Chernobyl: retaggio storico a lunga scadenza

È sempre un “dovere” ricordare

 

Ogni volta che si intende ricordare un anniversario, specie se legato ad eventi di estremo coinvolgimento sociale, va da sé che i riferimenti non sono soltanto ai fatti e persone ma anche ai luoghi la cui storia è bene rammentare. È il caso, ad esempio, di Chernobyl, città dell’Ucraina tragicamente coinvolta dal più grande disastro nucleare. Chernobyl fu fondata tre secoli prima della scoperta delle Americhe, ben prima che il Rinascimento e la Riforma cambiassero radicalmente il volto dell’Europa, ben cinque secoli prima che Pietro il Grande estendesse l’Impero Russo. Per molti secoli i suoi abitanti hanno vissuto coltivando i prodotti della terra e allevando bestiame, nonostante il suolo fosse sabbioso e gran parte del territorio circostante paludoso e inadatto alla agricoltura. Tuttavia la popolazione continuò a vivere nonostante le successive carestie, le pestilenze e i gelidi inverni. Oggi, a maggior ragione dopo il disastro nucleare, è una cittadina quasi deserta, priva (o quasi) di ogni forma di vita, circondata da una foresta spoglia e bruna, ma comunque in lenta ripresa…

Prima di quel fatidico 26 aprile del 1986 (alle ore 1,23), l’incidente più noto al mondo aveva riguardato un reattore americano: l’Unità 2 della centrale della Metropolitan Edison di Trhee mile Islands, presso Harrisburg in Pennsylvania. La storia ricorda che alle quattro del mattino del 28 marzo 1979 fu inavvertitamente interrotto il normale flusso di acqua di refrigerazione del reattore, con conseguente perdita d’acqua. Nonostante il “ripristino” automatico e un’azione di raffreddamento ausiliario (shutdown) per impedire la fusione del nocciolo del reattore nucleare e un conseguente sprofondamento del materiale radioattivo nel sottosuolo (meltdown), gli addetti alla sala di controllo non avevano notato l’apertura della valvola e, convinti che il reattore fosse adeguatamente alimentato d’acqua, chiusero le pompe del sistema ausiliario. Trascorsero due ore prima di scoprire l’errore, ma ormai l’acqua all’interno era in ebollizione. «Per questa ragione – spiegano Robert Gale e Thomas Hauser, rispettivamente medico e avvocato, autori del volume La Nube (Sperling e Kupfer,1988) – i tubi del combustibile d’uranio si surriscaldarono, dilatandosi e rompendosi. Una certa quantità di materiale radioattivo filtrò nella struttura di rivestimento e migliaia di litri d’acqua radioattiva furono pompati in un fabbricato ausiliario ospitante i serbatoi d’acqua. Una piccola quantità di materiale radioattivo si dissolse sotto forma di gas nella atmosfera attraverso un filtro a carbone: l’esposizione media degli  abitanti della zona fu minima».

Un’altra eventualità simile, ricordano gli autori, si verificò sempre negli USA nella centrale elettronucleare di Decatur in Alabama. Un assistente elettricista, si racconta nel volume, stava controllando alcune fughe d’aria nella sala distribuzione cavi dell’Unità 1 di Browun’s Ferry. Il suo compito consisteva nel far passare una candela accesa in vari punti e controllare che la fiamma non vacillasse; ma durante questa procedura l’isolamento di poliuretano di un cavo prese fuoco, l’incendio si propagò nella sala dove convergevano tutti i cavi elettrici dell’impianto. Furono danneggiati 1.600 cavi di cui 600 essenziali per il sistema di sicurezza; furono resi inefficaci tutti i sistemi di sicurezza predisposti per canalizzare l’acqua verso il reattore. Questi due episodi di incidenti nucleari americani, apparentemente dagli effetti contenuti non causarono morti e non furono emesse radiazioni nell’atmosfera; eventi che col tempo diedero modo agli “esperti” di chiedersi se i pericoli del nucleare fossero da considerarsi reali o addirittura immaginari. Dubbi e perplessità si sommarono e, in attesa di risposte omogenee e concordi, la realtà di Chernobyl si manifestò in tutta la sua possanza e conseguenze, ma anche i non pochi dubbi sulla sua prevedibilità. In realtà la serie di avvenimenti fatali ebbe inizio il mattino del 25 aprile 1986 (nel 1894 il dieci per cento di tutta l’elettricità prodotta in URSS proveniva da fonti nucleari, con l’obiettivo di raggiungere il 50% nel 2000, n.d.r.) e alle ore 1,23 del mattino successivo esplose il reattore dell’Unità 4 di Chernobyl.

