“Storie di scrittori” narrate da Ariano Geta
Con “Storie di scrittori” Ariano Geta è tornato a far felici i suoi lettori. Di cosa parli questa raccolta di racconti è evidente; tutto da scoprire e godere è, però, il modo in cui lo fa. I racconti sono sette, ma le storie di scrittori da lui narrate sono di più e non si soffermano solo sulla dimensione artistico-professionale dei personaggi: fondamentale è la loro dimensione personale, intima. Perché, come scrive l’autore in “La selezione innaturale”, «Uno scrittore è prima di tutto un essere umano, cosicché le sue vicende esistenziali si intersecano inevitabilmente con l’attività letteraria e la condizionano». Anzi, talvolta condizionano anche il lettore e il critico letterario, il che spesso non è un bene.
Per ogni racconto l’autore ha scelto una diversa cornice, così accuratamente costruita da risultare sempre verosimile. Differenti anche le ambientazioni, forse a ricordarci che i drammi esistenziali degli scrittori – come di tutti gli uomini – in fondo sono gli stessi in ogni tempo e luogo.
Tutti i brani hanno, però, in comune, oltre all’argomento centrale, la netta impronta di questo scrittore, quella caratteristica armonizzazione di raffinatezza, creatività, accuratezza, acume, malinconia e comicità. E anche qui l’autore applica la sua personale concezione del ruolo del finale, su cui ci soffermammo in un precedente articolo su Ariano Geta.
Sempre secondo la sua tradizione, questi racconti raggiungono anche l’obiettivo di mettere spietatamente a nudo le storture del nostro tempo, in particolare la propensione alla polemica (per lo più gratuita) come pure la superficialità e la morbosità che la fanno da padrone sia nei mass e social media che nella vita. E ben potremmo immaginare che, un domani, nuove generazioni di lettori facciano loro il pensiero di Didier Merteuil, protagonista de “La selezione innaturale”: «[…] provava un particolare affetto per quel romanzo e il suo autore che gli avevano permesso di scoprire la possibilità di raccontare le emozioni, la vita di un uomo e gli accadimenti del suo paese tramite la finzione letteraria anziché la distaccata saggistica dei testi scolastici. Aveva compreso la storia patria più con quel romanzo che con le lezioni liceali».
La raccolta si apre con “La polemica fra Juan Brady e Francisco Hernandez Mendieta”, avvincente brano incentrato, come suggerisce il titolo, sull’antagonismo (vero o presunto, a voi scoprirlo) tra due scrittori. Le rivalità tra i colleghi o aspiranti tali sono frequenti in questo come in altri ambienti. Le diatribe tra grandi firme sono note a tutti, anche perché puntualmente pompate, ma quelle tra aspiranti scrittori e/o scrittori emergenti non sono meno accese: chiunque abbia frequentato luoghi, virtuali o reali, che ne consentano l’incontro/confronto/scontro sa quali cruenti duelli possono nascere per un pugno di “mi piace”, commenti, condivisioni o persino semplici letture. La diatriba immaginata da Ariano Geta è tutto sommato pacata, se confrontata a certi episodi reali. Sconcertante, per usare un eufemismo, è, ad esempio, quanto raccontato (N.B. successivamente alla stesura di questa storia) dallo scrittore Jeremy Duns, vittima insieme al collega Steve Mosby di un vero e proprio cyber-stalking ad opera del romanziere Stephen Leather.
Con “L’ultima intervista a Ludovico Aprile”, Ariano Geta sorprende il lettore, tra le altre cose, rivelando, sia pur per finzione, una certa abilità giornalistica. E prova, così, che gli artifici letterari non si reggono solo sulla fantasia: occorre sapersi calare pienamente nella finzione, indossare le vesti, anzi, impossessarsi dell’anima di ciò che si crea, si tratti di personaggi, luoghi, tempi o strumenti. Ma torniamo al racconto: dentro la cornice di questa del tutto credibile e ben confezionata intervista, spiccano alcune considerazioni sul Ventennio, quello scomodo passato cui noi italiani ancora facciamo male i conti. Riporto giusto un passaggio del più ampio discorso con cui Ludovico Aprile chiarisce il suo presunto filo-fascismo e la sua presunta vicinanza con Benito Mussolini: «[…] vorrei rammentare ai benpensanti postumi che milioni di italiani non ebbero la voglia, la possibilità o il cuore di rischiare la vita per defenestrare il megalomane pelato». E più avanti non manca di connettere, come sempre dovremmo fare, passato e presente: «[…] egli non avrebbe mai dovuto credersi capace di governare una nazione. Se fosse stato uno scrittore, le sue opere sarebbero entrate nel novero dei capolavori, poiché egli aveva una fantasia sfrenata e un’inarrestabile energia vitale. Ma capo di stato, che orrore! Nessuno scrittore potrebbe mai esserlo. Il politico deve essere un pallido e onesto ragioniere, magari anche un po’ disonesto come d’altro canto dimostrano certi parlamentari finiti sulle cronache dei giornali, ma capace di uniformarsi alle consuetudinarie prudenza e lentezza burocratica necessarie per un’avveduta amministrazione. Un capo di stato col temperamento d’artista guida alla rovina la sua nazione […]».
