Se Katharina Blum non avesse perduto l’onore

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copertina de L’onore perduto di Katharina Blumdi Marcella Onnis

È difficile dire se ancora oggi perdere l’onore sia considerato una cosa grave: è già arduo attualizzarne il contenuto e definire, di conseguenza, cosa concretamente significhi perderlo. Per questo un titolo come “L’onore perduto di Katharina Blum” suona un po’ anacronistico. Eppure, il celebre romanzo di Heinrich Böll è tutt’altro che sorpassato, purtroppo. A suggerirne l’attualità è già l’eloquente sottotitolo: “Come la violenza può svilupparsi e dove può portare”. Come molti sanno, il libro narra una vicenda inventata che ha per protagonista l’incensurata Katharina Blum. La donna aiuta a fuggire l’uomo che ama, sospettato di terrorismo e altri reati, e per questo viene inquisita. Al contempo, diventa vittima di un’ignobile campagna mediatica (ben più feroce di quella riservata al ricercato) messa in piedi da un grosso quotidiano, che Böll chiama “Il GIORNALE” ma che, come lui stesso annota, ha un modus operandi simile al “Bild Zeitung”. Perduto così il suo onore, Katharina decide di uccidere il principale artefice di questa campagna denigratoria: il giornalista Walter Tötges.

Penso ce ne sia già abbastanza per rabbrividire, perché quello immaginato da Böll non è uno scenario distopico: è uno scenario plausibile che – con qualche variazione, soprattutto nel finale – effettivamente abbiamo visto e vedremo ancora realizzarsi. Forse non conosciamo casi in cui persone esasperate per una campagna diffamatoria si sono vendicate con violenza, ma sappiamo senz’altro che, per le stesse cause, diverse persone hanno finito con il far del male a se stesse.

So bene che sul conflitto tra informazione e privacy si sono già spese (invano) tante parole; io stessa, anni fa, vi ho riportato quanto ascoltato a Cagliari nel corso del convegno “Il diritto di cronaca e la tutela della riservatezza tra stampa e televisione”, organizzato dall’Università e dall’associazione “Articolo 21”. Ma certe nefandezze continuano ad accadere – con il nostro avvallo – per cui voglio tornare su questo argomento e stavolta voglio farlo appoggiandomi ad Heinrich Böll e al suo “L’onore perduto di Katharina Blum”.

UNA STORIA DI IERI E DI OGGI – Chiaramente, il romanzo risente molto del contesto storico e geografico in cui è ambientato e che ha ispirato l’autore (la Germania Ovest nel 1974, epoca dei primi attentati terroristici di stampo politico). Tuttavia, penso sia piuttosto evidente che essere etichettati allora come “comunista” comportasse le stesse possibili conseguenze che oggi implica, ad esempio, l’etichetta di “musulmano”, in particolare l’eventualità di essere considerati – almeno potenzialmente – traditori dello Stato e terroristi. E sappiamo bene – o almeno dovremmo – che se si parte da un preconcetto e/o da una battaglia ideologica, fare un’informazione oggettiva e neutrale è ancora più difficile. Facile, troppo facile, che quelle idee influenzino l’informazione che si deve dare o, peggio, che invoglino a strumentalizzarla.

INFORMAZIONE E RISERVATEZZA: NEMICI GIURATI? – La storia di Katharina Blum tuttora ci invita a gestire in modo critico l’informazione, sia che la forniamo sia che ne usufruiamo. E dovrebbe anche spingerci a rimettere sulla bilancia questo valore e quello della riservatezza, perché farli convivere è difficile ma forse non impossibile. Come ormai per ogni libertà e diritto, l’opinione dominante vorrebbe far cadere tutti i limiti e vorrebbe, nel caso specifico, far passare per colpevoli, censori, struzzi, farisei, menefreghisti e chi più ne ha più ne metta, tutti coloro che credono che non su tutto si debba necessariamente informare e che non ogni metodo sia lecito. Informare è sicuramente doveroso e a nessuno dovrebbe essere impedito di farlo, ma è giusto informare a qualunque costo, anche se ciò implica conseguenze come compromettere indagini in corso, creare notevoli problemi alle proprie fonti o scatenare l’odio sociale verso un singolo individuo o una categoria di persone? Chiunque faccia informazione, anche solo tramite passaparola, dovrebbe sempre interrogarsi sui possibili effetti delle sue azioni. Tanto più dovrebbe farlo oggi che esistono molteplici mezzi per diffondere e apprendere notizie. Mezzi che, essendo in grado di raggiungere molte più persone in tempi ben più rapidi dei media tradizionali, di quelle notizie possono potenziare l’eco e quindi l’eventuale dannosità.

