Paco Ignacio Taibo II e la translation in progress
Nel programma della XX edizione del Festival della letteratura di Mantova mi hanno attirato, tra le altre cose, i due translation slam, sfide tra traduttori, per cui ho deciso di seguire almeno il secondo, in programma il 10 settembre 2016. Condotto da Silvia Scarabelli, lo slam ha visto confrontarsi due traduttrici di Paco Ignacio Taibo II, Gina Maneri e Silvia Sichel, chiamate a trasporre dallo spagnolo all’italiano un suo brano inedito … in sua presenza.
Le dichiarazioni inziali del simpaticissimo Paco Ignacio Taibo II penso abbiano, comunque, tranquillizzato le due traduttrici: «Io adoro i traduttori: senza di loro, la mia vita sarebbe terribile, vivrei confinato in un’isola deserta, nell’isola di Crusoe del castigliano. Li adoro da quando avevo cinque anni e scoprii che Arthur Conan Doyle non scriveva in spagnolo». Dopo aver raccontato alcuni spassosi episodi sui suoi rapporti con i traduttori dei suoi libri, Taibo ha presentato l’opera da cui ha scelto il brano oggetto della sfida: «Non è fiction: è un libro di avventura ma anche di storia rigorosa» che narra «sei anni di super-epica proletaria», in particolare la storia di «un gran movimento di donne» sorto nel 1918 a Barcellona all’interno del movimento sindacale. Per scriverlo, ha spiegato, «ho usato la terminologia del linguaggio quotidiano», ma con alcuni arcaismi «per non dare l’impressione di leggere il passato attraverso il presente». Pertanto, come ha aggiunto successivamente, «anche chi scrive un romanzo storico lavora come traduttore, perché si trova a fare il “traduttore” della realtà».
Prima di dare loro la parola, Silvia Scarabelli ha ringraziato le due traduttrici per aver accettato di mettersi in gioco, sottolineando la difficoltà del loro compito, ossia tradurre un brano (“El motin de las mujeres”) estrapolato da un’opera più ampia. Lo stesso autore, nel ribadire questo limite, si è scusato perché – non sapendo a che scopo servisse – ha scelto un brano non di fiction (Silvia Sichel ha parlato di «testo un po’ giornalistico», confermando l’impressione che ho avuto anche io a prima lettura), quindi meno semplice da tradurre. Inoltre, come ha evidenziato sempre Silvia Scarabelli, qui la complessità linguistica era acuita dalle tensioni tra castigliano e catalano esistenti all’epoca dei fatti narrati, che determinavano anche «usi tipici delle due lingue diversi uno dall’altro».
Raccontando il proprio approccio a questa traduzione, Gina Maneri ha spiegato di aver dovuto fare determinate scelte «perché non avevo davanti un vero destinatario» e di aver anche svolto varie ricerche «un po’ per necessità, un po’ per curiosità». In più, ha ritenuto opportuno spiegare, nella traduzione, alcune cose che probabilmente nel libro erano chiarite in capitoli precedenti ma che, leggendo solo questo estratto, non sarebbe stato possibile dedurre se non conoscendo già il contesto storico-geografico, oltre che linguistico, in cui si incardinano i fatti narrati. Stessa filosofia è stata, peraltro, adottata da Silvia Sichel, come ha successivamente confermato l’interessata, aggiungendo però che «facendo questa ricerca, c’era il rischio di scrivere più di quello che ha scritto l’autore». Essendosi poi, come Taibo, appassionata al testo e alla storia, ha spiegato di aver cercato di riportare nella traduzione questa passione, che, a suo parere, è tratto distintivo dello stile dell’autore. E che si sia presa a cuore questa vicenda l’ha dimostrato anche durante l’incontro, mentre leggeva la sua traduzione.
La difficoltà del compito è emersa in alcuni punti particolari, per esempio per la traduzione di “grandes comerciantes”: più corretto “commercianti all’ingrosso” (Maneri) o “grossi commercianti” (Sichel)? La risposta sembrerebbe “La terza che (non) hai detto”! Sì, perché, interrogato su questo punto, Taibo ha spiegato di volersi riferire «ai commercianti che si accaparravano grandi quantità di materie prime», specificando che all’epoca il commercio a Barcellona non era molto grande.
Lo scrittore ha poi precisato che in quel periodo tutto veniva sempre scritto in castigliano e che, nella lingua scritta, «il catalano non filtrava», ma «era una lingua che si parlava». Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, però, «nel 1917 il 70% della classe operaia non parlava catalano» perché questa era la lingua della borghesia e dell’aristocrazia, favorevoli in generale a promuovere la cultura catalana, mentre gli operai erano anti-catalani. Circostanze che ha tenuto presenti nella stesura del suo libro perché, ha spiegato, «ci tenevo moltissimo a questa fedeltà storica».
Le due traduzioni sono state analizzate per paragrafi, ponendole contemporaneamente a confronto con lo stesso passaggio in lingua originale. Volendo azzardare una valutazione, mi verrebbe da dire che quella di Gina Maneri era tendenzialmente più libera, con riadattamenti volti a rendere più “italiana” la struttura della frase. Un’impressione che ha trovato conferma nelle sue stesse affermazioni riguardo alle «frasi un po’ articolate» che è stato necessario «smontare come un puzzle e ricomporre perché suonassero italiane». La traduzione di Silvia Sichel, invece, mi è parsa più fedele alla struttura originaria, seppure talvolta più sintetica. In alcuni passaggi, però, l’impressione è stata opposta; inoltre, rispetto a quella di Silvia Sichel, ho trovato più apprezzabile e musicale la traduzione di Gina Maneri della canzone riportata alla fine del capitolo, soprattutto per la scelta di garantire la rima. Peraltro, con riferimento al testo originale, Taibo ha specificato che, essendo stata scritta in castigliano ha la rima, mentre se fosse stata scritta in catalano non l’avrebbe avuta. In ogni caso, non date peso a questi miei pareri e badate, piuttosto, a quello dell’interessato per cui entrambe le traduzioni «funzionano», anche perché, ha affermato, «credo nella lettura democratica: concedo al lettore di dare la sua interpretazione». In più, ha aggiunto, «la traduzione è un atto di creazione» cui deve essere riconosciuto uno spazio di libertà. Poi, premettendo di voler lanciare una provocazione, ha così concluso: «Mi preoccupa che il traduttore sappia bene la sua lingua, non la mia!».
E poiché di traduzione parliamo, ricordo ancora una volta il ruolo altrettanto prezioso degli intrepreti, scusandomi per non avere colto neppure questa volta il cognome della bravissima Giovanna, che ha saputo tradurre lo spagnolo di Paco Ignacio Taibo II con la stessa scioltezza con cui il giorno prima ha tradotto il francese di Magali Le Huche.
Foto Silvia Onnis