La burocrazia in Italia, suggerimenti e consigli per combatterla. Tra pragmatismo e inefficienza
Burocrazia: tra pragmatismo e inefficienza
Quello che si potrebbe definire “comportamento burocratico”, o modus operandi, era inizialmente gestito dal pragmatismo piemontese nello Stato Sabaudo, ed era indice di attività produttiva al servizio del cittadino in quanto i tempi di produzione di un documento erano rigorosamente programmati e rispettati, come testimonia una “Circolare interna” di un capo sezione ministeriale dell’ottobre 1866. Da tale modalità risalta, quanto a derivazione, il termine “burocratese”, che indica un linguaggio, una maniera di esprimersi attenta alla forma, all’interpretazione letterale, invece che al contenuto… deve parlare poco (troppo se con finalità diverse…) e, se lo fa, deve usare i termini del Regolamento, il burocratese, appunto, perché sa bene che in questo modo non si fa capire, ma è esattamente quello che vuole raggiungere! (“Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro, pochissimi” – G. Galilei). Paradossalmente, un tempo (sino agli inizi del ‘900), il burocrate impersonava il massimo dell’efficienza. Ad esempio, per la redazione del “Decreto di Concessione” di un sussidio il tempo impiegato era di 20 m., per la relativa copiatura 15 m., per la redazione della stessa 5 m. e 1 m. per la registrazione del documento. Inoltre, per l’esecuzione di ben 15 operazioni amministrative complessivamente non si doveva superare 1 h. e 17 m., in considerazione del costo per lo Stato (nel dettaglio: carta, inchiostro, illuminazione degli uffici, tempo degli impiegati rapportato al loro stipendio, etc. per un totale di 1 lira e 12 centesimi). Oggi, queste operazioni richiederebbero giorni, settimane o mesi a costi proporzionalmente incalcolabili. Infatti, persiste tuttora un mondo di carte bollate (un po’ meno quelle protocollate); uno “stile” che si porta nella vita, almeno quella di ufficio, e questo, nonostante il progresso tecnologico-informatico e la costante tendenza al risparmio…
La burocrazia, ovvero questo modo di lavorare del dipendente della P.A., funzionò decorosamente fino all’inizio del ‘900, anche in ragione del fatto che la qualifica di addetto al pubblico impiego era considerata un “onore” malgrado la modesta retribuzione; questi impiegati avevano un senso di appartenenza quasi di “devozione” per lo Stato poiché il senso del dovere era un requisito non richiesto, bensì scontato. Il posto statale assumeva così un significato di compensazione tanto che l’impiegato statale si sentiva un privilegiato e quindi legato alla classe politica da un rapporto di subordinazione. Ma dove ha avuto inizio l’inversione di questo “modus operandi” del burocrate? E quale è stato il punto di deterioramento della P.A. fino a farla divenire quella che è ancora oggi (almeno in parte), la “vergogna” di un Paese (il nostro) che si reputa democratico, efficiente e competitivo in molti settori e il cui apparato statale è invaso da clientelismo, nepotismo oltre ai ricorrenti reati contro la P.A. (infedeltà), e con un livello di produttività che talvolta lascia a desiderare?
Alla fine del 1861, in coincidenza con l’Unità d’Italia (e forse l’epoca è proprio una coincidenza) gli impiegati statali, considerano uno Stato di minori dimensioni rispetto ad oggi (Roma e il Lazio facevano ancora parte dello Stato Pontificio), erano complessivamente 3.000, nel 1999 erano quasi 3,5 milioni: in 138 anni sono aumentati di circa 1.200 volte con una crescita di 7 volte all’anno. Il Regio Decreto del 1904 tolse il controllo sulle “piante organiche” dei Ministeri alle Direzioni amministrative per affidarlo invece al Parlamento; provvedimento che segnò lo sfascio dando adito ad un incontrollato processo di assunzioni clientelari con cui i parlamentari si garantivano un bacino notevole di “voti di scambio” (pratica tuttora rispettata…). Inoltre, quando non era possibile l’assunzione in pianta stabile, si faceva massiccio ricorso al precariato, che lì a poco rivendicava la stabilizzazione (l’assunzione a tempo indeterminato), incrementando gli organici di gran lunga oltre il necessario. L’impiego pubblico diventava un mezzo per stabilizzare la società ed il numero degli impiegati pubblici cresceva notevolmente e, nel periodo giolittiano, sono soprattutto due i fenomeni da sottolineare: la merdionalizzazione e la sindacalizzazione dell’A.P.
