L’angolo di Full: “Il ritorno”
Ciò che fa di Fulvio Musso un signor narratore – lo sanno bene i suoi abituali lettori – è la sua capacità di mettere la tecnica a servizio della mente e del cuore.
E si sa che l’una ma soprattutto l’altro sono sensibili al richiamo delle radici, per cui non stupisce che Full abbia saputo rappresentare in un modo così bello il senso dell’appartenenza.
Prima di lasciarvi a questa tenera e potremo dire rassicurante lettura, vi ricordiamo che anche voi potete inviarci i vostri racconti: dovete semplicemente seguire le indicazioni del regolamento di Raccontonweb.
Avevo già avvistato da lontano l’imponente castello di Bardi arroccato sulla rupe di diaspro rosso che sovrasta il paese. La piazza principale invece lo snobba un po’ lasciandone intravedere solo alcune torri e dando il massimo risalto alle due chiese, la principale delle quali si pavoneggia con una pala del Parmigianino ben propagandata. Giardini e fontane completano l’architettura. Intorno, gelaterie e bar con molti tavolini all’esterno, indicano il carattere turistico del luogo. È un turismo prevalentemente locale, infatti, nel ristorante in piazza, sentirò ordinare alla cucina un piatto non propriamente internazionale: una tagliatelle al doppio ragù Star!
Parcheggio in piazza e avvicino un signore dal tipico colorito roseo-emilia (da culatello e lambrusco). M’informo sulla strada per la frazione Boccolo e, da buon emiliano boccalarga, gli rivelo immediatamente che sono nato lì e vi torno per la prima volta dopo sessant’anni.
Lui non mi delude partecipando cordialmente: Davvero? Ma pensa? Da sessant’anni? Quando hanno portato la ferrovia in valle. Ma… allora abbiamo la stessa età! Sorride meravigliato come avesse scoperto una coincidenza rara, così gli aumento le combinazioni: saremo certamente “figli” della stessa levatrice!
Ah, questo è sicuro veh… in pratica siamo mezzi cugini! Ride divertito: Dov’è nato? a Boccolo? Fiol della maestra? Sarà scappata subito come tutte. Sono posti di gran miseria… ancora adesso, c’è rimasto qualche vecchio. Non è neanche tanto vicino, se ci va vedrà: una gran miseria!
L’ora di cena è ancora lontana così mi avvio per Boccolo de’ Tassi. Curve su curve, sembra di non arrivare mai. Abituato alle superfici minime dei popolosi Comuni lombardi, stupisco delle straordinarie estensioni di questi territori disabitati. Ogni tanto un cartello a indicare la tale “località”. Faccio qualcosa come quindici chilometri e, proprio al confine fra le province di Parma e Piacenza, trovo la segnalazione “località Boccolo”. Imbocco una strada sterrata che precipita tanto ripidamente da rischiare il pianale dell’auto sul dosso. Dio buono, se è così malmessa adesso, com’era sessant’anni fa? È il mio primo pensiero.
Un’utilitaria che arriva in senso contrario entra in un prato per darmi strada. Mi rendo conto della desolazione: ogni tanto c’è una casa, ma non si vede nessuno. Le costruzioni non hanno la minima pretesa estetica che vada oltre la tinteggiatura. Ognuna ha un orto ben rifornito e una stalla, ormai deserta, usata come deposito.
Un gruppo di cinque, sei case chiude la strada carrabile che prosegue in una mulattiera. Questa, dio mio, è Boccolo! Indovino subito in quale casa sono nato riconoscendo la solida architettura di Stato propria di un edificio pubblico, per quanto modesto e abbandonato: l’antica scuola elementare.
Scendo dall’auto. In un orto c’è una donna anziana con i bigodini in testa e un ciuffo d’insalata in mano: mi chiede immediatamente se sono il piastrellista. Mi presento. È del luogo e, stando all’età, potrebbe essere un’ex allieva di mia madre. Si chiama Poledri e si disimpegna in un minuto consigliandomi di cercare la signora Stomboli della casa più avanti. Giustamente, è molto più interessata al piastrellista.
Guardo la “mia” scuola discretamente conservata se si considera lo stato d’abbandono. Subito intravedo quella che potrebbe essere la signora Stomboli (tutto lo scenario è racchiuso in poche decine di metri).
