“Il pericolo è buono!” Arturo Perez-Reverte dixit
di Marcella Onnis
Sono anche io fermamente convinta che le esperienze positive non siano solo quelle facili, comode, ma anche quelle che ti arricchiscono costringendoti a rimettere in discussione le tue convinzioni. E non importa che alla fine cambi idea, punto di vista, oppure no: ciò che conta è che quell’esperienza ti abbia fatto dubitare di essere nel giusto. Esattamente ciò che mi è capitato ascoltando Arturo Perez-Reverte al Festivaletteratura 2017 di Mantova.
All’inizio l’incontro è sembrato abbastanza “standard”: Francesco Abate, nella veste di conduttore, ha scelto un esordio spiritoso e il collega spagnolo è stato all’altezza della situazione (come all’altezza del compito è stata, come d’abitudine, l’interprete Giovanna Melloni). Riguardo al suo lavoro come scrittore, Perez-Reverte ha confessato che a lui non piace scrivere, anzi: «Lo detesto. Quello che mi piace è immaginare, raccontare storie, ascoltarle, andare a dormire ogni sera pensando cosa scrivere il giorno dopo. Mi piace questo stato di veglia come fossi un cacciatore che va in giro con il fucile. Ma l’atto meccanico di scrivere e correggere è molto sgradevole. Sono uno scrittore che odia scrivere. È la verità, non è uno scherzo». Già dall’inizio, dunque, anche a chi ancora non lo conosceva è stato chiaro che Perez-Reverte non è certo un tipo ordinario.
Il suo ultimo romanzo, “Il codice dello scorpione” (“Falcò” in spagnolo), è ambientato negli anni della Guerra civile spagnola, contesto che aveva già affrontato anni fa in un libro rivolto ai giovani e non tradotto in Italia, ha rimarcato Abate, preparatissimo sul suo ospite. Da qui la curiosità di sapere perché è voluto tornare sull’argomento. «La generazione che ha fatto la guerra è morta, i figli di questa generazione sono vecchi o stanno morendo. Ora, c’è una seconda, terza, quarta generazione che conosce la guerra di seconda mano e viviamo tempi in cui si esigono semplicità ed etichette facili: questo sta dando una versione della guerra civile pericolosa» ha risposto l’autore spagnolo, per poi aggiungere che: «Quando uno sta lontano da una cosa vede le cose “chiare”: c’è una parte buona e una cattiva. Ma quando vive con le persone, fuma le loro sigarette, le vede soffrire, sognare, morire… la frontiera diventa molto labile. In Spagna sta succedendo che tutto viene etichettato con troppa facilità. La Spagna è un Paese molto più pericoloso dell’Italia: siamo capaci di far esplodere un edificio se fatto dalla fazione opposta. Per queste ragioni ho scritto “Il codice dello scorpione”, in cui c’è molta provocazione». Considerate, però, certe proposte venute ultimamente dal mondo antifascista, anche a livello istituzionale, qualche timore dovrebbe venire pure per il nostro Paese…
Tornando al nuovo libro, dopo averne segnalato l’intento provocatorio, Perez-Reverte ha precisato che «quando parlo di dolore e morte, parlo di cose che ho dentro». Anche il protagonista Falcò, spia franchista, nasce dall’esperienza personale: «A 15 anni ho capito che le ragazze passeggiano mano nella mano con i cavalieri, ma poi vanno a letto con le canaglie. Falcò sfrutta bene questa mia scoperta dei 15 anni». Poi, facendosi serio, riguardo alla doppia natura (cinica e affabile) di questo personaggio ha affermato di aver conosciuto «tante persone come Falcò. Io stesso in alcune occasioni ho dovuto agire come lui per questioni di sopravvivenza. Falcò non è frutto della letteratura o delle chiacchiere in un bar tra scrittori: è frutto di una vita dura e reale. Quindi è un personaggio reale. Ho pagato a caro prezzo per sapere come avvengono le cose che fa e questo romanzo ne è il frutto. Ma è costato rimorsi».
