Amianto: un “killer” che si poteva prevedere ed evitare
La storia insegna?
Responsabilità “occulte” a beneficio del profitto, nonostante le conoscenze medico-scientifiche
di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)
La nostra epoca potrebbe essere chiamata era del petrolio, dell’informatica, della genetica, etc.; ma c’è chi ha proposto di chiamarla era dell’amianto, soprattutto per le gravi conseguenze sulla salute delle persone. Da oltre un secolo si conosce la pericolosità dell’amianto: risale al 1906 (all’epoca di Sua Maestà Vittorio Emanuele III) la prima sentenza prodotta dal pretore di Torino Raffaele Guariniello in occasione di uno dei tanti processi (25 ottobre 1996) per lesioni a causa di questo “killer”. Inoltre, durante il fascismo, il prof. Giacomo Mottura (eminente anatomo-patologo torinese, scomparso nel 1990 a 84 anni) riuscì a far riconoscere l’asbestosi come malattia professionale. Ma già negli anni ’20 la comunità medica individuò uno stato fibrotico del polmone, simile alla silicosi, in conseguenza dell’esposizione all’amianto. Negli Stati Uniti, attraverso la ricerca si scoprì che l’asbesto era cancerogeno, ma questa in informazione fu tenuta nascosta e il conseguente occultamento della realtà voluto ricorrendo ad associazioni industriali ed a contratti di ricerca, ha provocato migliaia di decessi. Già agli inizi del secolo scorso l’asbestosi veniva individuata come una malattia a sé, causata dall’asbesto, ed in seguito ad alcuni eventi le aziende non si resero subito conto (o non vollero) del rischio rappresentato dall’esposizione all’amianto. Nel 1931 il dottor Anthony Joseph Lanza del Servizio Sanitario Pubblico, raccomandava di includere l’asbestosi tra le malattie soggette ad indennizzo, ritenendo che questa sia la sola protezione di cui dispone l’industria…; ossia consentire che questa malattia resti fuori dalle tabelle di indennizzo, incoraggerebbe avvocati e medici privi di senso etico a fomentare rivendicazioni. Nel 1932 la Johns-Manville dovette affrontare numerose cause intentate da lavoratori affetti da asbestosi, e per difendersi cercò di contestare mettendo in dubbio la diagnosi di malattia polmonare. Successivamente l’industria ed alcune società assicuratrici erano coinvolte in cause analoghe, cercando di minimizzare l’impatto economico collegate alla patologia, ma dovettero liquidare alcuni casi di richiesta di indennizzo…
Intanto procedeva il lavoro di ricerca sulle cause provocate dall’asbesto, a cura di L.U. Gardner, direttore medico del Saranac Laboratory; e dai primi dati risultava che l’81,8% degli animali esposti all’asbesto aveva contratto tumori del polmone. Nel corso di un convegno (1949) del Quebec Asbestos Mining Association, K. Smith, direttore medico della Johns-Manville canadese, osservò: «Per quanto riguarda la Johns-Manville, sono a conoscenza di due rischi presenti nei nostri impianti che potrebbero causare delle malattie polmonari, e cioè la silicosi e l’asbesto. Attualmente, dalla letteratura medica risulta sempre più marcata l’evidenza che queste sostanze provocano il cancro del polmone». Occorreva dunque procedere ad uno studio in proposito, perché andava sempre più prendendo coscienza che l’inalazione per lunghi periodi delle fibre di amianto poteva essere dannosa. Si consigliava che il materiale doveva essere utilizzato in modo da non produrre polvere o, in caso non fosse possibile, gli addetti dovevano disporre di mezzi adeguati.