DICHIARAZIONI E INTERCETTAZIONI: MANEGGIARE CON CURA – Oltre a questo, dovremmo sempre ricordare che, nel trasmettere un’informazione, siamo tutti influenzati, anche inconsapevolmente, dal nostro modo di vedere la realtà, chi fornisce la notizia come chi la apprende e, a sua volta, eventualmente la trasmette ad altri. In questo modo attuiamo, senza volerlo, un sensibile processo di trasformazione dell’informazione. A volte basta anche scegliere una sfumatura di significato piuttosto che un’altra. Non a caso, in un passaggio del romanzo, Heinrich Böll evidenzia il puntiglio di Katharina Blum nel sostenere che «scherzare è un atto bilaterale, molestare invece un atto unilaterale» e che «gentilezza e benevolenza non avevano niente a che fare con la bontà». Se poi nel processo di trasmissione della notizia interviene la cattiva fede, va da sé che la trasformazione diventa più rilevante e dannosa.

Die Verlorene Ehre Der Katharina BlumPur consapevoli di questo, però, quando leggiamo o sentiamo dichiarazioni altrui, difficilmente ci chiediamo se davvero siano conformi all’originale, nel primo caso, o riportate integralmente, nel secondo. Così racconta Böll: «[…] il GIORNALE aveva trasformato il suo giudizio, facendo del suo “molto fredda e intelligente” un “gelida e calcolatrice” e della sua frase generica sulla criminalità l’opinione che Katharina fosse “senz’altro capace di un delitto”». E ancora: «[…] alla fine lei aveva detto: “Perché doveva finire così, perché doveva andare così?”, frase che il GIORNALE aveva trasformato in: “Non poteva che andare così, non poteva che finire così”. Tötges spiegò questo piccolo ritocco dicendo che, come reporter, era portato a queste cose e aveva l’abitudine di “aiutare i semplici a spiegarsi chiaramente”». Vogliamo raccontarci che questo è uno scenario surreale, mero frutto di una fantasia galoppante?

Ciò che vale per le dichiarazioni, vale in parte anche per le intercettazioni. Anche queste, soprattutto se estrapolate dal contesto, possono portare a travisare la realtà. Per capirlo, ci basta pensare a certe conversazioni che facciamo per telefono o a certe nostre chat su Whatsapp: fuori contesto o per chi non conosca le persone coinvolte, potrebbero ben apparire affermazioni losche o, magari, astuti messaggi cifrati. Anche il tema delle intercettazioni è affrontato nel romanzo, seppure per aspetti solo in parte coincidenti con quelli su cui voglio soffermarmi io. Peraltro, all’epoca è probabile che di questo strumento investigativo non si facesse un uso così improprio come se ne fa oggi. Non voglio soffermarmi sull’operato degli inquirenti perché non ho le competenze per farlo, ma sul modo in cui le utilizzano i media posso – e voglio – dire la mia. Spesso leggiamo o ascoltiamo intercettazioni che non aggiungono nulla di rilevante a quanto già raccontato. E tante – troppe – volte le intercettazioni non hanno assolutamente nulla a che vedere con l’informazione principale: servono solo a soddisfare, attraverso particolari piccanti o scabrosi, la curiosità morbosa del pubblico. Sarebbe, dunque, il caso di domandarci se sia giusto che noi, che non siamo inquirenti, ci “intrufoliamo” in questo modo nelle vite di altre persone, tanto più se fino a quel momento non condannate ma solo inquisite o, addirittura, solo in qualche modo connesse agli indagati e affatto collegate al reato di cui sono accusati. Chiunque di noi tenga alla propria privacy non vorrebbe essere spiato, non vorrebbe veder messa in piazza la propria vita privata. Stesso rispetto, allora, dovrebbe offrire agli altri.