E qui c’è stato il punto di svolta dell’incontro, segnato dal diradarsi e dallo stentare degli applausi, fatto rimarcato dallo stesso Perez-Reverte. Un certo gelo è, infatti, calato quando ha affermato che «uccidere, torturare, essere violenti sono atti naturali. Qui non li abbiamo, li abbiamo dimenticati. Quelli che non lo hanno dimenticato hanno più possibilità di sopravvivere se questo dovesse accadere». «Un terzo di quelli che siamo qui potrebbe essere un perfetto assassino» ha affermato successivamente, commentando il suo incontro con un cecchino che, nelle ore passate fianco a fianco, mentre lavorava, gli raccontò del suo lavoro come professore di musica e della sua famiglia. Sbagliato, però, sarebbe vedere queste dichiarazioni come mere provocazioni: oltre a ricollegarsi al discorso dei leoni che sono dentro di noi, affrontato lo stesso giorno da Ayelet Gundar-Goshen, nascono dall’esperienza ventennale di Perez-Reverte come reporter in zone di guerra. E a comprovare la sua obiettività è anche il fatto che abbia smesso di svolgere questo lavoro nel momento in cui si è reso conto di essere troppo coinvolto dai fatti che doveva raccontare e di non poter, quindi, più farlo con la necessaria neutralità: dovere di un cronista era – ed è – per lui fornire informazioni e lasciare il giudizio al pubblico. «I libri mi hanno aiutato a capire che l’orrore, la morte, il dolore fanno parte della vita così come la felicità. Non mi hanno salvato: mi hanno dato una forma di vita» ha raccontato ancora.
«Ti sei allontanato dal fronte, ma il fronte è tornato…» ha commentato Abate, portando l’ospite verso la drammatica attualità. «Il fronte è sempre stato qua: l’avevamo dimenticato» ha risposto lapidario, rincarando poi la dose: «Credevamo di essere in salvo, ma io sapevo che non era così. Adesso la vita bussa qua e dice: “Benvenuti nella vita reale”. Siamo schiacciati dallo stivale del Caso e del Destino: abbiamo passato troppi anni senza che lo ricordassimo. Non è che ne sia contento, ma credo sia salutare che la Storia si ripeta e ci ricordi dove siamo e chi siamo». Riprendendo poi le dichiarazioni rilasciate all’indomani dell’attentato a Barcellona, opportunamente citate da Abate, Perez-Reverte ha affermato che sì, «bisogna avere paura: è la mancanza della paura che ha fatto sì che ora siamo in pericolo. Ciò non significa che occorra avere sempre la paura addosso, ma occorre vivere con la consapevolezza che questo è un mondo pericoloso. Se sei sveglio, se conosci la Storia, sai cogliere i segnali. Vivere all’erta è più bello, emozionante, soddisfacente. Europa e Occidente hanno perso questa capacità: ci siamo addormentati nel benessere, nella tranquillità. Se uno sta nel pericolo, è più solidale, ha bisogno degli altri. E nel dolore e nella felicità guarda il viso degli altri, cerca amici, compagni. Il pericolo ti tiene vivo. È buono!». Il suo entusiasmo, però, non è sembrato avere molta presa sulla platea.
Su invito di Abate, Perez-Reverte ha quindi argomentato un’affermazione rilasciata recentemente riguardo all’incompatibilità tra mondo arabo e democrazia: «Mi piace molto il mondo arabo, sono stato molto felice là, anche durante le guerre. Conosco le loro virtù. Li rispetto molto. Ma la Storia non può essere cambiata. È buono che vengano: siamo vecchi e non vogliamo più lavorare, fanno quello che non vogliamo più fare, però c’è una linea rossa che non si può superare perché ci è costato tanto eliminare certe cose. Per secoli le persone sono morte per difendere la libertà di pensiero e non possiamo tollerare che questo ritorni. Tu vieni qua, però, devi stare alle nostre regole. È un discorso politicamente scorretto, ma credo non accadrà: siamo troppo codardi per quello che dicevo prima. È un problema molto complesso che non ha soluzione». Schiaffi verbali che, però, in retrospettiva sembrano carezze paragonati alle parole che sono seguite: «Noi viviamo sul lato buono di Roma e non è possibile vivere sul lato comodo di Roma e poi applaudire i barbari: bisogna scegliere. Ricordiamoci che molti romani hanno aiutato i barbari a Roma: è legittimo difendere i barbari come è legittimo dire “Io difendo il mio lato”. Ma questa Europa, che non ha più memoria, pretende di stare su due fronti. E credo che Roma si meriti di essere colpita». Certo, Perez-Reverte non intendeva tanto dire che abbiamo colpe da scontare, quanto che, appunto, ci sarebbe salutare vivere questo shock, ma per un attimo tanti di noi – penso più di un terzo – gli hanno rivolto cattivi pensieri.
Per alleggerire un po’ il clima, Abate è tornato al passato, alla Guerra civile spagnola, per domandare all’ospite con chi si sarebbe schierato: «La maggior parte degli spagnoli si sono schierati dove gli era toccato. Io pure avrei fatto così. Oggi non combatterei con nessuno. Nella guerra vista da vicino ci sono solo umani che mettono in atto un antico rituale».