L’esercizio della medicina al “centro dell’universo umano”. Una scelta consapevole appagante ma non priva di rinunce e sacrifici
Riflessioni e considerazioni di un giornalista nell’ambito sanitario
Nel rispetto della dignità del medico e dei suoi assistiti
di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)
È ormai scontato che della Medicina, come concetto tradizionale, ossia fondata essenzialmente sul rapporto malato, malattia, medico si debba anche tener conto che a partire da questi ultimi decenni esiste il ruolo del cosiddetto “terzo pagante” (lo Stato, le assicurazioni private, etc.) di fronte al quale il cittadino-paziente è nello stesso tempo sia contribuente che cliente. Questo “nuovo” scenario richiede che tutti gli operatori sanitari si confrontino con due realtà: l’amministrazione manageriale della sanità e i diritti del cittadino-paziente. Ed è bene che i professionisti della sanità (ad ogni livello), per non “subire” le reprimende dell’Amministrazione si conformino alle esigenze sempre più impellenti al rispetto del corretto uso delle risorse contribuendo con la propria professionalità e buon senso al miglioramento della struttura sanitaria ove operano (raggiungimento degli obiettivi), ponendosi, se il caso, anche come “mediatori” tra il cittadino-paziente e l’amministrazione sanitaria. Una sorta di strategia aziendale che, se ben condotta, eleva il professionista al ruolo di interlocutore autorevole imponendosi nel rispetto della propria dignità e soprattutto di quella dei suoi assistiti.
Ogni operatore sanitario, a mio parere, deve considerare che i migliori risultati si ottengono non solo attraverso un costante aggiornamento ma anche lavorando in sinergia senza venir meno al proprio sapere di base, cercando di acquisire nozioni, suggerimenti e quant’altro, utili alla propria crescita umana, culturale e professionale. Ogni giorno il medico, nell’esercizio della sua professione, si confronta con scelte che potranno avere serie conseguenze sulla vita di altre persone: pazienti e suoi famigliari (paradossalmente anche sulla sua stessa vita…), mentre in molte altre volte, queste scelte potranno portare alla guarigione, o comunque a un esito positivo… Non si tratta di scelte e decisioni unicamente di tipo tecnico, ma in tutti i casi entrano in gioco la coscienza di ognuno, la correttezza professionale (deontologia), gli interrogativi etici, e non di meno il buon senso e il coraggio di applicarlo, anche se oggi sono sempre più in agguato il rischio professionale e le relative conseguenze, dando adito alla cosiddetta medicina difensivistica (sono infatti oltre 30 mila ogni anno le denunce nei confronti della classe medica).
Il medico, per ben rispondere ai bisogni del cittadino-paziente non solo deve avere la massima fiducia in se stesso ed essere determinato, ma soprattutto credere nelle proprie capacità e nel contempo nei propri limiti ed ammettere (ogni volta) con la massima onestà intellettuale i propri errori, facendo tesoro di quanto sosteneva la famosa scrittrice americana Ann Landers (1918-2001): «Tutti i giorni ognuno di noi prende decisioni capaci di cambiare il corso della nostra vita. Nessuno, per quanto avveduto ed esperto, può prendere ogni volta la decisione più giusta. Sbagliare non è una vergogna. È vergogna non imparare dagli errori, non risollevarsi dalle cadute, non scuotersi la polvere di dosso e tentare di nuovo». È però vero che il nuovo paradigma della professione medica alimenta da tempo le aspirazioni di molti medici, e al tempo stesso in qualche modo “condiziona” lo sviluppo professionale di molti altri attivi da tempo. Le origini di questo “fenomeno sociale” risalgono agli anni ’50 quando, soprattutto nel nostro Paese, faceva capolino la cosiddetta “rivoluzione del benessere” e con essa il diffuso malessere tra la classe medica favorendo (apparentemente) la “crisi della Medicina”, sia in ambito scientifico e tecnico che etico e pratico.
Oggi, questa crisi sembra essersi cronicizzata ma al tempo stesso ridimensionata; una sorta di trasformazione che ha evidenziato una maggior tendenza alla socializzazione della Medicina e di tutto il suo scibile, favorendo la relazione “privata” tra medico e paziente, e questo di fronte alla società civile e alle Istituzioni, considerando nel contempo la continua evoluzione tecnologica della Medicina rendendo ancor più complessa la struttura della stessa, sia dal punto di vista tecnico che pratico. Un duplice progresso che ha portato la socializzazione della Medicina, contribuendo al raggiungimento dei principi di uguaglianza dei cittadini di fronte alla malattia: garanzia di salute per tutti (o quasi).
Ma le mie riflessioni (dettate dalla consuetudine con l’ambiente medico e sanitario per ragioni professionali e sociali) vanno ben oltre il tecnicismo poiché va rilevato che la figura del medico resta centrale: il buon medico è la prima medicina, e per questo deve tendere a mediare e a rassicurare, talvolta più che “curare” il malato; deve soprattutto saper ascoltare, prima sé stesso: non può ascoltare il paziente se prima non è capace di ascoltare la sua vita, la sua interiorità, ciò che c’è dentro di lui e che ha costruito con notevoli sacrifici e rinunce. Ma cosa si intende per ascolto di sé stesso? È l’attitudine di chi conosce ciò che ha vissuto, di chi sa sentire ciò che viene da dentro di sé. Inoltre, a mio parere, di fronte agli stimoli e alla routine di una Medicina oltremodo politicizzata, il medico è chiamato a riprendersi quell’immagine di clinico che ha accompagnato il suo cammino formativo, e il suo entusiasmo… la sua ambizione. Un buon medico, ormai a detta di tutti, dovrebbe essere l’uomo dell’ascolto del paziente che sa raccogliere informazioni della sua storia, perché comunicare un dato clinico richiede particolari capacità di ascolto sino a creare una alleanza con il paziente (“tenera complicità), un legame di collaborazione e di reciproco accordo (rapporto empatico) su elementi e decisioni diagnostico-terapeutiche, verso un cammino di fiducia reciproca.
Ma come agire per il meglio? Anche se le esigenze del mondo sanitario (pubblico e privato) sono sempre più impellenti coinvolgendo tutte le discipline mediche e chirurgiche, attribuendo talvolta più importanza all’una piuttosto che all’altra, vale la pena rammentare quanto sostiene Giorgio Cosmacini, noto filosofo e storico della Medicina: «Il mestiere di medico è investito di una valenza non solo diagnostico-terapeutica, ma anche pedagogica, curativa, tutelare. Pedagogia è l’informazione al malato, ma anche e soprattutto l’“educazione alla salute” attuata aiutando il paziente ad acquisire consapevolezza sia delle proprie risorse personali sia dei limiti del proprio corpo. Cura è un “farsi prossimo” che è proprio del curante, ed è un “farsi carico” dei problemi di salute e benessere altrui. Tutela, infine, non è un epifenomeno dell’”arte della cura”; è invece, un’essenziale “arte di difesa” della salute del paziente da rischi che essa corre, rischi inerenti oltre che a condizioni organiche, biologiche, biochimiche, biomolecolari, a condizioni comportamentali, occupazionali, ambientali, sociali». Alla luce di queste riflessioni-considerazioni io credo che il ruolo del medico implica un certo impegno (anche di tempo), ma è risaputo che non si giunge ad alcun traguardo senza sacrifici, rinunce e a volte anche delusioni… La fede, la perseveranza e un po’ di umiltà fanno onore al medico saggio, ossia colui che per scelta si è votato a lenire le sofferenze umane.