Amianto, il lungo e colpevole silenzio sulle conoscenze

monumento per le vittime dell'amianto a Monfalcone

uomini con protezioni mentre maneggiano amiantodi Ernesto Bodini

Le problematiche derivanti il perpetuo e “sconsiderato” uso dell’amianto, sia in Italia che nel resto del mondo, pongono tuttora inquietanti considerazioni. Oggi, la società si trova a dover pagare conseguenze che si potevano prevenire o ridurre al minimo. Ma l’esigenza del progresso ancora una volta è chiamata a rispondere in una Assise in cui compaiono inevitabilmente figure di “correo”, quali l’ignoranza (attiva), l’indifferenza, lo scarso senso civico, la irresponsabilità e gli assurdi ed infondati timori… La rivoluzione industriale ha procurato notevoli progressi dal punto di vista tecnologico ed economico, ma ha pure favorito esposizioni molto diffuse ad agenti patogeni nei luoghi di lavoro (silice, piombo, asbesto, etc.). Solo in questi ultimi anni iniziative di tipo legislativo hanno ridotto queste esposizioni.

Quando attraverso la ricerca si scoprì che l’asbesto era cancerogeno, questa informazione fu tenuta nascosta un po’ ovunque, in particolare negli USA; mentre in Italia il problema è stato per molto tempo sottovalutato più o meno volutamente… L’industria dell’amianto si sviluppò senza conoscenze specifiche tra il 1850 e il 1927. Questo inizio di certezza è dato dal fatto che tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 i rischi dell’esposizione professionale riguardavano la silice, ma era il manufatto asbestoso ad interessare maggiormente: la coibentazione era necessaria per un uso efficiente dell’energia e per prevenire il degrado del calore e della combustione. Verso la fine dell’800 erano in molti a ritenere che l’amianto poteva essere utilizzato ovunque e, sia pur inconsapevolmente, la rapida crescita di questa industria ebbe gravi conseguenze poiché già negli anni ’20-’30 la comunità medica individuò uno stato fibrotico polmonare, simile alla silicosi, in conseguenza all’esposizione all’amianto.

Il riconoscimento della silicosi e della sua origine professionale, come pure dell’elevato tasso di malattie, determinò tra il 1910 e il 1930 la promulgazione di normative per l’indennizzo dei lavoratori. In questo stesso periodo l’asbestosi venne individuata come una malattia a sé a causa dell’esposizione all’amianto. Il primo caso riconosciuto di cancro associato all’asbestosi e il sospetto della relazione tra esposizione professionale all’amianto e tumore del polmone è stato stabilito dal dott. Lynch nel 1935, e nel 1939 la Cassa Nazionale delle Assicurazioni (CNA) in caso di incidenti ha immesso per la prima volta un caso di asbestosi come malattia professionale. Le industrie non si allarmarono nonostante fosse già palese il rischio rappresentato dall’esposizione, ma si volle sapere, attraverso la Compagnia Assicuratrice Metropolitan Life Insurance Company, se l’asbestosi causasse la tubercolosi dal momento che l’amianto presente nell’industria non predisponeva alla tubercolosi. Ma già dai primi del ‘900 l’asbestosi veniva individuata come una malattia a sé, causata dall’asbesto, ed in seguito ad alcuni eventi le aziende non si resero subito conto (o non vollero) del rischio rappresentato dall’esposizione all’amianto. Nel 1931 il dott. Anthony J. Lanza (dal 1920 consulente della Metropolitan Life Ins Company) raccomandava di includere l’asbestosi tra le malattie soggette ad indennizzo, ritenendo la stessa l’unica protezione di cui disponeva l’industria…, ossia evitare che questa malattia restasse fuori dalle tabelle di indennizzo in quanto avrebbe incoraggiato avvocati e medici privi di senso etico a fomentare rivendicazioni.

