Giustizia, legalità, informazione e “saper vivere”: gli insegnamenti del “caso Manuella”
di Marcella Onnis
Occorre molta cautela per parlare di cronaca giudiziaria e nera. Talmente tanta che verrebbe da chiedersi se sia proprio necessario farlo. Perché un conto è raccontare o commentare un’opera di invenzione, un conto è occuparsi di una storia vera, dentro la quale non vivono personaggi di fantasia ma persone reali, con il loro carico di umanità.
A volte, però, è difficile anche per i più restii non pronunciarsi su determinate vicende, soprattutto quando queste riescono a scuotere profondamente gli animi, anche a distanza di tanti anni.
È così, ad esempio, per la vicenda nota come “caso Manuella”, che nei primi anni ’80 turbò la città di Cagliari, attirando l’attenzione delle “alte sfere” anche fuori dall’isola per le sue implicazioni sul “sistema giustizia”.
Oggi nella Penisola probabilmente nessuno o quasi se ne ricorda e forse anche i giovani sardi la ignorano, mentre probabilmente tutti o quasi conoscono il “caso Tortora”, scoppiato poco tempo dopo e tristemente accomunato al caso cagliaritano per aver entrambi coinvolto, in veste di imputati, persone assolutamente innocenti.
Riassumere in poche righe il “caso Manuella” è impresa davvero ardua, tanto la vicenda è contorta. Basti pensare che, nel libro in cui la racconta (Vite devastate: il caso Manuella, edizioni Edes, 1995), Ottavio Olita ha dovuto inframmezzare il resoconto con cronologie riassuntive e inserire, in coda, un indice dei nomi.
Tutto ebbe inizio il 22 aprile 1981 con la misteriosa scomparsa di un giovane avvocato: Gianfranco Manuella. Sulle prime, gli inquirenti seguirono una pista di traffici illeciti legati alla base Nato di Decimomannu, poi vi fu una svolta improvvisa, grazie alle dichiarazione di un “pentito” (le virgolette qui sono assolutamente d’obbligo): Sergio Piras. Furono lui e altri “pentiti” (Pino Pesarin e Marco Marroccu) – forse indirizzati da qualcuno… – ad affermare che l’avvocato era stato assassinato e a collegare questo episodio all’omicidio di Giovanni Battista Marongiu, pregiudicato, e a grossi traffici di droga in cui sia lui che Manuella sarebbero stati coinvolti. Da queste pesanti dichiarazioni originò una spirale infernale che trascinò nel suo vortice decine e decine di cittadini, alcuni già noti alle autorità giudiziarie, altri assolutamente incensurati, tra i quali, in particolare, quattro avvocati: Giampaolo Secci, Aldo Marongiu, Sergio Viana e Giuseppe (noto Bepi) Podda. Quattro professionisti che si ritrovarono improvvisamente “dall’altra parte”, chiamati a difendersi da accuse gravissime (traffico di stupefacenti, associazione per delinquere e omicidio). Ci vollero poco meno di due anni (dal 2 dicembre 1981 all’8 ottobre 1983), trascorsi in isolamento in carcere, e 103 udienze perché si arrivasse alla sentenza di primo grado, con cui furono assolti da tutte le accuse. E innocenti furono dichiarate anche tante altre persone chiamate in causa dai “pentiti”.
Lieto fine? Impossibile usare qui questa espressione. Innanzitutto, perché la scomparsa di Manuella resta tuttora avvolta nel mistero e tra le possibili spiegazioni c’è anche la sparizione volontaria. Inoltre, i ventidue mesi che precedettero l’assoluzione (confermata in secondo grado nel 1986) furono tempi di grandi tensioni e drammi per la città e i suoi abitanti. A Palazzo di Giustizia si inasprirono i rapporti tra avvocati difensori e magistrati e ci furono frizioni anche all’interno della magistratura. Ma, soprattutto, decine e decine di esistenze furono stravolte. Non a caso, nel titolo del suo libro, Olita parla di “vite devastate”. Molte persone finirono in carcere, con grande pena anche per i loro familiari; le loro attività professionali furono messe a rischio e, in alcuni casi, subirono gravi danni (l’azienda di uno dei commercianti coinvolti nell’inchiesta fallì; una delle guardie carcerarie tirate in ballo dai “pentiti” perse il lavoro …). Marco Marroccu, ribattezzato il “superpentito”, dopo aver ritrattato tutte le sue false testimonianze, cadde in depressione e poco tempo dopo morì, durante una delle udienze del processo. Aldo Marongiu qualche anno dopo morì a causa di una grave malattia che, per i suoi cari, trova origine in quel calvario. Oltre a questi, altri piccoli e grandi drammi furono causati da questa spaventosa inchiesta.
