A TORINO CONTINUA IL LUNGO PERCORSO SULLA PREVENZIONE
Al Molecular Biology Center con l’Associazione Più Vita in Salute
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Altri due esperti per illustrare e rispondere con argomenti di quotidiano interesse come Rettorragia: che fare? Dottore ho visto del sangue nelle feci che fare?, a cura del chirurgo dell’apparato digerente dott. Bruno Ceccopieri; e L’osteopatia che cosa è. Quando e a chi è utile?, a cura dell’ortopedico e osteopata dott. Andrea Ferrero. Da più parti e, a maggior ragione, dagli esperti, si sente dire mai trascurare un sintomo apparentemente banale come la perdita di sangue dall’orifizio anale (rettorragia), ma anche nelle feci, soprattutto se non occasionale, in quanto è sempre indice di una malattia. Se tale sintomo persiste è bene rivolgersi in primis al proprio medico di famiglia. Ma per quali cause si può riscontrare sangue nelle feci? «Ad esempio – ha spiegato il chirurgo – per la presenza di malattia emorroidaria e di ragadi anali, ma anche per diverticolite (infiammazione dei diverticoli), o enterocoliti acute batteriche. Qualunque fonte di sanguinamento: dal cavo orale alla regione anale è causa di fonte di emorragia, quindi possono manifestarsi malattie infiammatorie croniche come la rettocolite o il morbo di crohn, colite ischemica, infarto intestinale, malattie che colpiscono i vasi della mucosa intestinale (angiodisplasie); ma la maggior preoccupazione è il sospetto di una neoplasia benigna (presenza di polipi), o una neoplasia maligna (tumore) specie se vi è famigliarità in componenti che hanno avuto il tumore del colon». Soffermandosi sulla patologia emorroidaria il clinico ha brevemente spiegato che vene e arterie insieme formano un plesso emorroidario interno ed esterno utili alla continenza anale: feci liquide e flatulenza, e se con sanguinamento diventano malattia emorroidaria. Possono essere interne e prolassare, e anche le emorroidi del plesso esterno ma con un diverso significato patologico che non richiede asportazione chirurgica, tranne casi estremi, ossia se sono voluminose. «Le emorroidi interne – ha precisato – possono lacerarsi e sanguinare, oppure formare un coagulo all’interno (trombo) e dare origine alla cosiddetta trombosi emorroidaria. Solitamente se il plesso emorroidario si lacera e sanguina può causare bruciore e prurito ma non dolore; nella patologia di trombosi non c’è presenza di sangue ma c’é dolore e ciò è dovuto alla conseguente protrusione (fuoriuscita dall’orifizio anale). Tale malattia non è infrequente: si calcola che in Italia il 30-50% degli adulti di età 40-45 anni siano affetti da patologia emorroidaria. La familiarità ne aumenta l’incidenza ancorché associata alla obesità, a scorrette abitudini di vita come sedentarietà, alimentazione non adeguata; ma anche alla pratica di alcuni sport non del tutto adeguati; oltre a “viziate” abitudini defecatorie, stipsi, diarrea, e nelle donne l’uso di contraccettivi». Quindi il relatore ha posto l’attenzione sull’aspetto della prevenzione che va presa in considerazione a partire dall’età di 40-65 anni, con particolare riguardo per la famigliarità che ne aumenta tre volte l’incidenza; in taluni casi queste “difficoltà” possono essere superate con l’intervento del fisioterapista per il trattamento pelvico, come la sindrome della defecazione ostruita. Da tempo si ritiene che l’uomo è ciò che mangia e ciò può produrre benessere o malessere. Ma come si dovrebbe mangiare per non andare incontro a questi problemi? Secondo il clinico, ma anche secondo il buon senso, adottando un corretto stile di vita, assumendo alimenti senza eccedere in alcuni di essi, ed eliminando dalla dieta determinati cibi piccanti o che facilitano processi fermentativi, limitare l’alcol e le spezie, come anche il cioccolato; mentre è consigliabile il consumo di verdure. Ma tornando al concetto di patologia emorroidaria, come si giunge ad una corretta diagnosi in presenza di sanguinamento? »Il medico – ha spiegato il relatore – procede anzitutto alla anamnesi (storia medico-clinico-famigliare del paziente, ndr), alla visita clinica vera e propria che comporta anche l’esplorazione rettale; inoltre può rendersi necessario l’esame strumentale (anuscopia) che permette al medico la visione interna dell’orifizio anale, dal quale può stabilire la presenza o meno delle emorroidi interne, o una lesione del sigma (tumore) e, in caso di sospetto, può consigliare la colonscopia, che è una indagine più “estrema” del tratto gastroenterico. Da questi esami si può stabilire la presenza di emorroidi che possono essere di diverso grado: 1° e 2° grado, e il 3° e il 4° grado sono quasi sempre di competenza chirurgica; ma anche ragadi anali, ascessi, fistole (di origine infiammatoria), condilomi anali (di origine virale) a trasmissione sessuale, candidosi e micosi che, in questi ultimi casi, sono di competenza del dermatologo». Altre patologie di un certo impegno sono il morbo di chron, la rettocolite, le malattie infiammatorie intestinali croniche, le precancerosi come il morbo di Bowen, e le ulcere del retto come la proctite causata da batteri; ma soprattutto le neoplasie del retto e del canale anale. »Per quanto riguarda alcuni trattamenti terapeutici delle emorroidi – ha concluso il dott. Ceccopieri – la legatura delle stesse è sconsigliata in quanto spesso risulta essere un palliativo; mentre in certi casi come per le emorroidi di minore entità, sono risolutive la crioterapia e la laser terapia. La chirurgia è una terapia “drastica” e comunque risolutiva che, come ripeto, è indicata in particolare per le emorroidi di 3° e 4° grado».
