Forza e genio nella letteratura al femminile
Curiosando in libreria tempo fa, una percezione e poi una rapida scorsa alla biografia, mi hanno convinta e condotta alla scoperta di IRÈNE NÉMIROVSKY1.
Su consiglio dello stesso competente libraio ho cominciato con leggere il suo incompiuto capolavoro postumo: Suite francese.
Eccezionale. Coinvolgente. Un intreccio di personaggi e di atmosfere fortemente e sapientemente caratterizzati sullo sfondo di una Francia disorientata e stravolta dalla valanga nazifascista. Una descrizione acuta e convincente. Un avventuroso viaggio di esplorazione fra i meandri caratteriali, il perbenismo superficiale e vacuo di personaggi dell’aristocrazia borghese, la vanità rapace di certa meschina intellighenzia e l’impotenza, la diffidenza, gli amori, la vita, la mitezza paziente ed operosa che, nonostante tutto, scandiscono la trepidante umanità della gente comune.
Luci ed ombre di una Francia che vive l’escalation verso il baratro della disumanità.
La sapiente regia consegna personaggi ed atmosfere all’immediatezza della comprensione estetica e lessicale, con una naturalezza e fluidità stupefacenti.
E c’è, per di più. C’è il progetto ardito e faticoso di costruire ed organizzare il testo sulla scansione dei cinque movimenti del poema sinfonico.
Irène riuscirà a scriverne solo i primi due, incalzata dalla lucida consapevolezza di una fine che si approssima da ogni lato. Tutta l’Europa, infatti, si è trasformata in una immensa prigione per gli ebrei.
E tuttavia non demorde. Con lo sguardo ben aperto sulla devastazione che avanza, osserva, annota e febbrilmente descrive l’universo che la circonda fino al suo ultimo giorno di libertà. E più osserva e più non riesce a capacitarsi né spiegare la metamorfosi sociale che tutt’intorno cede il passo alla paura, alla passività, al collaborazionismo ed ai massacri che diventano quotidiana normalità.
Ai suoi occhi di immigrata, ucraina nata a Kiev nel 1903 da famiglia ebraica benestante e residente a Parigi da dieci anni, il crollo francese è notevolmente più di una disfatta militare.
È la frantumazione di un contesto civile e culturale che aveva conquistato e professato valori di libertà e tolleranza in una solida e promettente vivacità intellettuale ed umanistica.
E non si fa illusioni sulla sua sorte come ebrea. Non un accenno di ribellione.
Al suo editore scrive dei suoi manoscritti come di opere postume. In maniera fortunosa, infatti, le sue cartelle fittamente riempite attraverseranno l’oscurità della guerra tra le mani delle sue bambine, Denise ed Elisabeth, che lei aveva già provveduto a mettere in salvo contando sulla disponibilità ed il rischio personale di persone amiche.
Viene arrestata e deportata dalla gendarmeria francese il 13 luglio 1942.
Muore ad Auschwitz un mese dopo di tifo.
Per una serie di ragioni le figlie rimandarono per lungo tempo la lettura dei manoscritti custoditi come reliquie, nel timore che potesse trattarsi di un diario la cui lettura avrebbe potuto rivelarsi intollerabilmente dolorosa.
Il recupero e la pubblicazione avvennero nel 2004.
Attraverso il dialogo tra due personaggi, Maurice e Jeanne, coniugi semplici e miti, i migliori tra i personaggi descritti, emerge il tratto distintivo della personalità della Nemirovsky. In un mondo nel quale la cattiveria sembra vincente, non servono recriminazioni o odi aggiunti ad altro cinismo e ad altro odio. Ciò che dà forza e conforta nella bufera della barbarie è: “La certezza della mia libertà interiore, questo ben prezioso, inalterabile e che dipende solo da me perdere o conservare. La convinzione che le passioni spinte al parossismo come capita ora finiscono poi per placarsi. Che tutto ciò che ha un inizio avrà una fine. In poche parole, che le catastrofi passano e che bisogna cercare di non andarsene prima di loro, ecco tutto. Perciò, prima di tutto vivere: Primum vivere. Giorno per giorno. Resistere, attendere, sperare”.2
Questa è Irène.
Non conosceva molto dell’ebraismo (si era convertita al cristianesimo nel 1939) né del variegato e composito mondo della realtà culturale ebraica, ma si reputava orgogliosa di appartenervi.
Ad anni fa, consigliatami da un amico, risale la lettura dell’epistolario di ETTY HILLESUM3.
Si tratta di lettere relative al periodo 1942-1943. E rimane indimenticabile.
