“Come se la vita non fosse mai accaduta”: la poesia secondo Franca Figliolini
“Come se la vita non fosse mai accaduta” è un ritorno per Franca Figliolini – alla sua seconda raccolta di versi – e un debutto per la casa editrice ChiPiùNeArt, che con quest’opera inaugura la sua collana di poesia contemporanea. Una collana particolare perché, come spiega il curatore Michele Porsia, ospiterà «le sillogi che indagano il rapporto dell’io con l’altro».
La copertina è un progetto grafico dello stesso Porsia: stile minimalista, pervinca con scritte bianche, è sovrastata da un cerchio spezzato che sembrerebbe riprodurre un impreciso disegno a mano. Che cosa simboleggi realmente lo spiega questo verso di “Non una rosa”, che fa anche da epigrafe alla silloge: «il cerchio spezzato è la dimensione del presente / aperto / squarciato dalla reiterazione inconscia».
Alle spalle un dottorato di ricerca in matematica, giornalista per professione e scrittrice per passione (senza escludere che per passione possa essere anche il resto): questa è Franca Figliolini. La sua anima duplice, matematica e letterata, si declina in versi dove entità spirituali e astratte convivono con entità materiali, concrete e misurabili. Così è, del resto, in natura: «alla radice del pensiero / sta / il corpo», ci ricorda la poetessa in “Quadri”.
I versi raccolti in quest’opera ci mostrano sovente prospettive ignorate, a volte insospettate: «andare, sì, fin dove finisce / la ferita del fiordo / e le navi riposano i fianchi estenuati / dal sale» (da “Cartoline da Oslo”); «sapessi qual è la fatica di essere un corpo / che brilla di luce propria / dover sempre emanare emanare emanare emanare […] sapessi come era stanca, povera stella / lei che avrebbe voluto / essere scaldata, qualche volta, essere / riflesso» (da “povera stella”). E non convenzionale è anche il modo con cui l’autrice racconta l’amore («tu che sei la distanza che mi misura / sempre», scrive in “Elementi di teoria della misura”). Il sentimento più cantato di ogni tempo trova grazie alla sua originale impronta un riscatto dall’ovvietà, realizzando l’aspirazione di questa collana, rivelata da Michele Porsia: affrontare l’amore con «tagli inconsueti».
Franca Figliolini osserva il mondo con «uno sguardo che non concede e non ci concede sconti» – per dirla con le parole di Adele Costanzo, che ha scritto l’introduzione della raccolta – e poi ci mostra la nostra scomoda e imbarazzante nudità. Così, ad esempio, accade con “Il funerale” dove racconta de «le facce perplesse al funerale […] di qualcuno che m’appartenga come fosse me» e che, irrispettose e morbose, «cercano tracce nel solco degli occhi».
La sua è una visione più disillusa che arresa, dominata dal segno meno: privazione, negazione, assenza, inazione… Così lascia già intendere il titolo, così forse vuol significare anche la scelta di usare raramente le maiuscole a inizio di frase. Adele Costanzo fa notare nell’introduzione che «sono soprattutto gli atti mancati e le omissioni a caratterizzare i rapporti ed in particolare l’amore». Le possibili citazioni sono tante e tra queste rientrano senz’altro quel «so che saremo nudi, un giorno, e, / posti l’uno di fronte all’altra, dovremo dire / delle omissioni seminate nei giorni, / dei baci mancati, delle mancate braccia / attorno alla vita» di “Come se la vita non fosse mai accaduta” o questi versi di “Intima alla memoria”: «così ti contemplo, come un non aver potuto / esistere, mio amore non amato e non amante. / siamo capaci di silenzi infiniti, noi che non / siamo tali. le mani, ferme, non osano gesti.»
Non sconfitta e angoscia, però, la fanno da padrone ma, appunto, quella disillusione che deriva da un’osservazione razionale e realistica delle cose, particolarmente evidente nei versi conclusivi de “Il senso della misura” («roma insegna, in qualche senso, / quello che passa e quello che resta. / non che consoli, ma dà la misura.») o in questo passaggio di “Ipertesto”: «incontrerò Amir che mi chiama sorella / perché gli dedico due minuti del mio prezioso / tempo». O, ancora, nella poesia “Lo sbarco sulla Luna”, quando – ma qui c’è forse, a ben guardare, una vena di sconforto – la poetessa scrive: «la felicità era questione di anni / tutto sarebbe stato risolto. / così appoggiava il viso nella mano di mio padre e aspettavo / ora sembrano non esserci più mani / né futuri, tutto è accartocciato / nel presente […]».
Tuttavia, non mancano alcune occasioni – seppur rare – in cui lo sguardo disincantato e non convenzionale dell’autrice ci mostra sprazzi – seppur fragili – di luce: «vivere, comporta la strenua / accettazione dell’uguale, eppure / sulla piatta superficie nasce / a volte come un fiore d’acqua» (da “Fosse aria”); «[…] la vita riserva sorprese solo a chi coltiva / la meraviglia» (da “Post mortem”). Altre volte, invece, i suoi versi sembrano prestarsi a interpretazioni opposte. È il caso di “Essere vermigli (divagazioni su Pompei)” che, dopo aver ripercorso il dramma della distruzione della città, conclude con un «Non sarà più notte, mai» che potrebbe leggersi in chiave positiva – come un’allusione all’eternità luminosa che la Storia ha regalato ai suoi sfortunati abitanti – o, al contrario, in chiave negativa, anzi, diminutiva, coerentemente con lo spirito generale della raccolta – come, cioè, un sottolineare la privazione, anch’essa eterna, di una condizione fondamentale per l’uomo: il riposo e la riflessione notturna, appunto.
E se in questo caso, dove è la Natura a generare annientamento, l’autrice lascia spiragli per interpretazioni non negative, altrettanto non vale quando si sofferma sull’annientamento causato dall’Uomo («non c’è niente di più umano della procurata morte» scrive in “L’inutilità della sopravvivenza”), su – dice ancora, nell’introduzione, Adele Costanzo – «quella vocazione alla distruzione che ha spinto la specie cosiddetta pensante a colonizzare il pianeta e a ridisegnarlo secondo le coordinate della geografia del dolore». Eloquenti in proposito – oltre che molto toccanti, come pure “ora chi dirà ai tuoi occhi” – alcuni passaggi de “L’esatto peso”, poesia che Franca Figliolini dedica a suo padre: «abbiamo immaginato la distanza / costruito / l’attesa del futuro / progresso inevitabile assicurato dal procedere / delle scienze / pure, esatte, scintillanti come spade / conficcate nel cuore dell’umanità / […] ora che siamo stati portati / nel solito nulla stratosferico, / padre mio,/ […] cosa posso dirti?» Al lettore scoprire la risposta, non meno significativa.
Bella e personale anche la sua immagine del silenzio e del suo opposto: «perdonami il silenzio / ma a volte le parole hanno andamenti feroci / strane pieghe e onde / dove si nasconde il dolore, s’annida l’indicibile / battendo sulle sillabe – tamburi.» (da “Perdonami il silenzio”). E per non rischiar di commetter violenze, meglio fermare le parole e lasciare spazio alla lettura.
Foto Michele Porcu