Nel 1952, in occasione del VII simposio del Saranac venne discusso il rapporto asbesto-cancro e fu osservato il potenziale cancerogeno di ciascun tipo di fibra. Dibattito che contemporaneamente proseguiva negli ambienti dell’industria dell’amianto. Sebbene dall’inizio del secolo scorso l’asbesto fosse stato riconosciuto nocivo per la salute, e la malattia polmonare fosse stata individuata nel 1927 dal medico britannico W.E. Cooke, mentre la silicosi era conosciuta dall’antichità, in entrambi i casi (diatomee e asbesto) l’industria continuò ad opporsi al loro riconoscimento come malattie occupazionali rimborsabili, nonostante che gli studi, sponsorizzati dall’industria stessa, confermassero queste patologie nelle ricerche sugli animali sperimentali e negli studi sull’uomo. Il 14 dicembre 1948 il dott. Lanza scriveva: «… è volere del Gruppo (le compagnie interessate alla produzione dell’amianto, n.d.r.) che tutti i riferimenti al cancro o al tumore siano omessi… Il Gruppo desidera che siano incluse nelle Conclusioni riferimenti al carattere non progressivo della fibrosi…». Ulteriori istruzioni di Lanza imponevano: «Bisogna attirare l’attenzione là dove i risultati sperimentali indicano che le fibre di asbesto producono un’azione differente da quella causata dalle fibre della silice… Ogni informazione sull’asbestosi umana deve essere tenuta separata da questo rapporto e non essere inclusa in esso». Alla luce di queste affermazioni viene da domandarci: quante vite si sarebbe potuto salvare se le osservazioni del dottor Gardner, comprese quelle sulla relazione tra cancro polmonare e asbesto, fossero state pubblicate senza censura? Tutto questo, ed altro ancora (che non ho citato per brevità) accadeva negli Stati Uniti, nel Canada ed in altri Paesi. Ma anche in Italia le cose non andarono diversamente. Basti ricordare uno studio condotto sui dati di mortalità relativi al periodo 1969-1988, il quale indica che l’incidenza delle morti per mesotelioma raggiunge cifre elevate e riguarda la zona nord-occidentale, ossia gran parte della Liguria e della provincia di Alessandria; la zona nord-orientale, che corrisponde alle province di Trieste e Gorizia e parte della provincia di Taranto. Nell’area appenninica, invece sino al 1993 si contavano ben 27 casi di mesoteliom da asbesto fra gli operai del compartimento delle Ferrovie dello Stato di Bologna.
Ma la storia è fatta anche di informazione, anzi l’informazione contribuisce a fare storia, perché racconta e tramanda gli eventi… Qual è dunque ilo ruolo dell’informazione per quello che riguarda la realtà dell’amianto? Negli anni del boom della produzione e dell’utilizzo di questo materiale indubbiamente la divulgazione (propagandistica in particolare) non ha conosciuto soste; per contro, la divulgazione utile alla conoscenza sulla sua pericolosità ha assunto un ruolo costante e relativamente “responsabile” solo in questi ultimi anni… Ma un in’informazione estesa a tutta la popolazione, sullo stato dell’arte dell’amianto con tutte le sue implicazioni di ogni ordine e grado, non è stata attuata dai mass media, sia per non creare eccessivi allarmismi sia per la scarsa “sensibilità culturale”, fatta eccezione per i fatti di cronaca legati al problema amianto (la cronaca non fa cultura ma informa). Tuttavia, non sono mancate alcune iniziative che, per quanto isolate e modeste, costituiscono un segnale di civile responsabilità… e cultura. È l’esempio della “Campagna regionale informativa sui rischi derivanti dall’esposizione ai materiali contenenti amianto”, di alcuni anni fa, a cura della Regione Toscana che, nonostante l’impossibilità di coprire con messaggi univoci la vasta gamma di situazioni configurabili in presenza di materiali di asbesto, al loro diverso potenziale rilascio di fibre, ai diversi destinatari, gli autori dell’iniziativa hanno potuto realizzare 70 mila locandine per autobus, 5 mila poster, spot televisivi e jingle radiofonici rivolti alla popolazione generale, con ricaduta positiva. Altre analoghe iniziative a macchia di leopardo sono state intraprese sul territorio nazionale (soprattutto in questi ultimi anni), compresi approfonditi studi sulla esposizione all’amianto e sulla relativa mortalità per tumore maligno della pleura e del peritoneo; ma ciò non bastato e non basta e fermare l’escalation di decessi che, secondo gli epidemiologi, nei prossimi 20-25 anni nell’Europa occidentale saranno alcune centinaia di migliaia. È evidente che sinora non si è saputo (o voluto) distinguere la prevenzione primaria da quella del giorno dopo… E questo perché, come diceva Alessandro Manzoni (1785-1873): «Noi uomini siamo fatti così: ci rivoltiamo sdegnati contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi».