Il “caso Aldo Moro”, uno dei tanti misteri italiani
Rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo 1978, il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro fu da queste assassinato il 9 maggio dello stesso anno. Nonostante cinque processi conclusi con la condanna di tutti gli imputati, nella ricostruzione dei fatti restano ancora tante zone d’ombra, come emerso anche da un incontro organizzato a Cagliari il 13 novembre 2015.
Lo scorso 13 novembre si è svolto a Cagliari un incontro dedicato ad Aldo Moro, organizzato dal Rotaract Club Cagliari Golfo degli Angeli in collaborazione con Progetto Studenti.
All’incontro – moderato dal presidente del Club, il dott. Gian Mario Aresu – hanno preso parte la dott.ssa Agnese Moro, sociopsicologa e figlia dello statista democristiano, il dott. Antonio Secchi, ex-allievo di Moro, l’avv. Rita Dedola, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari, e l’avv. Leonardo Filippi, professore ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università di Cagliari. Quattro interventi che hanno rivitalizzato il ricordo di Moro e, anche grazie alle domande del pubblico, toccato temi importanti quali Storia, Diritto, Giustizia, Verità, Perdono e Memoria (le maiuscole sono d’obbligo).
Introducendo i lavori, il dott. Aresu ha riassunto la biografia di Aldo Moro, successivamente arricchita di dettagli dai quattro relatori. Appena laureato, diventa professore di Filosofia del diritto nella sua stessa facoltà (Giurisprudenza a Bari), poi ottiene la cattedra di Diritto penale, prima a Bari quindi in Scienze politiche a Roma. Nel frattempo, scrive vari saggi di diritto che – ha precisato il dott. Secchi – già «dimostrano una cultura impressionante». Nel 1946, a soli 30 anni, viene eletto con la Democrazia cristiana (DC) nell’Assemblea costituente e comincia così l’esperienza parlamentare, cui segue quella governativa che, alternando vari incarichi, dura trent’anni. Nominato Presidente del Consiglio nel 1963, include nell’esecutivo il Partito socialista italiano (PSI): un passaggio cruciale che, come evidenziato dal dott. Secchi, segna la fine della prima fase della Repubblica, quella del centrismo, avviata da Alcide De Gasperi, e inaugura la seconda, quella del centrosinistra. Per Moro, infatti, l’alleanza con il PSI – ha chiarito l’ex allievo – è «la strada per consolidare la democrazia affinché diventi allargata, condivisa da tutti». Seguendo questa visione, nel 1978 pone le basi per una terza fase della Repubblica aprendo il dialogo, fino ad allora impensabile, con il Partito comunista italiano (PCI), all’epoca guidato da Enrico Berlinguer.
Il suo progetto di inclusione dei comunisti nel governo, però, non vedrà mai la luce perché il 16 marzo 1978 – mentre ricopre l’incarico di presidente della DC ed è in odore di diventare Presidente della Repubblica – viene rapito a Roma, in via Fani, dalle Brigate rosse (BR). Durante il sequestro queste uccidono i cinque uomini della sua scorta (quei “Martiri di via Fani” cui oggi sono dedicate tante vie e piazze) e, dopo 55 giorni di prigionia (per la precisione il 9 maggio 1978), giustiziano lui. Il suo corpo viene ritrovato in via Caetani, a metà strada tra via delle Botteghe oscure e piazza del Gesù, dove si trovano, rispettivamente, le sedi del PCI e della DC: certamente non un caso, come ha evidenziato l’avv. Filippi.
“Era la notte buia dello Stato italiano,
quella del nove maggio settantotto.
La notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro,
l’alba dei funerali di uno Stato.”
Per chi non lo sapesse, queste non sono parole di un nostalgico democristiano, ma di quei “comunistoni” dei Modena City Ramblers e sono tratte da “I cento passi”, brano scritto in memoria di Peppino Impastato. Il rapimento e l’uccisione di Moro furono, infatti, un evento traumatico per tutti. Lo ha ricordato anche l’avv. Filippi che, nel suo intervento, si è concentrato soprattutto sulle carte dei cinque processi celebrati per il sequestro e l’omicidio dello statista democristiano, conclusi con la condanna di tutti i brigatisti accusati di esserne gli esecutori materiali. Ma, come ha affermato Filippi, tutt’oggi «i lati oscuri della vicenda sono tanti».
Ad esempio, appare a dir poco curioso che Mario Moretti – esecutore materiale dell’omicidio, secondo la sentenza – vivesse in un condomino in via Gradoli di proprietà di una società dei Servizi segreti. Non solo: nonostante fosse già noto dal 1972 alle Forze di polizia come brigatista e fosse già stato raggiunto da un mandato di cattura per costituzione di banda armata, la polizia inizialmente non lo incluse tra i sospettati del rapimento. Il suo nome comparve in un secondo momento, ma senza che fosse indicato il suo domicilio di via Gradoli. Né fu incluso tra i brigatisti per cui fu proposta una taglia. Stranezze che hanno portato l’avv. Filippi a parlare, con la premessa di non voler fare dietrologia, di «una spaventosa inefficienza della polizia e dell’apparato giudiziario». Se di inefficienza si è trattata, commenterebbe, invece, chi dietrologia volesse fare.
E permane il dubbio se dietro le BR ci siano stati o meno «dei burattinai». Sempre il prof. Filippi ha ricordato le varie ipotesi avanzate in proposito: Massoneria, USA, URSS, Israele… Non semplice era, infatti, capire perché il terrorismo rosso avesse voluto colpire proprio Moro che aveva appena iniziato il dialogo con il PCI di Berlinguer. Probabilmente perché questo partito, come ha ricordato l’avvocato Filippi, era un loro concorrente. D’altro canto, Moro era il presidente della DC, Partito che per i brigatisti rappresentava il male assoluto: capitalismo, cattolicesimo, filoamericanismo… Comunque siano andate le cose, dalla morte di Moro c’è stato sicuramente chi ha potuto trarre dei vantaggi, come ha lasciato intendere pure sua figlia Agnese nella testimonianza che racconteremo in un altro articolo.
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Per le Brigate Rosse il male assoluto era il Pci, ormai fuori da un’ottica operaia e sempre più Partito “di Stato” con la DC. Sicuramente molti hanno tratto vantaggi dalla situazione ma, per una storia dell’esperienza armata in Italia bisognerebbe cominciare ad avallarsi di storici “giovani”, uno su tutti Marco Clementi. Non si spiegherebbe altrimenti perché la lotta armata in Italia abbia coinvolto in ruoli molto diversi tra loro, ma comunque con un fine comune, circa un milione di persone. Questo a detta dell’allora ministro dell’interno Cossiga, in un intervista nei primi anni novanta. Fino a quando questi fatti saranno invece strumentalizzati da qualsiasi pubblicista, avremo libri su libri ricchi di complotti, di scandalose lacune, di generiche superficialità, di notizie bomba, utili solo a distanziarci dalla storia di quegli anni.