Inoltre si insinuò la piaga della inefficienza e della lentezza che nacque nel 1900 quando, con il fiorire degli studi giuridici del momento, nella mente dei governanti si insinuò l’assurda convinzione che alla base della P.A. dovesse esserci, più che la fattiva esperienza maturata sul campo, la non conoscenza del diritto amministrativo: non c’era popolazione più dedita alla speculazione fine a se stessa di quella meridionale (mi si perdoni, ma è realtà storica). Gli impiegati meridionali della P.A. avevano una formazione soprattutto filosofica, giuridica, umanistica tanto da “soppiantare” il pragmatismo piemontese con una cultura astratta. Laddove prima prevaleva il burocrate che si formava sul campo, ora invece prevaleva la formazione scolastico/universitaria. La P.A. fu così invasa da eserciti di laureati e diplomati e semplici studenti meridionali che, una volta entrati nella “cittadella statale”, aprirono le porte come uscieri, fattorini, archivisti, segretari, portaborse più o meno definibili come tali, etc., a un esercito di parenti (nepotismo) e amici (clientelismo), “meridionalizzando”, per così dire, in modo irreversibile la burocrazia. Tale sistema da allora è diventato sinonimo di macchinosità, lentezza, ritardi, complicazione, ossequio (e anche servilismo) ai potenti, e arroganza verso i deboli (cittadini-utenti-contribuenti); caratteristiche della maggior parte dei pubblici impiegati in quanto retaggio mediterraneo. Il burocrate è quindi colui che fa per non concludere mai, e la “pratica” esiste per essere spostata e sempre demandata ad altri; anche se il passare sul proprio tavolo è essenziale: essenziale ma inutile al fine della sua conclusione.
L’Italia, uscita stremata dalla guerra, stava cominciando a risollevarsi: negli anni ’50 si profilò infatti quel boom economico che sarebbe poi esploso nel decennio successivo e da più parti emersero richieste di modernizzazione dell’apparato burocratico dello Stato in modo da favorire la ripresa del Paese. Qualcosa in effetti si mosse: nel 1950 fu istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, l’Ufficio per la riforma burocratica, destinato a diventare negli anni ’80, dopo fasi di intenso lavoro e altre di stasi, il Dipartimento della funzione pubblica. Alla metà degli anni ’50 le parole d’ordine che ispiravano l’azione dell’Ufficio erano tre: semplificazione dei procedimenti amministrativi, modernizzazione degli uffici attraverso l’introduzione di nuove tecnologie (che per l’epoca erano, ad esempio, le macchine fotocopiatrici), e attenzione alle “relazioni pubbliche e umane”, dove per relazioni umane si intendevano quelle interne e per relazioni pubbliche quelle fra amministrazione e cittadini. Il “silenzioso” pragmatismo dei piemontesi si sostituì alla più ciarliera e pigra indole di campani e dei romani, noti pianificatori di quel vezzo noto come “pausa”, elemento distintivo della mentalità prevalentemente meridionale: pausa caffè, pausa giornale, pausa spesa, pausa salottiera, pausa sigaretta, etc. Ma anche il Fascismo ebbe le sue colpe: nell’intento di assicurarsi la fedeltà della categoria che era già cresciuta di diversi milioni che, con le famiglie, rappresentava un terzo del consenso nazionale, ed esautorando nel contempo i sindacati assoggettò (mi si passi questo termine) il pubblico impiego con privilegi e garanzie in cambio della fedele adesione al regime. Si potrebbe affermare che la funzione della burocrazia è di amministrare il comportamento pubblico secondo regole imposte dal potere, qualsiasi esso sia: totalitario o democratico. Per esempio, l’orario spezzato con una pausa lunga fu trasformato in orario unico: dalle 9.00 alle 16.00 con intervallo per il pranzo dalle 12.30 alle 13.30, poi anticipato dalle 8.00 alle 14.00. Ciò ha favorito l’immenso fenomeno del secondo lavoro (in nero) degli statali, causa non secondaria della disoccupazione e dell’evasione fiscale. Oggi, per rispondere alle esigenze sempre più impellenti del cittadino, gli orari di sportello della maggior parte degli enti pubblici e di molti servizi sono accessibili anche nel pomeriggio, solitamente sino alle ore 16.00; in altri casi (per la verità più rari) le prestazioni vengono erogate anche al sabato mattino.
