Virtù, fortuna, felicità e letteratura secondo Ian McEwan
Domenica scorsa, 5 giugno 2016, si è conclusa a Cagliari, con la partecipazione di Ian McEwan, l’VIII edizione del festival Leggendo Metropolitano, organizzato dall’associazione Prohairesis in collaborazione con Artevideo. Né loro né il pubblico potevano augurarsi un miglior finale: posto splendido (i Giardini pubblici), atmosfera quieta e priva di ogni eco elettorale (Cagliari era, infatti, chiamata a eleggere il suo Sindaco), clima mite e sul palco un trio eccezionale. A discutere con lo scrittore inglese di “Virtù e fortuna nella letteratura” – declinazione del più generale tema del festival “Virtù e fortuna. La felicità a portata di mano” – è stato, infatti, il brillante giornalista Wlodek Goldkorn e tutt’altro che passivo è stato anche il ruolo di Marina Astrologo che, come ho già avuto modo di dire, non è una traduttrice ma un’Interprete, fedele non solo a quanto detto in lingua originale ma anche a come viene detto.
LA LETTERATURA COME GOSSIP – «Lo scrittore è chi di qualunque cosa parli parla di noi» ha esordito Wlodek Goldkorn, aggiungendo che, quindi, non c’è dubbio che Ian McEwan sia uno scrittore. Questi, interrogato su cosa spinga a scrivere, ha così risposto: «Chiunque sia stato genitore di un bambino tra i 3 e i 12 anni ed era abituato a leggergli storie avrà visto nei suoi occhi pieni di sonno e nel suo alito che sa di menta il puro piacere. E avrà capito quanto sia forte in noi il piacere di ascoltare storie». Per McEwan «siamo delle scimmie molto curiose» che trovano soddisfazione nella letteratura in quanto «forma superiore di pettegolezzo [gossip] con cui si indaga sul modo di essere degli altri». A suo avviso, infatti, il romanzo è «uno strumento straordinario per indagare la mente, il flusso di coscienza, cosa sia un uomo, una donna, un bambino in una determinata città, in un determinato momento». Il che, ha aggiunto, secondo lui spiega anche perché la letteratura continui ad avere la meglio sulle altre forme di intrattenimento.
Goldkorn gli ha, dunque, domandato se anche lui consideri i suoi personaggi in qualche misura autonomi e se l’attrazione per il gossip in tal caso derivi anche dalla curiosità di sapere cosa combineranno. Per McEwan qui c’è, «in sintonia con il tema del festival, una forte componente di fortuna [a strong element of chance] perché la mente ha una sua mente indipendente, per cui non è possibile decidere cosa pensare: i pensieri ci vengono, che siamo romanzieri o che non lo siamo». Il processo di creazione di una storia per lui è del tipo che può definirsi “dal basso”, ossia «l’autore comincia sempre da qualcosa di molto piccolo, da un dettaglio, ma sempre pregno di possibilità. Ancora non conosce la persona di cui sta scrivendo e non gli è affatto dato sapere tutto quello che farà». Anche perché la sua personale – e stuzzicante – convinzione è che i personaggi possano anche ribellarsi al loro creatore. McEwan ha poi evidenziato come la lingua in generale, non solo quella scritta e usata per narrare, possa compiere il miracolo di farci cominciare un discorso e di portarlo a termine senza sapere da subito come lo concluderemo, senza prima pianificarlo: «La mancanza di un controllo totale sulla nostra mente è una delle cose più affascinanti» ha concluso. E come dissentire!
UN ROMANZIERE-DIO O UN DIO-ROMANZIERE? – Il romanziere viene talvolta paragonato a Dio perché crea dei personaggi e un mondo, ha ricordato Goldkorn, ma per McEwan «è Dio che, se esiste, gioca a fare il romanziere: inventa un personaggio (Adamo), ma non basta e, per non fargli fare un soliloquio, gli pone accanto Eva. A quel punto, però, tutto esce dal suo controllo: arrivano Caino, Abele, poi vengono il Levitico, l’Esodo… Tutte cose che accadono senza averle pianificate. Anche perché, se fosse vero il contrario, dovremmo pensare a Dio come a un sadico». Dio è, quindi, «colui che ha messo in moto le cose», immagine che – ha ricordato – ha permesso a preti e uomini di chiesa nel Novecento di aderire alle teorie darwiniane sull’evoluzione, in particolare in Inghilterra dove molti di loro erano botanici, dunque uomini di scienza.
