La donazione tra consanguinei

Un atto d’amore è autentico solo se motivato da una libera scelta

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

Quando la solidarietà umana viene messa in “discussione” verrebbe da porsi molte domande, anche se non è facile ipotizzare una risposta univoca. Una riflessione, questa, come ho già avuto modo di sottolineare, che chiama in causa il calo delle donazioni di organi a scopo terapeutico. Non credo che si tratti soltanto di un momento di mera transizione, ma anche di uno “stallo” culturale dettato dalla forte emotività che è propria in ciascuno di noi, e per questo non deve essere mai giudicata bensì rispettata. A questo proposito mi sovviene la triste vicenda che nel 2010 ha coinvolto due sorelle italiane: Paola e Luisa Favaretti. La dottoressa Paola, 55 anni, medico anestesista-rianimatore, che viveva ad Auckland (Nuova Zelanda), da tempo lottava contro una forma particolarmente aggressiva di leucemia, compresa una serie devastante di chemioterapie e un trapianto di midollo da parte di un donatore tedesco, sia pur non del tutto compatibile. Luisa, insegnante elementare a Padova, restava l’unica àncora di salvezza per la sorella se avesse accettato di donarle il proprio midollo; ma fino all’ultimo non se l’è sentita di sottoporsi all’atto della donazione pur comprendendo che le possibilità di successo erano scarse, e i rischi minimi… accettabili.

Molti i pareri e i giudizi da parte dei concittadini di Luisa che, a torto o a ragione, hanno suscitato comprensione ma soprattutto indignazione, schierandosi contro la “mancata” donatrice. I mass media hanno dato risalto al fatto di cronaca finché Paola non si è spenta (fine dicembre 2010) in una stanza dell’ospedale di Auckland, piegata da una setticemia troppo severa per un organismo debilitato come il suo. Di fronte all’ennesimo rifiuto della sorella che si è giustificata affermando di “non sentirsela”, e anche se più volte “sollecitata” da sacerdoti, medici, amici di famiglia, Paola ha rispettato fino all’ultimo il diritto di non donare di Luisa ritenendo che il rifiuto della sorella nascesse da un misto di paura e ignoranza, nel senso della “non conoscenza”, e da un timore immotivato nel trapianto, nonostante avesse ricevuto rassicurazioni dai medici. Pur non volendo entrare nel merito della vicenda, ritengo di poter rammentare che dal punto di vista etico vi possono essere situazioni in cui, per il bene di un familiare, talvolta si è disposti ad affrontare molto di più di un intervento “accettabilmente” lesivo, o comunque non privo di rischi, timori e incertezze sull’esito finale. Si tratta di situazioni particolari che in altri casi hanno dimostrato totale dedizione verso il proprio congiunto.

Ma quali i limiti per considerare in egual misura la scelta del donare piuttosto che il rifiuto categorico e irremovibile? Non sta certo a nessuno di noi schierarci da una parte o dall’altra, ma va da sé che il gesto della donazione è autentico solo se motivato da una libera scelta di donare, e quindi senza condizionamenti o costrizioni. Anche se questo criterio può essere suscettibile di alcune critiche ritengo saggio includere l’aspetto della libera scelta di donare o meno, nell’etica comportamentale di Albert Schweitzer (1875-1965), filosofo, teologo e medico filantropo, il quale sosteneva: «Non si ha il diritto di indagare nell’intimo degli altri. Il voler analizzare i sentimenti del prossimo è indelicato: non c’è solo un pudore del corpo, esiste anche quello dell’animo che bisogna rispettare. Anche l’animo ha i suoi veli, dei quali non ci si deve liberare». Tale saggezza, io credo, trova il massimo riscontro nell’ultima espressione di Paola confidata alle amiche: «Mi auguro che questa storia insegni che un semplice atto d’amore può salvare una vita». Un augurio che è stato certamente manifestazione del massimo rispetto della dignità umana; ma non per questo la donazione di organi a scopo terapeutico perde le sue potenzialità, preludio al “recupero” della umana solidarietà.

 

Nella foto la Dott.ssa Paola Favaretti

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