vecchio articolo sulle responsabilità della Johns- Manville  per i rischi da amiantoNel 1932 la Johns-Manville (presente in Canada, Manhattan, California) dovette affrontare numerose cause intentate dai lavoratori colpiti da asbestosi, cercando di mettere in dubbio la diagnosi di malattia polmonare, tant’é che il vice presidente S.A. Williams cercò di “respingere” i risultati di queste ricerche ed evitare una eventuale pubblicità negativa: il medico aziendale aveva diagnosticato un caso di asbestosi e suggerì di spostare il lavoratore interessato ad altra mansione. Verso la fine del 1933 alcune ditte erano coinvolte in cause riguardanti l’asbestosi tanto da minimizzare l’impatto economico ad esse collegate, e ciò nonostante nel 1936 dovettero liquidare alcuni casi di richiesta di indennizzo… Negli USA, il noto “processo del secolo” (quasi 300 mila denunce depositate, una inezia se si considera che dal 1940 al 1979 sono stati 27.500.000 i lavoratori esposti all’amianto), non ha avuto alcun seguito e nel 1982 la Johns-Manville e alcune altre Compagnie hanno dichiarato bancarotta e creato un fondo di risarcimento; ma tale fondo si esaurì rapidamente per il gran numero delle vittime. Anche in Francia, tra il 1996 e il 2000, su iniziativa della Associazione nazionale di difesa delle vittime dell’amianto (ANDEVA), sono state avviate oltre 1.000 cause civili o penali. A Londra, altrettanto: nel 1999 circa 2.000 lavoratori hanno fatto denuncia contro la ditta britannica Cape Ltd (datore di lavoro). Questa ha risposto con una campagna di stampa, rilanciata dai media conservatori che hanno denunciato il “costo scandaloso”, per i contribuenti britannici, dell’eventuale indennizzo a questi lavoratori. Anche in Svizzera negli anni ’70 a Niederurnen nel Cantone di Glarona, 7.000 persone (tra le quali anche italiani) hanno lavorato l’amianto.

In Brasile, ancora oggi tra i maggiori produttori nel mondo, Eternit e Saint-Gobain hanno sfruttato l’amianto grazie alle premure della dittatura militare, che ha censurato ogni informazione riguardante la salute sul lavoro e i rischi industriali. L’Associazione brasiliana degli esposti all’amianto (ABREA) creata nel 1997, si è attivata per rifiutare il principio che in Brasile l’amianto, in tutte le sue forme, possa avere una considerazione diversa rispetto alla UE e reclamando l’estensione ai Paesi extra europei (Brasile compreso) della proibizione di attività di estrazione, manifattura, commercio e esportazione dell’amianto e dei prodotti contenenti lo stesso. Su iniziativa dell’Abrea centinaia di lavoratori (e dei familiari delle vittime decedute) hanno sporto querela. Nel 1998 Eternit è stata condannata ad indennizzare un ex dipendente. A questo punto, Eternit e Brasilit (filiale brasiliana della Saint-Gobain) hanno proposto ai loro ex operai un accordo amichevole, secondo il quale gli operai avrebbero rinunciato ad ogni azione giudiziaria in cambio di un eventuale indennizzo forfettario in caso di malattia. Da qui in poi la letteratura medica ha continuato ad accumulare dati sugli effetti nocivi dell’asbesto, grazie anche alle ricerche di L.U. Gardner, direttore medico del Saranac Laboratory (Sanatorio per la tubercolosi e Istituto di Ricerca di New York) affermando: «…il problema della predisposizione al cancro sembra ora più significativo di quanto avessi immaginato in precedenza». Per contro, il 14 dicembre 1948 il dott. Lanza scriveva: «…è volere del Gruppo (le Compagnie interessate alla produzione dell’amianto) che tutti i riferimenti al cancro o al tumore siano omessi… Il Gruppo desidera che siano incluse nelle “Conclusioni” riferimenti al carattere progressivo della fibrosi…». Ulteriori istruzioni di Lanza imponevano: «Bisogna attirare l’attenzione là dove i risultati sperimentali indicano che le fibre di asbesto producono un’azione differente da quella causata dalle fibre della silice… Ogni informazione sull’asbestosi umana deve essere inclusa in esso». Alla luce di queste affermazioni viene da domandarci: quante persone avrebbero potuto essere salvate se le osservazioni del dott. Gardner, comprese sulla relazione tra cancro polmonare e asbesto, fossero state pubblicate senza censura?

Nel corso di un convegno (1949) del Quebec Asbestos Mining Association (l’azienda che ha sostituito la Quebec Asbestos Products Association) il dott. Smith, direttore medico della Johns-Manville canadese, osservò: «Per quanto riguarda la Johns-Manville, sono a conoscenza di due rischi presenti nei nostri impianti che potrebbero causare delle malattie polmonari, e cioé la silicosi e l’asbestosi. Attualmente, dalla letteratura medica risulta sempre più marcata l’evidenza che queste sostanze provocano il cancro del polmone». Occorreva dunque procedere ad uno studio in proposito, perché andava sempre più prendendo coscienza che l’inalazione per lunghi periodi delle fibre di amianto poteva essere dannosa. Si consigliava che il materiale doveva essere utilizzato in modo da non produrre polvere o, in caso non fosse possibile, gli addetti dovevano disporre di mezzi adeguati. Ma ciò non avvenne praticamente quasi mai, un po’ ovunque… Nel 1952, al VII Simposio del Saranac venne discusso il rapporto asbesto-cancro e fu osservato il potenziale cancerogeno di ciascun tipo di fibra. Dibattito che contemporaneamente proseguiva negli ambienti dell’industria dell’amianto. Sebbene dall’inizio del ‘900 l’asbesto fosse stato riconosciuto nocivo per la salute e la malattia polmonare fosse stata individuata nel 1927 dal medico britannico W.E. Cooke, mentre la silicosi era conosciuta sin dall’antichità, in entrambi i casi (asbesto e diatomee) l’industria continuò ad opporsi al loro riconoscimento come malattie occupazionali rimborsabili, nonostante gli studi confermassero queste patologie nelle ricerche sugli animali sperimentali e negli studi sull’uomo. Tutto questo accadeva negli USA, in Canada ed in altri Paesi come l’Australia dove pare negli anni ’60 esistesse una miniera di amianto e vi abbiano lavorato 7.000 persone, un migliaio delle quali erano italiane.