Emerge la personalità di una donna tenera e forte, così come si rivela nel periodo in cui lavora come assistente sociale a Westerbork, campo che raccoglie gli ebrei rastrellati in Olanda per essere smistati e poi avviati ad Auschwitz. Ed è da questo stesso campo che partirà anche lei con la sua famiglia diretta alla medesima ed ultima tappa, punto di non ritorno di tante partenze cui lei stessa aveva assistito (ne sarà escluso il fratello Jaap che morirà dopo la liberazione durante il viaggio di ritorno in Olanda).
È una donna davvero singolare. Di profonde convinzioni religiose, oltre che di squisita umanità, affabilità ed altruismo, non volle sottrarsi alla comune sorte riservata agli ebrei d’Olanda, nonostante le offerte di protezione da parte di amici.. E pagò con la vita questa sua coerenza.
Ciò che mi è rimasto vivo, scorrendo le pagine di corrispondenza che intrattiene con amici e persone da lei contattate a vario titolo, è stato anzitutto il tono delle lettere.
Non c’è traccia di acredine per la persecuzione in corso o conati di ribellione per l’inenarrabile orrore cui assiste e vive ogni giorno. Per la derelizione quotidiana fatta di fame, malattia, incertezze, fango, precarietà, le partenze …
Ed è un tratto, questo, a dir poco sconcertante ma comune alla letteratura relativa alla Shoah ed abituale tra le persone nei campi di concentramento e sterminio.
Il contenuto dell’epistolario è altrettanto sorprendente.
Con un tono pacato e diretto e nella piena consapevolezza di ciò che sta accadendo alla sua gente ed a se stessa, vi è descritto un itinerario di assidua e coraggiosa ricerca interiore. Vi si respira un crescendo di sereno, mistico allontanamento dalle cose e dal mondo. Un atteggiamento di totale e consapevole accettazione del terribile destino storico cui gli ebrei sono chiamati. I sensi dell’anima sono mobilitati nella convinzione che tutto ciò che serve per attraversare la prova, è dentro di noi.
Il suo bagaglio di fede la sollecita a credere ed a scrutare oltre le apparenze per riscoprire, alfine, la positività, la bellezza e la bontà della vita misteriosamente celate ed intatte anche nel più profondo squallore umano. Si impone di accogliere ed ospitare nel suo cuore persone ed eventi, anche disastrosi, che si tratti di ebrei o tedeschi o di chiunque altro, “… per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione …”4 .
Ogni attimo che le è concesso è vissuto e consegnato alla sensatezza di una scelta interiore di accoglienza e di fede.
Fede nell’uomo. Fede nel futuro. Oltre e nonostante una sovrana disumanità.
Ed ho sottolineato: “ … e malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con tutta la famiglia”.5
Non deve essere stato indolore e facile quest’itinerario interiore per una giovane non ancora trentenne, abituata a vasti interessi culturali da una famiglia benestante e che ora deve confrontarsi unicamente, ogni giorno, con la durezza di una realtà arbitraria ed ineluttabile, oltre che con i personali e ricorrenti problemi di salute.
Eppure, seduta per un attimo sull’argine di un canale tra baracche sovraffollate dalle quali trasuda a fiumi l’antico dolore consapevole di un popolo ferito e rifiutato, Etty riesce ad ammirare il cielo e ad avvolgere di amore una realtà sordida e nemica. E scrivere: “Anche oggi il mio cuore è morto più volte, ma ogni volta ha ripreso a vivere. Io dico addio di minuto in minuto e mi libero da ogni esteriorità. Recido le funi che mi tengono ancora legata, imbarco tutto quello che mi serve per intraprendere il viaggio. Ora sono seduta sulla sponda di un canale silenzioso, le gambe penzolanti dal muro di pietra, e mi chiedo se il mio cuore diventerà così sfinito e consunto da non potere più volare liberamente come un uccello”6.
Delicata e toccante è la descrizione dei religiosi rastrellati dai loro monasteri e in transito nel campo di Westerbork. Sono quasi tutti ebrei convertiti, tra i quali presumibilmente anche Edith Stein. I volti spaesati e sereni – nota Etty – esprimono anche orgoglio e responsabilità di un’appartenenza mai sopita e che è ben visibile, ora, a motivo della stessa stella gialla sulle divise nere e a tutti comune nel campo. L’annotazione si apre in forma quasi solenne: “Fu uno strano giorno quando arrivarono degli ebrei cattolici – o se si preferisce dei cattolici ebrei ….”7
Emanuela Verderosa
1 Irène Némirovsky, Suite francese, gli Adelphi, ottobre 2012, pgg.415 2 Stesso testo, pag. 175 3 Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, settembre 1990, pgg. 149 4 Stesso testo, pag.45 5 idem pag. 75 6 idem pag 19 7 idem pag.42