La storia ci ricorda nel bene e nel male: la nascita dell’elettroshock
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Si sa la storia non mente: corsi e ricorsi, date e ricorrenze più o meno importanti la cui menzione mira a valorizzare l’evento o gli eventi accaduti, con i loro protagonisti e gli eventuali risultati conseguiti. Tra queste il 1938, che non fu solo l’anno dell’approvazione in Italia delle leggi razziali, ma anche la prima applicazione dell’elettroshock (E.S.) ad opera del neurologo e psichiatra Ugo Cerletti (1877-1963, nella foto), su un paziente presso la clinica delle Malattie nervose e mentali dell’Università La Sapienza. A questa metodica Cerletti arrivò dopo aver notato che, in un mattatoio di Roma, i macellai usavano una scarica elettrica per provocare nei suini delle convulsioni epilettiche, allo scopo di renderli più mansueti e quindi più facili da macellare. Ma come giunse all’ applicazione in esseri umani? «Ciò che avevo potuto sperimentare sui maiali – annotò – corrispondeva in modo preciso a quanto già s’era stabilito sui cani, che cioè il passaggio di una corrente alternata di 125 volt attraverso il capo per frazione di secondo scatenava l’attacco epilettiforme senza pericolo per la vita e senza lasciare inconvenienti apprezzabili. Dato che si trattava di mammiferi di struttura notevolmente diversa sui quali avevo potuto ampiamente sperimentare con diverse modalità di applicazione sul capo e con tempi molto lunghi il passaggio della corrente elettrica senza alcun danno apparente, decisi di tentare la prova sull’uomo». Il paziente “designato”, di circa quarant’anni, era affetto da schizofrenia, raccolto per strada, e che nessuno aveva mai reclamato. Anche se lucido e orientato, era in preda ad allucinazioni e ad idee deliranti, apatico e abulico; tuttavia, risultava essere in buone condizioni organiche generali. La pratica che lo stesso Cerletti definì con il termine di elettroshock (o terapia elettroconvulsivante), consisteva nell’uso di un’apparecchiatura (oggi esposta nel Museo di Storia della Medicina dell’università di Roma), ingombrante ma funzionale, che mediante l’applicazione di elettrodi in sede bitemporale consentiva l’esposizione alla corrente elettrica secondo specifici parametri di tempo e voltaggio, tali da indurre una crisi convulsiva, con scosse tonico-cloniche. «Il 25 maggio dello stesso anno, dopo aver effettuato sei E.S. – precisò lo psichiatra – il paziente si presentava ai medici in atteggiamento rispettoso, ordinato; era lucido, ben orientato, si esprimeva correttamente, senza più nessun neologismo. Da lui stesso potemmo avere notizie esatte sulla sua persona e sui suoi precedenti morbosi; era stato ricoverato all’ospedale psichiatrico di Milano il 28 dicembre 1937 con turbe ballucinatorie a carico dell’udito, con l’idea fissa di essere perseguitato dai famigliari. Diagnosi: schizofrenia».
La cura sembrava quindi funzionare, probabilmente anche perché (pare) che eliminasse le proteste e le lagnanze dei malati, trovò applicazione sino agli anni ’60, e si estese negli ospedali psichiatrici europei e americani. Tale trattamento era indicato non solo nelle depressioni gravi, ma anche nell’ulcera peptica, poliomielite, orticaria, asma, incontinenza, eiaculazione precoce ed anche nella dismenorrea (mestruazioni dolorose); indicazioni che si sono poi dimostrate del tutto immotivate e dannose… Il tasso di mortalità era di 1 per 1.000, ma più frequenti erano le complicazioni (40%) soprattutto di tipo osteoarticolare: il 20% dei pazienti trattati con l’elettroshock subì fratture da compressione delle vertebre. In seguito la tecnica iniziale fu soggetta a modifiche allo scopo di ridurre gli effetti collaterali e aumentare i presunti effetti terapeutici, attraverso il miglioramento delle apparecchiature e protezione del malato adottando specifici accorgimenti: dalle posture precauzionali e l’uso di premedicazioni, all’indicazione anestesiologica e di farmaci miorilassanti. Lo scopo dell’affannosa ricerca di Cerletti fu quello di individuare, in era prefarmacologica, un percorso terapeutico che potesse alleviare le sofferenze della malattia mentale. L’E.S. ne era strumento, ma primitivo, violento e privo di fondamenti scientifici. Del resto, lo stesso Cerletti, dieci anni dopo il suo primo esperimento sull’uomo, quasi a volersi ricredere, scriveva: «Lo dissi già fin dalla prima volta che presentai l’E.S., che mi auguravo che questo metodo aggressivo, violento, venisse al più presto abbandonato per metodi meno drastici, e sto lavorando attivamente in questo senso: sarò il primo a rallegrarmi quando l’E.S. non verrà più applicato».
In Piemonte il 30 dicembre 1999 il Consiglio Regionale ha approvato, non dopo poche “sollecitazioni” a furor di popolo, una “Regolamentazione sull’applicazione della terapia elettroconvulsivante, la lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia”, con la quale si pongono precise limitazioni (consenso informato, limiti di utilizzo, monitoraggio, sorveglianza e valutazione) per poter prescrivere e praticare la terapia elettroconvulsivante. La stessa legge proibisce in maniera definitiva ogni genere di pratica di psicochirurgia (lobotomia). Mentre tali pratiche sono ancora attuate in Austria, Danimarca e Inghilterra. Ulteriori approfondimenti sulla storia e l’evoluzione dell’E.S. si possono trovare nella pubblicazione “Ugo Cerletti – Scritti sull’elettroshock” di Roberta Passione (Ed. Franco Angeli, 2006, pagg. 233). Tali scritti possono essere ancora letti sia per un eventuale dibattito (per certi aspetti ancora aperto), che anche come un contributo storico-culturale aperto ad ogni tipo di riflessione, tanto sull’illuminato clinico e ricercatore quanto sull’importanza di considerare, o meno, la validità di una terapia invasiva… nonostante la non poca presenza di pazienti affetti da patologie nervose e mentali anche gravi.