di cambiare improvvisamente lavoro perché folgorato … cosa ti posso dire … da una lezione di Gessa [prof. Gian Luigi Gessa, ndr], che gli fa scoprire quanto possa essere affascinante occuparsi di neuroscienze, senza bisogno di doversi sedere su un banco dell’Università di Medicina. Con un approccio diverso, con un risultato altrettanto diverso: non sono lezioni “in sostituzione di” – direi un’eresia – ma sono dei percorsi paralleli, perché si parte dal criterio che se io faccio una cosa perché mi piace da morire e se riesco per di più a fare il lavoro che mi piace da morire, raggiungo probabilmente un’alta percentuale di felicità all’interno della mia vita. Una delle lezioni dice esattamente questo, che noi non possiamo limitare il divertimento nel momento in cui chiudiamo la porta del nostro ufficio o addirittura la porta di casa, per cui il divertimento sono quelle due ore che mi ritaglio: la partita a calcetto, la gita … Il divertimento, inteso nel termine più alto di questo vocabolo, deve essere tutta la mia vita. Tutta la mia vita deve essere improntata a soddisfarmi, non a frustrarmi. Allora diciamo che queste sono pillole di felicità, intese in questa maniera. Faccio una cosa che mi piace tantissimo; vado a sentire – che so – Bachisio Bandinu e m’innamoro improvvisamente di ciò che insegna senza iscrivermi all’Università e poi, magari, dopo che l’ho sentito, mi iscriverò all’Università e seguirò un determinato corso oppure non lo seguirò ma farò i miei approfondimenti, i miei studi, o godrò soltanto di quelle quattro lezioni che ho fatto. Questa è l’Università di Aristan. Capisco che il termine “università” possa far sorgere il dubbio di altezzosità, perché uno vuole darsi un tono accademico, ma è un gioco.
Mi riallaccio a quello che stavi dicendo: tu fai il lavoro che ti soddisfa?
Certo. Sempre. Io ho sempre inseguito – a costo di sacrifici, di rinunce, di fratture familiari importanti – esclusivamente quello che mi rendeva felice. Io faccio quello che mi rende felice. Che poi non significa che non costi fatica (perché costa fatica, costa sacrificio, costa rinunce, costa a volte anche dei passi indietro), però è il perseguimento di uno scopo, è la strada che tu fai. Io quando mi alzo la mattina non dico “uff, che palle, devo andare all’Unione sarda!” o “uff, che palle, devo scrivere un nuovo libro!” o “uff, che palle, devo andare a fare uno spettacolo!”: io mi alzo la mattina felicissimo di dover fare tutto questo. Sono un po’ infelice quando le accavallo troppo queste cose e allora dico “bisogna che tiri il freno a mano”. Allora lì è l’infelicità; la mia infelicità (non è un valore assoluto, è la mia, è soggettiva) è anche non capire che bisogna avere dei momenti in cui non si fa nulla.
Torniamo un attimo a Chiedo scusa per l’ultima domanda. In questo libro descrivi benissimo lo stretto legame tra cagliaritani e Poetto. Un legame che, però, ultimamente è messo a dura prova dalle autorità locali, ad esempio con la decisione di demolire gli storici “chioschetti”. Secondo te, vi “riprenderete” questo mare?
Ce lo siamo già ripresi.
E dal modo in cui lo dice, con quel sorriso compiaciuto, non ci sono dubbi che sia così.
Dalla nostra redazione un grazie di cuore a Francesco per la sua disponibilità e, soprattutto, per la grande lezione di vita che ci ha regalato.
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Wow! 😉
aggiornamento: l’Università di Aristan ha raggiunto il minimo di adesioni previsto, dunque aprirà. Ed è ancora possibile iscriversi!