 

I quattro reattori di Chernobyl

Le esplosioni furono due: la prima causata da vapore, la seconda da vapore o idrogeno formatosi quando il rivestimento dei tubi di combustibile aveva cominciato a fondere, interagendo con l’acqua delle condutture a pressione. La sera dello stesso giorno, alle 17,58 l’agenzia  di stampa sovietica Tass diffuse un comunicato per cui, per la prima volta, si ammetteva l’incidente: «Il danneggiamento di un reattore ha provocato oggi un incidente nella centrale nucleare di Chernobyl, regione di Kiev, in Ucraina. Si sta dando aiuto a coloro che sono stati colpiti». Ma non altrettanto fece la Germania ove in quello stesso periodo si verificò un incidente con emissione di radioattività, celando l’evento dietro la nube di Chernobyl: in due giorni il carico radioattivo aveva iniziato ad espandersi per gran parte dell’Europa. L’area maggiormente contaminata era di 125-146 mila chilometri quadrati comprendendo territori ucraini, della Bielorussia e della Russia. Sono stati necessari 1.600 voli di elicottero per spegnere l’incendio con sabbia e piombo. Nei primi 10 giorni vennero allontanante 130mila persone e successivamente altre 45mila, ma sempre dopo il 1° maggio festa dei lavoratori e di grande adunate di folla, data dopo la quale le informazioni furono più gravi e la gente invitata a stare in casa. Delle prime 134 persone colpite da radiazioni 31 sono morte nei primi giorni. Tra 600mila e 800mila gli addetti impiegati nelle varie operazioni di intervento e soccorso, me è tuttora controverso il numero degli ammalati e dei deceduti: secondo le stime e il rapporto del Forum per Chernobyl si parla di diverse migliaia di morti. Le polemiche, i dubbi e i diversi riscontri sulle conseguenze di questa catastrofe sono ancora oggetto di discussione, ma è unanime la constatazione che ancora oggi milioni di persone continuano a vivere in un’area che rimarrà pesantemente contaminata dalle radiazioni per molti anni: l’impatto ha riguardato non solo Ucraina, Bielorussia e Russia, poiché oltre la metà del Cesio 137 rilasciato in atmosfera ha raggiunto molti paesi europei fra cui l’Italia. Secondo alcuni divulgatori di storia è stato calcolato che l’incidente ha emesso nell’ambiente radiazioni 400 volte superiori a quelle dimesse dalla bomba di Hiroshima, ma ha rilasciato radiazioni da 100 a 1.000 volte inferiori a quelle causate dai test di armi nucleari effettuati a metà del ventesimo secolo.

Quello che si continua a definire il disastro, tragedia o catastrofe di Chernobyl, mise in moto una straordinaria ed immane catena di avvenimenti con profonde conseguenze sociali, politiche e scientifiche. Ma quale la situazione sanitaria dopo questo incidente? Secondo un rapporto di alcuni anni fa di Legambiente non è facile stabilirlo: l’epidemiologia di questi ultimi anni sembra non denunciare stime precise; tuttavia a titolo riassuntivo, gli effetti delle radiazioni pare abbiano coinvolto tra morti e feriti oltre tre milioni di persone, di cui un terzo bambini. Le stime dei danni economici fino al 2015 raggiungono in Bielorussia i 43,3 miliardi di dollari; i costi legati alle conseguenze del disastro costituivano nel 1991 il 22,3% del bilancio nazionale, per scendere al 10,9% nel 1995 e al 5%  più recentemente. Lo stato russo spese tra il 1992 e il 1998 circa 3,8miliardi di dollari, quasi tutti in compensazione delle vittime e dei soccorritori. L’Unione Sovietica di allora e l’Europa furono unite nell’affrontare la grave emergenza conseguente il disastro radioattivo e ancora oggi numerose nazioni dispensano energie economiche per sanare la contaminazione radioattiva. Ci fu un nuovo impulso globale nella ricerca della sicurezza nucleare e più in generale una revisione critica delle conoscenze sulla radioprotezione e sull’approccio alle emergenze nucleari. «Ma la lezione più importante imparata dai governi – asserisce Alessandro Pascolini del Dipartimento di Fisica della Università di Padova – è stata senza dubbio il cambiamento radicale del loro atteggiamento nei riguardi delle catastrofi di origine tecnologica. Si accettò ad esempio il fatto che in ogni settore delle applicazioni tecnologiche possono avvenire gravi incidenti, con la necessità di pianificare in anticipo le necessarie misure di intervento: la sicurezza assoluta di un qualsiasi impianto è una pericolosa utopia; inoltre si riconobbe il carattere transnazionale dei grandi incidenti e quindi la necessità di azioni comuni e di esercitazioni di soccorso a livello sia nazionale che internazionale. Si attenuarono le resistenze dei vari governi ad accettare delle regole generali  sulla sicurezza nucleare e vincoli internazionali sulla gestione degli impianti civili e delle eventuali emergenze. Ciò diede impulso ad accordi internazionali e sospinse il ruolo di avanguardia di  settori ONU quali l’IAEA». Ciò nonostante esistono ancora problemi aperti per impostare regole più mirate e severe alla luce di una significativa ripresa della energia nucleare in varie parti del mondo.

Ernesto Bodini

(giornalista scientifico)

 

Nella foto la centrale nucleare di Chernobyl all’epoca del disastro

 

     

 

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