Uno sguardo alle demenze
Maggior conoscenza e sostegno come “supporto” terapeutico
È ormai un impegno ricorrente (oltre che un dovere, anche da parte di chi scrive) prendere in considerazione argomenti focalizzati su temi quali la cronicità e l’assistenza, e anche se in tempi di “ristrettezze” economico-finanziarie e strutturali, tali carenze non devono penalizzare in alcun modo chi versa in condizioni di bisogno. Tra questi, ad esempio, le persone affette da demenza nelle sue più svariate forme e gravità. Ma cosa sono le demenze? Con il termine di demenza, in sintesi, si indica non una malattia ma un insieme di sintomi (sindrome), che comporta l’alterazione progressiva di alcune funzioni quali memoria, ragionamento, linguaggio, capacità di orientarsi, di svolgere movimenti motori complessi, ma anche alterazioni della personalità e del comportamento; tutte alterazioni che interferiscono con gli atti quotidiani della vita. Sono tra le principali cause di disabilità e di disagio sociale con un impatto notevole in termini socio-sanitari, sia perché un sempre maggior numero di famiglie ne sono coinvolte, sia perché richiedono una qualificata rete integrata di servizi sanitari e socio-assistenziali.
Stime di prevalenza indicano che, rispetto al 2001, nei Paesi europei ci si dovrà aspettare un incremento del 43% di persone affette da demenza entro il 2020, e del 100% entro il 2040. In Europa si stima che la demenza di Alzheimer rappresenti il 54% di tutte le demenze con una prevalenza nella popolazione ultra 65enne del 4,4%. La prevalenza di questa patologia aumenta con l’età e risulta maggiore nelle donne, che presentano valori che vanno dallo 0,7% per la classe d’età 65-69 anni al 23,6% per le ultra 90enni, rispetto agli uomini i cui valori variano rispettivamente dallo 0,6% al 17,6%. Considerando la malattia di Alzheimer la più frequente tra le cause di demenza (range: 43%-64%), il numero stimato di pazienti nella popolazione italiana ultra 65enne del 2001 è di 492.000 (range: 357.000-627.000, con una prevalenza del 3,5% mentre la sua incidenza è di 65.000 nuovi casi/anno.
Attualmente le demenze costituiscono un insieme di patologie non guaribili che devono essere affrontate con un approccio globale, e progressivo deve essere il coinvolgimento della persona e dei suoi familiari. La demenza, forse più di qualsiasi altra patologia, ha un effetto molto marcato sui caregiver che può durare a lungo anche dopo che l’assistenza si è conclusa. A questo proposito è importante ricordare che in letteratura sono sempre più spesso presenti evidenze che mostrano come un intervento sulla Rete dei Servizi sia efficace ed efficiente nel modificare la storia naturale delle demenze. Una forte rete assistenziale che offra al malato e alla sua famiglia una presa in carico globale, deve considerare la molteplicità dei problemi di demenza correlati ponendosi accanto alle famiglie e avendo determinati obiettivi di salute come il contenere il declino cognitivo e della disabilità del malato, permettere al malato di restare il più a lungo possibile nel proprio nucleo famigliare, e sostenere il nucleo familiare stesso.
Credo sia noto a tutti che la persona affetta da demenza, malattia di Alzheimer, malattia di Parkinson, di Sclerosi Multipla, di Sclerosi Laterale Amiotrofica, o di altro tipo, trova principalmente in famiglia (l’80% del tempo) il suo luogo privilegiato di assistenza; anche se il progressivo declino cognitivo e funzionale, ma soprattutto la comparsa di disturbi comportamentali (agitazione, aggressività, disturbo notturno, o irrequietezza motoria con vagabondaggio e pericolo di fuga), sono i principali motivi di ricorso alle strutture pubbliche. Dati epidemiologici relativi alle strutture residenziali del mondo occidentale, ci dicono che circa il 70% degli ospiti sono affetti da una qualche forma di demenza. Lo stesso vale per coloro che frequentano i Centri diurni anche se in genere, questi ultimi, hanno un’età leggermente inferiore rispetto a una malattia in fase avanzata.
I malati affetti da demenza non sono che un’isola di un esteso arcipelago popolato da malati cronici, nei confronti dei quali ritengo doveroso sottolineare (a costo di rasentare una sorta di “pleonasmo”) che curare ed assistere un paziente acuto o cronico non è più soltanto ripristinare la salute come “vita nel silenzio degli organi” (secondo la definizione storica del chirurgo francese René Leriche (1879-1955), autore di importanti studi sulla funzione vasomotoria, sulle arteriopatie periferiche e sull’anatomia e fisiopatologia del sistema simpatico), ma soprattutto aiutare il malato-persona a recuperare (per quanto possibile) benessere fisico e psichico, e con esso il rispetto della sua dignità.
Un obiettivo che pare essere scontato, e che gli anglosassoni sintetizzano nella espressione di “empowerment”, ossia potenziamento globale delle risorse psicofisiche e biologiche della persona. Nelle fasi avanzate della lunga e penosa malattia, Freud (per molti anni paziente oncologico) scriveva: «La vita non mi dà gioia, da diversi punti di vista sono un relitto, ma sono in possesso delle mie facoltà intellettuali, lavoro ancora. Preferisco pensare tra i tormenti che non pensare». L’autodeterminazione non è di tutti ma è importante (per quanto possibile) dare gioia alla vita per evitare che la sofferenza abbia il sopravvento. Insomma, una ragione di vita sia per il malato che per i suoi familiari e per il curante.
Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)