Ho lasciato la fotocamera in albergo per cui decido di tornare l’indomani: la signora Stomboli merita di certo una fotografia. E’ uno di quei personaggi che devi decidere subito se amare o avversare. Presentandomi decido per l’amore e lei lo capisce perché, poco dopo, sparisce per ricomparire con una polverosa bottiglia di vino. E’ ossuta, rossa di pelle e senza ciglia come una tacchinella. I capelli bianchi e cortissimi sono tutti in piedi che più scarmigliati non si può. Certamente se li taglia da sola lasciando le ciocchette separate e ritte, già pronte per il taglio successivo. Non sorride mai, ma ascolta assorta ogni parola. Ha un aspetto rustico, ma se la si guarda con affetto, è molto tenera, come una gattina ossuta e “infradiciata”. Non ricorda granché di allora e… nemmeno di adesso, si direbbe. Stimo che, sessant’anni prima, fosse una quindicenne svelta e magra.
Un uomo è seduto in fondo al cortile e s’avvicina quasi subito: è il signor Stomboli. È lindo, ordinato, porta un cappello di paglia che trovo elegante, ha ottantatre anni, dirà. La parlantina è sciolta, l’italiano corretto, leggero l’accento locale. E’ lucido, cordiale, simpatico, ricorda tutto in modo analitico. Lui solo, meriterebbe questo mio ritorno a Boccolo.
La maestra si chiamava Bassi? Certo certo: Pia Bassi, una bella signora alta, un fisico importante, il marito era più piccolo: il fotografo. Faceva anche gli ingrandimenti. Ha fotografato anche te, dice alla moglie, ed io immagino il daffare di mio padre con quei capelli.
Ma sono solo quattro case, m’informo, come poteva esserci una scuola? E i bambini?
Oh, bambini ce n’erano un bel po’, venivano dalle cascine intorno. In certi periodi le maestre erano due per quattro classi.
E come vi spostavate? In calesse? Col carro?
Ah! no davvero! Ride amaro. Di strade non ce n’erano, solo una mulattiera e i sentieri. Si andava a Bardi a piedi. O a cavallo, ma il cavallo non l’aveva nessuno. Il padre della maestra, suo nonno, veniva a cavallo da lontano, qualche volta.
Un ricordo dello Stomboli mi affascina per quel po’ di mistero romantico che potrebbe contenere: C’era un giovanotto forestiero alto, un po’ allampanato che dopo la partenza di sua madre la veniva a cercare: chiedeva di “Pia Bassi, la figlia di Anselmo Bassi”. E’ per questa insistenza che ricordo così bene i nomi. Veniva a piedi, chissà da dove.
Immagino un innamorato tornato da un fronte di guerra. Solo, con quel suo sogno.
Il signor Stomboli, senza la erre perché sbagliano tutti, mi stupisce per la straordinaria capacità
d’analisi di fatti avvenuti sessant’anni prima: all’epoca ero appena tornato da militare, se lei e sua sorella siete nati in quegli anni, i due piccini che ricordo eravate certamente voi. Abitavate nello stesso edificio della scuola, al piano superiore, e quando vostra madre insegnava venivate accuditi da mia cugina Angela: è morta di un brutto male, poverina. Qui c’è una donna che dovrebbe avere le chiavi della scuola, se volesse visitarla, ma adesso non è in casa.
Poi il signor Stomboli cede al piacere di raccontare un po’ di sé. Ricorda la campagna di Russia evitata fortunosamente per un malanno fisico occorsogli. Commentiamo persino un libro su quel fronte di morte, letto da entrambi . Mi scuso per tutte le mie domande: i miei genitori mancarono che ero piccolo e non ho testimonianze, capirete.
Rientro in albergo. Sul tardi scendo per la cena e, in breve, resto l’unico avventore. La titolare viene a chiedermi se la camera mi sta bene. Le dico dei miei natali e del mio ritorno. Mi guarda in altro modo e chiede il permesso di sedersi al mio tavolo, poi chiama il marito per parteciparlo.
Ovunque forestiero nella mia vita, nulla sapevo di quel senso d’appartenenza specchiato negli occhi delle persone che ti guardano, come negli Stomboli, come nel roseo coetaneo incontrato all’arrivo, come in questi ristoratori: un bel sentimento che scopro a sessant’anni e che mi lucida lo sguardo.
Parliamo a lungo, mi raccontano di Bardi: era un Principato, un vero Stato che batteva moneta propria. La rocca è fra le più imponenti d’Europa e ha resistito ad ogni assedio. Ne sono orgogliosi, cioè… ne siamo.
Il giorno dopo torno a Boccolo con la fotocamera, ma gli Stomboli non ci sono. Come m’avevano anticipato, sono impegnati altrove. Infilo sotto la porta i miei saluti in un biglietto che immagino ancora inserito nel vetro della loro credenza.
L’abitato oggi è deserto. Senza gli Stomboli, la desolazione mi è insopportabile. Fotografo, come mio padre sessant’anni prima, gli stessi identici scorci. E scappo.
Fulvio Musso