Tornando più tardi sul rapporto tra scrittore e personaggi, Goldkorn ha chiesto a McEwan se esistono personaggi per cui non si può provare empatia e se esistano delle cose indicibili. Riguardo al primo punto, lo scrittore ha affermato di non ritenere affatto – come altri suoi colleghi quali, a suo tempo, Flaubert – che si debba avere un rapporto di empatia con le proprie creature. Anzi, ritiene «molto importante che se il personaggio ha mal di stomaco, il romanziere non debba averlo»: «Deve esserci una certa distanza intelligente tra te e i tuoi personaggi» [There has to be a degree of intelligence distance between you and your character] e «se fai letteratura, devi cercare di conservare un po’ di controllo… come Dio». Così, curiosamente, ancora una volta queste due persone che, per loro stessa ammissione, non hanno un rapporto stretto con Dio – e della cui esistenza McEwan ha anche esplicitamente dubitato – sono tornati a parlare di Lui.
Quanto al secondo punto, sull’esistenza o meno di concetti indicibili, lo scrittore ha risposto che la letteratura consente di parlare di qualunque cosa [The ideal of literature is that there is nowhere you can go]: ciò che conta – ha precisato – è l’obiettivo per cui scrivi e «se ciò che ti spinge è l’indagine, il sincero desiderio di andare a scoprire le cose, puoi andare dovunque. Con un’unica eccezione: il golf». Perché? Perché per lui è troppo noioso!
Secondo McEwan «il romanzo è uno specchio, uno straordinario metodo di investigazione», tuttavia non si sente certo che – come gli ha domandato Goldkorn pensando a “Espiazione” – abbia anche un valore trascendentale e «dubita che sia in grado di riparare il mondo e migliorare le persone». Prova ne sia – ha rimarcato – il fatto che i nazisti ascoltassero Schubert e provenissero da una nazione culturalmente raffinata.
LA CURIOSITÀ CI RENDE VIVI – Riallacciandosi al tema dell’incontro, il giornalista ha quindi domandato allo scrittore inglese se, oltre al talento (quindi alla fortuna), sia importante avere anche conoscenza (ossia virtù). E nel porre questa domanda ha fatto riferimento al fatto che nei suoi libri dimostra una notevole conoscenza tecnica degli argomenti di volta in volta trattati: dalla chirurgia alla fisica teorica passando per la giustizia minorile, tanto per fare alcuni esempi. Pur dichiarandosi in particolare difficoltà, dovendo parlare di sé, anche in quest’occasione l’autore se l’è cavata alla grande: «Ho la fortuna di poter parlare con un sacco di persone molto, molto intelligenti, che sanno molte cose. Sono una sorta di illusionista che dà l’impressione di sapere molto. E posso creare personaggi molto più intelligenti di me!». Ritiene, cioè, di «essere riuscito a padroneggiare l’arte di far credere di sapere». Ma la modestia e questo suo quasi schermirsi non hanno impedito al pubblico di riconoscere in lui un narratore, anzi, un professionista serio, che se deve affrontare un tema che non conosce – o che perlomeno non padroneggia abbastanza – prima studia e si documenta. Ha raccontato, infatti, che per scrivere “Sabato”, il cui protagonista è un neurochirurgo, ha trascorso mesi osservando un chirurgo lavorare. E così ha fatto per altri romanzi, cercando di apprendere da vari professionisti tutte quelle informazioni di dettaglio che – questa è una mia conclusione, non sua – rendono una storia più credibile e uno scrittore più affidabile, oltre che più degno di stima. Ancora più importante della conoscenza, però, per McEwan è la curiosità: è questa, ha raccontato, che lo spinge a parlare con le persone che sanno tante cose, a leggere tanti libri… Ed è questa, in generale, che ci rende vivi: «Nel momento in cui smetterete di stupirvi, di farvi domande sul mondo, quello sarà l’inizio della morte della vostra mente». Ragion per cui, personalmente, mi auguro di morire da “scimmia curiosa”, anche perché concordo con lui sul fatto che «pur saziandoci di conoscenza, saremmo morti senza curiosità». Affermazioni incisive, le sue, che, a parer mio, sintetizzano perfettamente il tenore di questa conversazione appassionata, spontanea e libera tra due pensatori accomunati da una grande cultura e una profonda conoscenza del mondo. Due persone così in sintonia da dare talvolta l’impressione di aver scordato di non essere sole, ma che, nonostante le frequenti citazioni colte, mai sono apparsi due spocchiosi membri di un’élite esclusiva. Anzi, l’entusiasmo e l’umorismo con cui hanno condito le loro affermazioni hanno permesso al loro sapere di scorrere fluido verso il pubblico che, con gratitudine e vivo interesse, lo ha accolto. Hanno, cioè, saputo stimolare in tutti noi proprio la curiosità, quella loro stessa sete di conoscenza, che è poi ciò, che a mio immodesto parere, ogni persona colta dovrebbe preoccuparsi di fare se non vuole rendere sterile e fine a se stesso il proprio arricchimento culturale.