Il terzo racconto, “La selezione innaturale”, consegna subito un interrogativo al lettore: in cosa consisterà mai questa selezione? Al quesito mi guardo bene dal rispondere, seppure il reato di spoiling ancora non sia previsto e l’applicazione di pene corporali sia solo eventuale ed extragiudiziale. Mi limito ad anticipare che, per bocca di uno dei suoi personaggi, Ariano Geta espone una curiosa revisione dell’evoluzionismo darwiniano. Una teoria così plausibile da condurre Didier Merteuil a smettere di credere «[…] all’esistenza di criteri sensati ai fini della sopravvivenza postuma di un autore. Il determinismo letterario gli appariva davvero privo di una logica […]». Peraltro, la teoria della selezione innaturale potrebbe forse spiegare la mancanza di logica che determina non solo la sopravvivenza ma anche la stessa affermazione di un autore. Prova ne sia che Ariano Geta continua ad auto-pubblicarsi, mentre gli editori, soprattutto di grandi dimensioni, compiono talune scelte che nulla hanno a che vedere con il valore letterario.
Come suggerisce il titolo, “Scribacchina sfigata” è un racconto frizzante, seppur intriso anch’esso di amarezza. Oltre che per le azzeccate scelte stilistiche, si distingue per una convincente difesa dell’auto-pubblicazione e degli e-book cui anche i più strenui difensori dell’editoria tradizionale e del cartaceo dovranno riconoscere validità. Dalla diatriba voglio star fuori, perché – come forse Ariano Geta – amo i libri a prescindere e credo, inoltre, che le preferenze personali non debbano aspirare a divenire scale di valori universalmente accettate. Voglio giusto evidenziare che l’auto-pubblicazione è uno strumento neutro, che può consentire di farsi conoscere a un autore valido e magari deluso dal mondo dell’editoria, per motivi che possono essere diversi da un rifiuto mal digerito. E voglio anche ipotizzare che, tra i libri auto-pubblicati, le proporzioni tra “valido” e “non valido” – ammesso che esistano criteri sufficientemente oggettivi per fare questo tipo di valutazione – forse non sono poi così differenti da quelle che si riscontrano tra gli “etero-pubblicati”. Probabile, inoltre, che se il mercato dell’editoria funzionasse in maniera virtuosa, dell’auto-pubblicazione non ci sarebbe più bisogno.
La quinta brillante storia è dedicata alla figura del Ghost writer, come annuncia l’omonimo titolo. Queste pagine, in realtà, accendono i riflettori sui ghost artist/worker in generale, ossia su tutti coloro che, con il loro anonimo e prezioso lavoro, hanno contribuito a rendere grande il nome altrui. Quella del ghost writer è una figura ambigua, misteriosa, che non si sa bene se compatire, ammirare o biasimare. Ariano Geta propende per una di queste posizioni? È lui stesso un ghost writer o ne ha uno alle sue spalle? A questi interrogativi non so rispondere.
Leggendo il titolo del penultimo racconto, “La maledizione del secondo posto”, qualcuno potrebbe pensare a Toto Cutugno o, magari, all’Inter del pre-Calciopoli. In ogni caso, la malinconia che permea queste pagine forse gli farà perdere l’abitudine di prendersi gioco di chi, per un soffio, ripetutamente manca il più alto traguardo. Perché l’amara delicatezza con cui è narrata questa storia rende consapevoli che «Le sconfitte, sportive e non, restano dentro la memoria come delle piccole cicatrici che dolgono durante le giornate tristi allo stesso modo in cui le vecchie fratture provocano fastidiosi indolenzimenti quando cala l’inverno e l’aria si raffredda».
“Storie di scrittori” si chiude con “La versione del personaggio” perché tutto ha il suo complemento: il bene ha il male, il nero ha il bianco, lo scrittore ha il personaggio. Non voglio anticiparvi il tipo di rapporto che qui lega queste due figure né quale sia la versione dei fatti che il personaggio dà e che – come si intuisce dal titolo – non corrisponde del tutto a quella dello scrittore. Evidenzio, però, come anche questo racconto contenga riferimenti alla Storia e aiuti a riflettere sulle responsabilità che lo scrittore – e certamente non solo lui – si assume quando rende pubblico un suo scritto. Una lettura utile anche per fare i conti con quella fragile e flessibile materia che è la nostra memoria: «Gli eventi del passato assumono una forma definita nella mente e si incastrano come un mosaico per sostenere l’insieme delle convinzioni acquisite tramite l’esperienza quotidiana della vita. Nel momento in cui uno di questi pezzi cambia forma, l’intero mosaico perde la sua compattezza».
Giunto alla fine del viaggio, il lettore avrà acquisito una nuova e più lucida visione su tante cose, per esempio che «In fondo ogni romanzo è un saggio sull’esperienza trascendente della vita privo di formule matematiche che lo rendano passibile di verifica, approvazione o confutazione» (da “Scribacchina sfigata”). Paradossalmente – o forse affatto – sullo Scrittore potrebbe, tuttavia, non riuscire a schiarirsi le idee e magari resterà ossessionato dall’idea destabilizzante – però forse non strampalata – che «Uno scrittore è per sua natura un bugiardo lunatico poiché declama ogni giorno la sua personale verità» (da “L’ultima intervista a Ludovico Aprile”). Certo è che queste storie possono rendere ciascuno di noi uno scrittore/lettore/critico letterario più consapevole.