L’angolo di Full: “Il medico condotto”

Il medico condotto

 

Una bella schiena ampia, da centromediano. Del mio medico di fiducia conosco soprattutto quella. Cioè la parte anatomica che mi mostra mentre siede al computer in ambulatorio.
Il nostro medico generico opera così, ormai. Tu comunichi i sintomi, lui ti dà una mezza occhiata poi si siede al picì. Se ti fa male qui, ti prescrive le analisi, se ti duole là, ti propone l’ortopedico, se il dolore è più giù, ti becchi l’urologo, e così via.

Ma queste banali considerazioni sulla moderna sanità, rischiano di portarmi lontano dalla sorgente, cioè dai pensieri ancora in bozzolo del primo risveglio mattutino nei quali, stamani, c’ho trovato il dottor Onorato, un vecchio medico condotto comunale, di quelli che avevano iniziato la professione medica soccorrendo le levatrici in difficoltà o ricucendo il garzone di stalla incornato dalla mucca Guendalina.
La sua schiena, esile e dritta come un trinchetto, la vedevo solo quando se ne andava dopo avermi visitato, rigorosamente in casa, fosse pure per una ordinaria influenza.

«La trovo alquanto deperito, caro amico.»
«Allora non è niente di grave, dottore. Meno male.»
«Al contrario. Per quanto sembri ancora un giovanotto, lei deve curarsi seriamente, come tutti.»
Oltre che in età, il dottor Onorato era uomo all’antica e la tradizione medica di famiglia aveva certamente giovato alla sua professione. Considerava la persona nel suo insieme, piuttosto che un insieme d’organi e riteneva che la salute fisica dipendesse spesso da quella psichica. “Dai più vita ai giorni e aggiungerai più giorni alla vita” era uno dei suoi motti più ricorrenti. Le citazioni erano il suo debole, ma anche il suo forte perché le recitava sempre a proposito.

«Deve nutrirsi caro amico, ma è inutile che le prescriva ricostituenti o zabaioni. E’ lei che deve scuotersi, cambiare registro: l’entusiasmo è per la vita ciò che l’appetito è per il cibo», e intanto mi prescriveva del buon parmigiano. Sapeva che il mio malessere dipendeva, in buona misura, dal disadattamento alla recente separazione coniugale:
«Non voglio entrare nelle sue questioni sentimentali, ma l’amore reciproco non è frequente come ci fanno credere. Peraltro, chi ama e chiede di essere riamato, è un ricco che chiede la carità a un povero».
Una dopo l’altra, il bravo dottore provava le sue chiavi scegliendole con cura dal mazzo e girandole delicatamente nella toppa:
«La malinconia è un veleno sottile perché rende accetta la tristezza; diceva Hugo che la melanconia è la felicità d’esser tristi.»
A volte le sue parole mi stupivano. Non capivo come potesse scrutare nella profondità del mio animo: forse lo scorgeva in fondo ai miei occhi quando li apriva fra l’indice e il pollice per esaminare le cornee.
Quella volta, il dottor Onorato riuscì nell’intento di farmi “espettorare” i vari patemi, a partire dalla sofferta conclusione del mio matrimonio, all’eccessivo carico di lavoro e, per ogni sintomo, il buon dottore traeva un’aforistica prescrizione dal suo personalissimo ricettario letterario:
«Non si soffermi troppo sui suoi trascorsi coniugali: spesso, nelle relazioni, si è più sereni per le cose che si ignorano che per quelle che si sanno.»
«Eviti di tribolare troppo in quell’azienda: sappia che, secondo Confucio, l’uomo abile non è indaffarato e l’uomo indaffarato non è abile».
«Le piace quella signora? Allora l’avvicini, si proponga; la sua compagnia potrebbe esserle più salutare delle sue passeggiate: una volta l’aria era pulita e il sesso sporco, ma oggi è tutto il contrario.»
«Dica sempre di si a qualsiasi cosa lecita che possa accendere il suo interesse: il desiderio è metà della vita, l’indifferenza è metà della morte.»

Le citazioni del dottor Onorato erano come pillole colorate senza ricetta e senza ticket che, diluite nei suoi larghi sorrisi, s’ingollavano d’un fiato. Né tardarono a dare i loro risultati.
Ripresi l’abitudine di cucinarmi il pranzo e la cena in modo regolare ed equilibrato. In azienda mi presi qualche giorno di riposo. Recuperai alcuni numeri telefonici e, qualche sera dopo, al telefono, mi sorpresi a sussurrare con voce suadente che, oggigiorno, nemmeno l’aria è rimasta pura e il desiderio è metà della vita per un uomo e una donna abili, liberi o non troppo indaffarati… come Confucio.

Al funerale del dottor Onorato c’ero anch’io e ricordo che mi presentai alla vedova per le condoglianze. Credevo di esserle estraneo, invece quando sentì il mio nome mi guardò come fossi una persona nota: «Lei è il signore che vive solo in cima alla collina», disse piano. Allora capii appieno il significato di “coppia molto unita”.
«Non vivo più solo, signora», mentii. Riferendo la mia solitudine alla sua, avrei fatto come il ricco che racconta la povertà a un povero.

Fulvio Musso

 

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