LA STRADA PER LA FELICITÀ – Altro tema del festival era la felicità, argomento che – insieme al rimpianto – trova spesso spazio nei libri di McEwan, ha fatto notare Goldkorn, precisando anche che «l’idea di felicità spesso è scambiata con la serenità», mentre «è qualcosa che si costruisce». Citando il celebre incipit di “Anna Karenina” (“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”), il giornalista ha chiesto allo scrittore se la felicità in coppia, in famiglia, sia impossibile. Per McEwan, però, questo incipit «è talmente bello che non ci accorgiamo che non è vero. Per le famiglie vale ciò che vale per i singoli individui: ci sono molti, molti modi di essere felici. Ciò che è bello non sempre è vero». Ma il romanzo può parlare della felicità? «Come forma letteraria insegue le persone, i destini umani attraverso il tempo. E temo che non esista una felicità perfetta e duratura» ha risposto, per cui «se vogliamo trovare il picco della felicità, dobbiamo cercare la poesia» che è «l’arte del momento [Poetry is the art of the moment]. Nessuna felicità è per sempre. Se qualcuno vi sembra sempre felice, state guardando uno zombie, un morto vivente». E anche sulla famiglia come presunta fonte di infelicità lo scrittore ha le idee chiare: «Come per Winston Churchill la democrazia era la “meno peggio” delle forme di governo, io difendo la famiglia come la forma meno disastrosa di organizzazione sociale». Peraltro, come romanziere considera la famiglia «un teatro meraviglioso e impagabile su cui spostare le pedine a piacimento».
In famiglia o no, la strada per la felicità non è facile da trovare. Per capire se si abbia o meno intrapreso la giusta rotta, lo scrittore propone di seguire alcune indicazioni fornite da Freud, secondo il quale per essere felici occorre disporre di: buona salute, un lavoro interessante, abbastanza soldi e buone relazioni sociali. «Io spesso mi chiedo come sto andando e lo faccio chiedere ai miei personaggi. Credo sia una buona cosa da fare» ha affermato. Qualcuno di noi, però, purtroppo conosce già la risposta ancora prima di concludere il test.
DI MIGRANTI E DI BREXIT – Anche se il romanzo non può raccontare la felicità (né, stando a Freud, può regalarcela), comunque aiuta a capire gli esseri umani. Ne consegue che, come ha affermato Goldkorn, «lo scrittore capisce la natura umana meglio degli altri». Dunque, ha domandato, «basta scrivere un buon romanzo per compiere una buona azione o serve anche un impegno politico?» Il pensiero di entrambi si è ovviamente posato sulla questione dei migranti. Per McEwan «ci troviamo faccia a faccia con un problema di una complessità mai vista prima. C’è una muraglia umana che cerca di dirigersi verso un continente che – paragonato ad altre parti del mondo ha un’immensa ricchezza». «A questo problema possiamo dare risposte diverse» ha proseguito, «però, dobbiamo accettare il nostro destino, il fatto che questa cosa stia accadendo». E dopo aver ricordato che il suo Paese «è lontano e circondato da acque gelide e difficili da attraversare», mentre Italia e Grecia, più facili da raggiungere, stanno accogliendo queste persone, ha aggiunto che «noi come Europa siamo grandi, siamo forti» e che lo «turba profondamente il fatto che tra un paio di settimane ci sia un referendum sulla possibilità di lasciare l’Europa». «Dobbiamo affrontare il problema insieme» perché, ha affermato, «la risposta alla crisi può essere soltanto collettiva. E il mero fatto che il mio Paese e i miei connazionali possano soltanto pensare di uscire dall’Unione europea mi provoca grande vergogna».
Hats off to you, Mr McEwan!