Marcello Fois, un intellettuale vero
Sono convinta – e nessuno mi farà mai cambiare idea – che quando si parla di un giallo, noir, thriller o, in generale, di un libro in cui suspense, colpi di scena e rivelazioni siano fondamentali, meno si parla della trama meglio sia. Per questo – non me ne voglia l’interessata, tanto carina e brillante – il modo in cui, al Festivaletteratura 2017 di Mantova, Chiara Valerio ha presentato “Del dirsi addio”, l’ultimo libro di Marcello Fois, è esattamente quello in cui per me non andava presentato. Nel mio resoconto dell’incontro, pertanto, eviterò quasi del tutto di fare riferimento alla trama.
Il titolo, ha spiegato l’autore, non allude tanto al dirsi addio con qualcuno: «Dirsi addio è dire addio a sé stessi, a una parte di sé. Per questo è più difficile del dire addio». Riguardo al genere del romanzo, invece, Chiara Valerio ha affermato di trovarlo «un po’ un giallo e un po’ un noir», mentre Fois ha detto di propendere più per il noir: «Il giallo ha una sua caratura illuminista che il noir non ha, ha una sfumatura consolatoria. Nel noir questo non succede: dentro c’è uno spazio di disobbedienza che nel giallo non c’è. Il noir è più freudiano: diversamente dal giallo, non spiega come l’assassino ha compiuto l’omicidio, ma perché lo ha fatto».
Quando poi – sempre restando sul piano della forma – lei ha osservato che questo romanzo è un fedele specchio dell’Italia, lo scrittore ha affermato che «il neorealismo è verità senza felicità, quindi è falsità» e che «anche l’estremo realismo necessita in qualche modo di essere semplificato perché appaia reale». Riguardo, invece, alla scelta di cambiare totalmente ambientazione, abbandonando la Sardegna per Bolzano, Fois ha così “confessato”: «Dopo undici anni dei Chironi avevo bisogno di cambiare posto. E non posso parlare di una storia senza descrivere il posto. Bolzano è descrivibile e la adoro».
Il meglio, però, lo abbiamo ovviamente sentito quando sono stati tirati in ballo i contenuti più profondi del romanzo in cui l’autore ha detto di aver «cercato di parlare dell’affettività, delle varie condizioni dello stare insieme». In particolare, ha dato centralità alla paternità, come ha notato Chiara Valerio: «Nel libro ci sono due idee di paternità: un padre che si preoccupa della popolarità del figlio (la nuova generazione) e un padre che non se ne preoccupa e ha un atteggiamento draconiano (la vecchia generazione)» ha precisato l’autore. Per la scrittrice, peraltro, la componente noir del romanzo è proprio data da questa indagine sui due tipi di paternità, mentre la componente giallistica è determinata dall’indagine che, nella trama, scaturisce dalla scomparsa del piccolo Michele. Interessanti anche le riflessioni di Fois sui rapporti di coppia, originate dalle puntuali annotazioni della collega sulle relazioni amorose dei protagonisti: «Le coppie che si dicono tutto durano una settimana… se si vogliono molto bene. Se non si riesce a costruirsi uno spazio di autonomia, c’è un problema nella coppia». Ancor più belle, però, le sue parole sulla famiglia e sulle sue possibili “varianti”: «Per me le famiglie sono produzioni di affetto, di amore: quello per me è il discrimine, non il genere. La famiglia è dove si produce senso del mondo, empatia. Mi chiedo quale tipo di energia metta in campo. Questo m’interessa, poi ognuno la pensa come vuole. Non credo all’unanimità in questo tipo di faccenda, però credo sia importante che qualcuno si prenda la briga di proporla, questa alternativa. E se non lo fa la letteratura, chi deve farlo?» Ancora una volta, mi sono ritrovata a pensare che Marcello Fois sia un intellettuale vero (ragion per cui spero non faccia mai l’errore di entrare nel sistema politico e continui, piuttosto, a osservarne dal di fuori l’agire con spirito critico e costruttivo).
Argutamente Chiara Valerio ha poi rimarcato come Fois sembri essere «un po’ ossessionato dalla paternità», avendo già affrontato il tema nella saga dei Chironi (ma, oltre a questo ciclo, potevano essere citati “Sola andata” e il suo racconto incluso nella raccolta “Scena padre”). Insolito, però, a suo parere, l’aver, questa volta, trattato l’argomento con un romanzo di genere, scelta che l’interessato ha così spiegato: «Perché sono un lettore e perché sono uno scrittore presuntuoso, quindi ho il romanticismo delle persone che, quando un libro è ben scritto, non si pongono il problema del genere. Quando leggo un buon libro, io non mi chiedo mai che genere è. Il problema che mi pongo non è della buona scrittura: di più! La mia è l’idea di riprendere a considerare il lettore leggente e non guardante. La letteratura è lo spazio dei sensi, quella cosa dove sei contemporaneamente regista, sceneggiatore, costumista… I grandi scrittori sono quelli che ci provano a non fare del lettore solo uno spettatore». E poi ha aggiunto: «Il minimo sindacale dello scrittore, per me, è lasciare il lettore con un paio di parole in più», teoria già espressa in altre occasioni e che, a parer mio, costituisce l’aspetto più elitario della sua idea di Letteratura (non a caso l’unico su cui io abbia qualche perplessità). Più tardi, tornando sull’argomento, ha così commentato quanto raccontato il giorno prima da Domenico Starnone riguardo al suo giovanile desiderio di competere con gli autori della Bibbia (a sentirlo c’erano, infatti, sia Fois che altri esponenti di spicco della scuderia Einaudi, come Diego De Silva e Paolo Cognetti): «Io non mi stupisco e credo che un lettore dovrebbe voler bene a uno scrittore che pensa questo. Io sono sempre alla ricerca della possibilità massima che ci viene concessa… e quindi fallisco molto!». Più tardi ha anche affermato che «come uomini, credo ci spetti il destino di lavorare per fare sempre meglio». Convinzione che spiega perché lui, nel suo lavoro, nella sua arte, sia molto più che bravo.