In questi ultimi decenni nei concorsi pubblici la disciplina fondamentale era quella del diritto amministrativo e la P.A., proprio quando diventava una forma di compensazione sociale assumeva un corpo dominato da logiche assolutamente corporative da cui derivava il grande mutamento dell’epoca: la sindacalizzazione. Grande responsabilità la ebbero, infatti, anche i sindacati che, per imporre la propria egemonia nell’ampio scenario dell’impiego pubblico, oltre a perpetuare i tradizionali privilegi (garanzia perenne del posto di lavoro, con impossibilità di licenziamento, facilitazioni per ottenere trasferimenti nell’ambito del lavoro e residenziali, pensione anticipata. A questo proposito fece scandalo il periodo delle “baby pensioni” tra il 1973 e il 1992 (donne sposate e con figli: 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi; lavoratori statali con 20 anni di contributi, dipendenti di enti locali con 25 anni di contributi) hanno costantemente eretto barricate contro la meritocrazia (anche questo fenomeno fa parte della burocrazia), livellando tutto verso il basso e coprendo anche i comportamenti più censurabili come l’assenteismo e la scarsa produttività oltre alla inefficienza… Per non parlare della “emarginazione” o della scarsa considerazione dei non titolati, ossia dei cosiddetti autodidatta… Il burocrate trova nei Partiti, soprattutto nella D.C., validi protettori e nella maggioranza del Governo, e oltre che nell’opposizione, lo scontento dei pubblici impiegati non trova orecchie sorde. Negli anni ’50 inizia una nuova fase di interventismo statale: si ereditano dal Fascismo enti e uffici e si viene a consolidare il potere all’interno della P.A. In questo periodo fallisce, però, ogni tentativo di modernizzazione dello Stato sino a vanificarsi ogni sforzo dello Stato e quindi di dotarsi di una amministrazione che proceda con scioltezza tra i vari settori. I dipendenti continuano a crescere e questi incrementi dipesero anche dal tentativo non riuscito di non assumere gli avventizi (coloro che pur entrando come precari diventano impiegati statali a tutti gli effetti dopo un certo periodo di tempo).
Ernesto Bodini
(Giornalista scientifico)
Questo articolo dovrebbe essere inserito nei testi scolastici per quanto rivela la realtà storica di una P.A. che ha vanificao tutto lo sforzo della creatività degli itaiani del dopo-guerra e che ha portato l’Italia nella situazione difficile in cui si trova oggi svantaggiata rispetto alle altre nazioni nella crisi finanziaria. Io ho fatto parte della P.A. prima di emigrare e posso testimoniare con cognizione di causa la completa veridicità espressa in questo articolo.
Ringrazio per il lavoro di analisi e di ricerca svolto per sintetizzare il tutto in un articolo chiaro e completo utile alle nuove generazioni che potrebbero trarne, dalla conoscenza, un grande vantaggio, meridionali inclusi. – Daniele Bertozzi