MA QUALE LA SITUAZIONE IN ITALIA?

Emblematica, ad esempio, la realtà dell’Eternit di Casale Monferrato (AL), ribattezzata dai mass media la “fabbrica del cancro”, creata nel 1902 dall’austriaco Ludwig Hatscheck, resa attiva dal 1905, e fallita nel 1986. La prima vittima per mesotelioma è stata accertata nel 1947, ed oggi la “strage” continua inesorabilmente. Particolarmente toccante la testimonianza di una ex lavoratrice: «…ci mandavano dei medici aziendali per tranquillizzarcidicevano che andava tutto bene per la nostra salute, ma erano pagati dal padrone». Lo stesso vale per i cantieri di Monfalcone (GO), costruiti nel 1907, e nel 1937 l’apertura a Trieste della raffineria “Aquila”; oltre ad altre realtà quali la Cementifera Italiana Fibronit S.P.A. di Broni, attiva dal 1919 sino al 1993. Per non parlare poi del comparto ferroviario e di tutti i mezzi rotabili, altrettante fonti di palese nocività.

monumento per le vittime dell'amianto a MonfalconeNel 1939 il patologo torinese Giacomo Mottura (1906-1990) riuscì a far riconoscere l’asbestosi come malattia professionale, la cui assicurazione per i lavoratori divenne obbligatoria nel 1943 ma operativa solo nel dopoguerra. Significativo è il monumento intitolato alle vittime dell’amianto (dello scultore Alberto Tonet e dello scrittore Massimo Carlotto), inaugurato nel 2004 a Monfalcone, che porta la scritta: «Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto». Ma forse non tutti sanno, o non hanno avuto modo di verificare, che è da quasi un secolo che si conosce la pericolosità dell’amianto (e non solo dagli anni ’70 come spesso è riportato più volte dalla cronaca). È quindi interessante sapere che risale al 1906 (all’epoca di Sua Maestà Vittorio Emanuele III) il primo processo nel quale il giudice, condannando un’azienda che lavorava amianto, aveva scritto di fronte al «non sapevo» dell’imprenditore, che una persona dotata di mediocre cultura doveva essere a conoscenza della pericolosità dell’amianto (sentenza prodotta dal pretore di Raffaele Guariniello in occasione di uno dei tanti processi a Torino).

A partire dal 1935 la comunità scientifica internazionale ha più volte ipotizzato un collegamento fra amianto e carcinoma polmonare e, nel 1965, ha ufficialmente confermato l’esistenza di effetti cancerogeni del manufatto asbestoso. Anche verso la fine degli anni ’60, nel nostro Paese, con la rottura del ’68 e la nascita di una nuova generazione di medici e di ricercatori, si sono spezzati i circuiti “riservati” favorendo la circolazione di informazioni sulla reale entità dei rischi cui erano esposti i lavoratori, molti sono rimasti lontani dalla cultura mediocre invocata dal giudice del 1906, o meglio, in forza dei loro interessi continuano a fare virtù dell’ignoranza attiva… A mio parere, se l’amianto in molti Paesi è stato messo al bando (in Italia dal 1992), restano da bonificare molti siti in cui ancora è presente sotto varie forme e con diversi gradi di pericolosità espositiva. Infatti, secondo il periodico Internazionale del 21/11/2014 sono 33.610 i siti inquinati con l’amianto in Italia, se si considerano solo i siti censiti, ma mancano informazioni sulla Calabria, la Sicilia e la Campania. La mappa del Ministero indica che solo 832 siti sono stati bonificati, 339 sono stati parzialmente bonificati e sono ancora da bonificare 30.309 siti. Alla luce di questi dati è necessario un ulteriore censimento allargato degli ambienti a rischio (pubblici e privati), la valutazione delle situazioni e la scelta del processo più adeguato di bonifica. Pagine di storia che purtroppo non hanno ancora una fine e, in attesa di essere lette dalle ultime generazioni, è bene che politici e amministratori pubblici comincino a “scrivere” l’ultimo capitolo…”

 

 

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