top-secretLE CHIAMANO FUGHE – Le intercettazioni e tutti gli altri elementi che si raccolgono nel corso delle indagini sono materiale delicato, per questo dovrebbero essere maneggiati solo da chi è competente e autorizzato a farlo. Invece, spesso e volentieri finiscono anche in altre mani. In questi casi si parla di “fughe di notizie”, ma è chiaro a tutti che, il più delle volte, i media vengono a conoscenza di determinati particolari perché qualcuno glieli fornisce, magari senza che abbiano dovuto chiederli. E chi li fornisce non è certo mosso dall’amore per la Verità e dal desiderio di rispettare il diritto all’informazione: spesso è prosaicamente spinto dalla fame di fama. Del resto, è preferibile credere che abbiamo tanti inquirenti narcisisti piuttosto che palazzi di giustizia e caserme colabrodo da cui le informazioni riservate possono fuoriuscire con estrema e pericolosa facilità. O no? Delle “fughe di notizie” si occupa anche Böll, con una frase certo non buttata là in cui racconta che Katharina «intanto aveva perfettamente capito che era più che giustificato interrogarla, anche se non vedeva il bisogno di “scoprire fino al minimo particolare della sua vita”, ma le riusciva incomprensibile come certi dettagli del suo interrogatorio – ad esempio le famose visite maschili – fossero potuti giungere a conoscenza del giornale, e poi tutte quelle dichiarazioni false e bugiarde».

Se è previsto – almeno teoricamente – che certe informazioni in possesso degli inquirenti non debbano diventare di dominio pubblico, un motivo c’è: evitare che l’opinione pubblica conduca processi paralleli suscettibili di influenzare il lavoro dei veri giudici, gli unici incaricati di esprimere sentenze. Invece, oltre ad essere un Paese di allenatori di calcio, ormai siamo anche un Paese di giudici.

Bundesarchiv_Bonn_Heinrich_BöllDALLA PARTE DI KATHARINA – Come accennavo prima, se certa pseudo-informazione ancora si fa ed è apprezzata – o perlomeno richiesta – è perché non ci si mette abbastanza – o nulla – nei panni del malcapitato di turno. E qui viene alla luce un altro elemento di pregio de “L’onore perduto di Katharina Blum”: farci compiere questo pressoché sconosciuto esercizio di immedesimazione. È notevole la capacità con cui Heinrich Böll introduce il lettore in una spirale di sgomento e angoscia utilizzando non uno stile emozionale ma una cronaca oggettiva e apparentemente fredda, stemperata giusto da alcune punte di vivace ironia. Una volta dentro questa spirale, il lettore comprende che al posto di Katharina potrebbe – o potrà un domani – benissimo ritrovarsi lui. Non possiamo, infatti, avere la certezza che, conducendo una vita onesta, non finiremo mai in simili guai: esistono gli errori giudiziari ed esistono le operazioni diffamatorie (dal semplice pettegolezzo alla vera e propria campagna mediatica), ma esistono anche, più banalmente e diffusamente, gli errori personali di valutazione. Certo, non tutti reagiremmo come Katharina, ma esperienze simili segnano per sempre e possono condurre, se non a violente vendette, all’auto-annientamento.

Katharina non è particolarmente amabile, ha le sue colpe e probabilmente nasconde davvero qualcosa agli inquirenti, ma grazie a Böll capiamo che il fatto di non ispirare simpatia e di non essere al di sopra di ogni sospetto non la rende meritevole di vedere infangato il suo nome e messa in piazza quella vita privata finora tanto gelosamente custodita. Né tale trattamento meritano le persone che le stanno accanto. Se, però, riusciamo a sentire come nostra la sua causa, altrettanto dovremmo riuscire a fare ogni volta che una persona in carne e ossa vede violata la sua privacy in nome di pseudo-superiori esigenze. Chiaramente, questa battaglia morale è per chi tale intrusione la subisce davvero, non certo per chi (vittima, colpevole o familiare dell’uno o dell’altro), chiedendo l’attenzione dei media e del pubblico, implicitamente la accetta. Questa è una battaglia per chi deve subire le regole di un gioco cui non ha scelto di partecipare. E non sono solo gli innocenti a meritare tutela in questo senso: anche chi sbaglia dovrebbe ottenere pene appropriate, commisurate alle sue colpe e comminate da chi ha il compito di farlo, anziché subire anche (o solo) misure sociali accessorie che, per di più, non hanno alcuna reale utilità rieducativa e riparativa, anzi.

PUÒ ESISTERE UNA CRONACA DIVERSA? – Purtroppo, però, questi tribunali paralleli, composti dagli operatori dei media e dal pubblico, esistono ancora e sono sempre più numerosi. Perché a indugiare nel torbido, meglio ancora se capace di mescolare violenza e sesso, non sono più solo trasmissioni trash o dozzinali testate giornalistiche con il loro degno pubblico: queste pratiche sono ormai utilizzate – maldestramente camuffate – anche da trasmissioni e testate considerate rispettabili, il cui pubblico avrebbe, peraltro, gli strumenti per rendersi conto di star avallando azioni deplorevoli.

