L’angolo di Full: “La tenda”

Quello che vi proponiamo oggi è un altro bellissimo racconto della serie autobiografica di Fulvio Musso.

Tra sorrisi e lucciconi, offre ad alcuni di noi l’occasione di ripensare a un passato non felice e ad altri di riflettere sulle proprie fortune presenti.


La tenda

L’acqua scarseggiava sempre, così i soldati della Wehrmacht facevano la doccia insieme ai bambini della colonia, in modo molto organizzato e tedesco. Li prendevano in braccio e, sotto il getto diaccio, insaponavano, sfregavano, sciacquavano rapidamente l’insieme come un solo corpo e in un solo minuten che, d’inverno, era anche il limite per non restare secchi.
I soldati erano ragazzi di diciassette, diciott’anni e, a Flavio, non capitò mai di rifare la doccia in braccio allo stesso soldato perché quelli arrivavano e ripartivano di continuo per i vari fronti.

     Durante l’ultima guerra, la colonia di Carignano ospitava i bambini delle famiglie “sfollate” a causa dei bombardamenti e l’esercito tedesco l’aveva requisita per farne una caserma confinando i piccoli ospiti in un’ala dell’edificio. E i bambini cominciarono, quantomeno, a fare dei pasti regolari dato che la Wehrmacht aveva inteso pagare una sorta d’affitto sfamandoli.
Gli ufficiali corteggiavano con germanico zelo le giovani assistenti della colonia bruciando ogni tappa galante come imponeva la frenesia dei loro continui trasferimenti. La direttrice, che portava occhiali molto particolari sopra un naso che sembrava progettato apposta, veniva invece “corteggiata” dal padre di Flavio che doveva assolutamente infilarlo in quella colonia pur non essendo uno “sfollato”. Il loro problema era la malattia della rispettiva moglie e madre che minacciava di produrre, oltre a un nuovo angelo, quattro orfani e un vedovo.

     Ciò accadde puntualmente dopo qualche settimana.
Flavio venne chiamato da Zauberhände (Mani di fata, più o meno) un’assistente belloccia e grassottella che la truppa aveva così soprannominata per dei riconosciuti meriti che i bambini non potevano capire anche se si saziavano con quella parolona straniera che riempiva loro la bocca. La Zauberhände, dunque, lo chiamò e volle sapere i nomi dei suoi familiari ed il cognome di sua madre: «Allora si tratta proprio di tua mamma», concluse la benemerita della Wehrmacht, «c’è l’annuncio del lutto qui sul giornale».
Lui non sapeva il significato di “annuncio del lutto” perché aveva sei anni e pensò che non fosse nulla di grave dato che la Zauberhände se n’era subito disinteressata riprendendo le ciance con le colleghe, ma siccome i più grandicelli lo guardavano con una certa apprensione, per non deluderli si mise a piangiucchiare e notò, con qualche soddisfazione, che era quanto s’aspettavano da lui.

    Quella notte, sotto la tenda, Flavio s’accorse del comportamento anomalo dei suoi amici migliori. La tenda non era che un letto della camerata sul quale i bambini avevano puntato un bastone, ritto sul materasso, e con quello tenevano sollevato il centro del lenzuolo formando una piccola tenda conica. Quando li mandavano a dormire, si acquattavano lì sotto in tre o quattro, sempre gli stessi. Quella tenda era la loro casetta e, durante il giorno, ognuno risparmiava piccoli pezzi di pane d’orzo e qualche unghiata di formaggio per gustarli insieme nell’intimità di quella minuscola dimora che consideravano un’idea della madonna.
Quella sera, gli amici della tenda lasciarono a Flavio l’onore di racimolare tutte le briciole finite sul materasso. Tanta generosità l’incuriosì non poco, così chiese il significato di “annuncio del lutto” e Tartaglia glielo disse. Tutti lo chiamavano Tartaglia, ma lui balbettava solo se era spaventato o incazzato, altrimenti si esprimeva meglio degli altri. Così gli spiegò per bene. Tuttavia ci vollero molti giorni perché, nella capoccia di Flavio, entrasse l’idea che non avrebbe più rivisto sua madre. Mai più.

     Dopo qualche tempo, suo padre sentì l’impellente necessità di rendere visita alla moglie e Flavio passò il resto dell’infanzia e l’adolescenza in collegi per orfani e altri poveri cristi.
Spesso, la notte, formava una specie di tenda col lenzuolo rizzando un braccio a mo’ di bastone e se ne stava rannicchiato in quella casetta linda e raccolta come quella in cui spartiva briciole e sventure; la sola casa vera che ricordasse.
Come tenda era geniale, gli bastava alzare un braccio. Ogni volta si riprometteva di tenerlo ritto tutta la notte, ma prima o poi gli crollava tutto addosso insieme al sonno e la mattina dopo cercava di ricordare in quale momento avesse sbagliato e ceduto.

     Passavano gli anni, Flavio diventava ragazzo e sotto la tenda trovavano spazio, con lui, i suoi amori immaginari o impossibili. Insieme si drogavano di parole e di baci sino a piombare nel sonno. Il braccio lo sollevava solo col pensiero per non fare la figura del pirla… almeno con loro. Tanto, crollava tutto comunque.

Fulvio Musso

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