Alla memoria dell’avvocato Marongiu lo scorso autunno – precisamente il 5 e il 6 ottobre 2012 – è stata dedicata a Cagliari una due giorni dal titolo Libertà ed indipendenza del difensore: dal “caso Manuella” ai giorni nostri. Durante la prima giornata è stata proprio ricordata questa vicenda, ricostruita per l’occasione tramite toccanti filmati d’epoca e testimonianze di giornalisti e avvocati. Un doveroso tributo ad una vicenda grave quanto il “caso Tortora” ma meno nota, nonostante abbia colpito non solo cittadini innocenti ma anche, come ricordato dai relatori, la stessa figura professionale dell’avvocato difensore.
Impossibile non emozionarsi e non provare sdegno davanti ad una storia così assurda da sembrare partorita dalla mente di Kafka, come affermarono l’avv. Luigi Concas e lo stesso avv. Marongiu. Dal convegno ma soprattutto dal libro di Olita, basato su un attento studio delle carte processuali, emergono elementi sconcertanti: “pentiti” che ritrattarono le proprie confessioni per poi riconfermarle con nuovi elementi (e nomi); uno studio legale (quello di Marongiu e Viana, in cui lavorava pure Podda) indicato come luogo di smercio di droga in cui, tuttavia, di questa non fu trovata alcuna traccia; testimonianze agevolmente smentite da fatti ed elementi che, però, furono verificati solo durante il processo; teoremi accusatori ostinatamente difesi dagli inquirenti contro ogni contraria evidenza…. “Una storia di depistaggi” l’ha appropriatamente definita Olita nel sottotitolo del suo libro. Mentre nel corso del convegno si è stati meno diplomatici e si è parlato di vero e proprio accanimento giudiziario. E se la prudenza è d’obbligo per chi non è stato testimone diretto della vicenda, certo è che l’espressione non appare inappropriata come quando ad usarla sono certi loschi figuri dei giorni nostri. Dà molto da pensare , infatti, che – come ricordato sia da Olita che dai relatori del convegno – fu non un qualunque cittadino ma un giudice (il dott. Paolo Canepa), nell’ordinanza di rinvio a giudizio emessa nel corso di un’inchiesta connessa al processo principale ed aperta dopo la sua conclusione, ad affermare che: «[…] il Marrocu avrebbe riscosso incondizionato credito anche se avesse descritto il rapimento del Manuella a bordo di un ufo purché pilotato da un equipaggio composto dal Secci, dal Viana, dal Marongiu, dal Podda.»
Durante l’incontro dello scorso autunno, la testimonianza più toccante è stata senz’altro quella dell’avvocato Viana, sul quale gravò la peggior infamia: aver materialmente ucciso il collega Manuella. Il suo intervento è rimasto impresso nella mente dei presenti per la sua vitalità e ironia (“Sono un avvocato civilista. Di penale mi occupo solo da imputato” ha esordito), ma soprattutto per il misurato sdegno con cui ha ricordato quell’orribile periodo e per la domanda conclusiva, pronunciata con tono vibrante: “Perché il giudice non deve pagare per i suoi errori?”
Una risposta a questa domanda, che non solo Viana si pone, l’ho trovata poco tempo dopo nelle parole di un serio giudice: «La nostra responsabilità non si può spingere all’eccesso perché lavorare con l’idea di essere perseguiti ti toglie la serenità necessaria. L’errore giudiziario esiste, ma noi abbiamo un sistema di giustizia garantista, che prevede tre gradi di giudizio. Esiste una responsabilità civile del magistrato, esiste la possibilità che lo Stato paghi un risarcimento in caso di errore giudiziario. Per stabilire se il giudice abbia sbagliato o no occorre una cultura giuridica, occorre conoscere gli istituti che è tenuto ad applicare. Perché il giudice deve applicare la legge e non la può cambiare.» Un altro magistrato, Federico Palomba, ricorda nella prefazione al libro di Olita che «Dove c’è un giudice che corregge un altro giudice […] la democrazia è salva, anzi viva.» E ancora che: «[…] il sistema dei controlli interni al processo, uniti all’indipendenza dei giudici, prima o poi ripristina la verità e la giustizia: e ciò rappresenta una fondamentale garanzia per i cittadini […]».
Sempre in Vite devastate, Aldo Marongiu spiega all’amico Olita che alcuni di quegli errori non sarebbero più possibili con l’attuale codice di procedura penale. Va anche detto, però, che, nel corso del convegno cagliaritano, i relatori hanno “sentenziato” che anche questo nuovo codice, nato proprio sull’esperienza drammatica del “caso Manuella” prima e del “caso Tortora” dopo, si è dimostrato incapace di evitare certi errori (o forse dovremmo dire orrori). Che fare dunque? Sicuramente chiedere che le norme procedurali vengano ancora migliorate per ridurne al minimo le conseguenze dannose.
Nel frattempo, da questa vicenda possiamo trarre alcuni preziosi insegnamenti.
Sulla giustizia, innanzitutto: dobbiamo continuare a crederci! Spiega Palomba che Olita ha scritto questo libro anche per «esprimere, alla fine, un atto di fiducia nella giustizia», intesa «come valore forte in quanto capace di contemperare perfettamente il rispetto sia della dure regole che la governano, sia delle persone nei cui confronti essa deve svolgersi.» Per cui «[…] sbaglierebbe chi non leggesse questo libro come il segno di un profondo bisogno di giustizia e di giudici. E, in definitiva, come un atto di fiducia nella possibilità che essa sia amministrata nel pieno rispetto delle regole e delle persone […]».
Sull’attitudine ad emettere facili sentenze: dobbiamo smettere di giocare a fare i giudici, se – in tutte o almeno in quella circostanza – giudici non siamo. All’epoca, come racconta Olita e come ricordato durante il convegno, la maggior parte delle persone – tranne qualche immancabile sciacallo – e la stampa – salvo rare eccezioni – si schierarono con gli avvocati. Ma sarebbe stato così anche oggi? Il giustizialismo dilaga e le tensioni sociali si sono acuite, anche grazie alle abili tecniche demonizzatrici di vecchi e nuovi demagoghi. Oggi che cresce pericolosamente l’invidia per chi ha un lavoro, tanto più se di prestigio e redditizio, quanti avrebbero scommesso sull’innocenza di questi avvocati? Quanti di noi, invece, si sarebbero affrettati a sentenziare che quegli ambienti lì ormai sono pieni di marciume? Invochiamo a gran voce il rispetto del comma 3 dell’art. 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), ma noi per primi scordiamo quanto affermato dal precedente comma: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Sempre Palomba, nella sua prefazione, afferma (scriveva queste parole nei primi anni ‘90, notate bene): «[… ] agenti del sistema di giustizia, organi di informazione ed opinione pubblica devono finalmente superare una atteggiamento ad ogni costo scandalistico, o pettegolo, o anticipatamente condannatorio, per riportare l’inizio dell’attività di giustizia penale al significato tecnico che le è proprio, e cioè quello di essere un male necessario, correlato alla aspettativa di avveramento che è insita in ogni sistema di regole scelto da una comunità organizzata, ma non ancora significativo di un giudizio negativo nei confronti dell’individuo inquisito. Questo, e niente di meno di questo, è il significato profondo del principio costituzionale di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva di condanna.»
Noi, “pubblico parlante”, tendiamo a giudicare sull’onda delle emozioni (come mi ha fatto notare di recente una persona molto saggia). E spesso questo accade con la complicità di chi fa (male) informazione, come evidenzia nella prefazione a Vite devastate l’avvocato Romeo Ferrucci: «[… ] una somma di singole notizie, per quanto grande, articolata ed apparentemente approfondita, non garantisce che si tratti di vera e propria “informazione” […].[…] i mass media possono – e non di rado vogliono – farsi strumento della più classica e mirata disinformazione. […] tutti noi inconsciamente subiamo una sorta di “sudditanza cognitiva” nei confronti di un’informazione corrente che – in mancanza di particolari e dirette sollecitazioni – finiamo per considerare uno specchio tutto sommato fedele degli avvenimenti.»
Libri come questo (oggi difficile da reperire, ad onor di cronaca) ci aiutano a dismettere tali cattive abitudini. Scrive l’autore nella premessa: «Innocentisti o colpevolisti. Così si diventa quando si hanno scarse o frammentarie informazioni su vicende giudiziarie che fanno scalpore per la portata dei fatti o per i personaggi coinvolti. […] questo libro è rivolto prevalentemente a chi preferisce il pregiudizio alla conoscenza: perché dalla ricostruzione dei fatti sappia che su nessuno, proprio su nessuno si possono esprimere giudizi sommari.»
Sulla legalità: «[… ] ogni popolo ha il livello di legalità che esige e che pratica, e per il quale è disposto ad assumere le sue responsabilità.»; «[… ] ogni società ha il livello di giustizia che chiede e che merita. […] gli stessi cittadini per primi devono vigilare, senza delegare ai giudici compiti di controllo della gestione politica della cosa pubblica.» Sfido chiunque a sostenere che queste parole di Federico Palomba, riferite ai fatti emersi durante Tangentopoli, abbiamo perso negli anni valore ed utilità.
Sulla vita, infine, dobbiamo tenere a mente due cose. La prima la spiega Sergio Viana ad Olita: «L’insegnamento finale è che nello svolgersi della vita, in realtà, non c’è mai niente di completamente nuovo: esistono il cattivo e il buono, la generosità e l’egoismo. […] nulla è scontato. Il modo per capirlo profondamente è essere sempre pronto a perdere tutta l’enorme ricchezza che soltanto la vita ti può dare.» La seconda lezione l’apprendiamo da Aldo Marongiu, grazie alla testimonianza tramandata sempre dal’amico giornalista: «Non puoi pensare che improvvisamente il mondo ti crolla addosso e devi arrenderti. Ti arrendi solo quando non hai più fiato. E neppure allora c’è bisogno di arrenderti. Neppure quando verrà l’ora di fare i conti con il Signore che sta all’Attico. L’importante è che non sia venuto a compromessi con la tua coscienza.»