È anche per questo che, parlando de “L’estate di Ulisse Mele” di Roberto Alba, a suo tempo sono arrivata a chiedermi e a chiedervi se della cronaca giudiziaria e nera si possa fare a meno. Ora, mi rendo conto che anche queste hanno una loro utilità. Per esempio, contribuire a solidarizzare con le vittime dei reati e a risarcirle moralmente oppure a stimolare il nostro senso civico e a distoglierci dal compiere certi errori. Inoltre, se non avessimo più contezza dei reati commessi, potremmo credere che non se ne compiano più o, al contrario, che siano aumentati in maniera esponenziale e che la cosa sia taciuta per non allarmarci (o per tenerci buoni). In più, se non ci informassero sugli esiti delle vicende giudiziarie, non sapremmo se (almeno stando alle carte) giustizia sia stata fatta o no. Tuttavia, posto che cronaca giudiziaria e cronaca nera hanno una loro ragion d’essere, non potrebbero almeno essere aboliti i più popolari e disgustosi modi di farla? È davvero, come arriva a pensare Katharina Blum, «quasi un dovere, per quel tipo di giornalisti, danneggiare gl’innocenti nell’onore, nella fama e nella salute»? È lo stesso Böll a fornirci una risposta, raccontando che, rispetto a “Il GIORNALE”, i quotidiani “minori” informavano sulla vicenda di Katharina in un modo diverso, discreto e oggettivo. Non c’è alcun obbligo di gonfiare le notizie con particolari succulenti o fasulli. Né ci sono valide ragioni per giustificare l’intrusione nelle vite private delle persone coinvolte in un fatto di cronaca. Questo che si tratti della vittima e dei suoi familiari (cui si deve rispetto), del colpevole (che deve essere giudicato dalla magistratura per ciò che ha commesso e non per cose che poco o nulla vi hanno a che vedere) o della sua famiglia (la cui esistenza è già stata stravolta senza che altri vi mettano il naso ed estendano a loro responsabilità altrui).

bilanciaLA BILANCIA È IN MANO AL MERCATO – Recentemente, il nostro direttore ha ricordato la sconcertante vicenda di Francesco Gangemi e ha ribadito le sacrosante richieste del mondo del giornalismo per una nuova legge sulla diffamazione. Ecco, io credo che questi appelli non troveranno facilmente accoglienza fintantoché il giornalismo non farà la sua parte per migliorarsi, in particolare dando un taglio alle misere pratiche di cui ho parlato. Perché la mancanza di etica, come la caccia allo scoop ad ogni costo, fa il gioco di chi vuole censurare l’informazione. Vale qui ciò che vale in ogni contesto: le scorrettezze di alcuni (che in questo contesto, a onor del vero, sono moltissimi) danneggiano l’intera categoria e attirano reazioni repressive, sproporzionate o comunque iniquamente applicate, che impediscono anche a chi è nel giusto di perseguire la sua buona causa.

Io temo che nessuna pena “tradizionale”, né carcere né multa, potrà mai disincentivare davvero la diffamazione. Esclusa una soluzione alla Katharina Blum (fortunatamente non usuale, nonostante i tempi barbari che stiamo vivendo), si potrebbe magari pensare a un contrappasso: subire la stessa gogna mediatica cui si ha senza ritegno sottoposto altre persone. Che bassezza, però…
Più che punizione, servirebbe prevenzione, ma anche questo metodo potrebbe rivelarsi fallimentare: inculcare l’etica sarà sempre arduo finché non averla renderà economicamente di più. Le cose potrebbero cambiare solo se si colpisse proprio questo presupposto, se cioè si facesse in modo che la scorrettezza e la morbosità non generassero più profitto. Ma ciò potrebbe accadere solo se crollasse la domanda di questo tipo di “informazione”: se le richieste dei consumatori cambiassero, il mercato si adatterebbe. Certo questo modus operandi non sparirebbe del tutto (perché la morbosità non si debellerà mai completamente), ma almeno le proporzioni si invertirebbero e questo sarebbe comunque un gran passo avanti. Dunque, non è a chi fa informazione che consiglio di (ri)leggere “L’onore perduto di Katharina Blum” di Heinrich Böll: chi sbaglia sa di sbagliare e non credo si redimerebbe neppure grazie a un premio Nobel. È a voi lettori che lo consiglio perché siete voi, anzi, siamo noi, che possiamo decidere quale informazione far “vivere” e quale far “perire”.

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