La seconda relazione ha posto in luce una disciplina che forse non tutti conoscono, ovvero l’Osteopatia, che gli addetti ai lavori definiscono essere anche una “Medicina/Filosofia”; mentre l’OMS definisce essere: una professione sanitaria di contatto primario con competenze di diagnosi, gestione e trattamento dei pazienti, esclusivamente manuale che si indirizza a tutti i cittadini, dal neonato all’anziano. Un breve excursus è stato fatto dal dott. Andrea Ferrero, spiegando che Osteopatia è un termine che deriva dal greco, e più precisamente dall’associazione dei termini osteon (osso) e pathos (sofferenza). È una disciplina fondata nel 1874 (ma il termine è stato definito nel 1889) dal suo inventore, lo statunitense Andrew Taylor Still (1828-1917) che si basava sull’assunto teorico che le affezioni patologiche si potevano guarire ristabilendo, attraverso manipolazioni particolari del rachide, l’equilibro compromesso fra le parti articolari mediante il ripristino di un normale trofismo locale. E i principi fondamemtali di Still si riassumono in cinque concetti: la struttura governa la funzione, il corpo è l’unità, il corpo umano ha insiti i meccanismi di autoguarigione, la regola dell’arteria è assoluta, l’espressione della vita è il movimento ed il movimento è vitalità. Il corpo umano è una unità in quanto non è costituito da elementi, organi, apparati che funzionano in modo distinto e separato; ed è tutt’uno poiché equilibrio di spirito, corpo e movimento sono in armonia. Il sintomo è da considerarsi un effetto, quindi bisogna ricercare la causa («Se pesti la coda al gatto vedrai che dall’altra parte miagola», spiegava Still); e a questo proposito la dott.ssa Anne Wales (1904-2005), famosa osteopata, amava dire: «Noi osteopati siamo ad una linea di confine, oltre la quale vi è l’inesplorato». In Europa fu introdotta dallo scozzese John Martin Littlejohn (1865-1947) il quale nel 1917 ha fondato a Londra la British School of Osteopathy. In Italia le prime Scuole private sono comparse a metà degli anni ’80 regolate dal ROI (Registro Osteopati Italiani) nel 2018, e riconosciuta come professione sanitaria dalla Legge 3 del 29/9/2021, e con il Dpr del 5/12/2023. «Ma l’osteopatia – ha spiegato l’ortopedico – non è “solo” una medicina manuale, è anche ricerca e salute, una medicina olistica. I suoi principi sono costituiti da unità dinamica del corpo, una interrelazione tra funzione e struttura, capacità di auto-guarigione da parte del corpo, ossia l’insieme anatomo-funzionale e quindi un equilibrio tra struttura biochimica e mente. Per eliminare il male si tratta di indagare se il paziente ad esempio soffre di artrosi, se ha preso eccessivamente freddo, o se i dolori sono dovuti all’età; insomma, si tratta di interpretare situazioni cliniche non patologiche inizialmente con la medicina convenzionale nelle situazioni cliniche patologiche, la cui eziologia è spesso sottovalutata o non ricercata. Le situazioni cliniche sono silenti in cui la causa non è necessariamente localizzata nel punto dove si manifesta il dolore; nelle situazioni cliniche non riscontrabili con esami strumentali, si individua la lesione anatomica e, se non la si riscontra, si deve pensare ad una disfunzione».
La disfunzione osteopatica è un’alterazione locale articolare, muscolare, fasciale, vascolare, viscerale o neurovegetativa dovuta ad un problema locale e/o sostenuta da un problema a distanza. Ma quali sono le evidenze a distanza? «Sono – ha precisato il relatore – una alterazione della qualità tissutale o del tono dei tessuti molli, disturbo dell’ampiezza e della qualità del movimento articolare, iperalgesia locale con o senza dolore riferito dal paziente. L’origine della disfunzione può interessare varie parti del corpo e l’interno dell’organismo. L’osteopata le correla dal punto di vista sia anatomico che funzionale, quindi la valutazione osteopatica si concentra sull’anamnesi, l’osservazione e la palpazione, e soprattutto l’osservazione deve essere globale considerando la postura e quindi la posizione del corpo in movimento e anche in fase statica. Ne consegue il test di mobilità articolare dell’articolazione in oggetto, individuando nel contempo le limitazioni articolari, e focalizzando l’attenzione verso la zona in disfunzione, per poi procedere al trattamento per restituire la funzione alle strutture che l’hanno persa». L’esperto ha poi precisato che le tecniche manuali si estendono alle strutture miotensive, fasciali, viscerali e cranio sacrali, e la ripresa della funzione interessata la si evidenzierà con il recupero della mobilità articolare, sia locale che a distanza e con la riduzione e/o scomparsa del dolore, ma si manifesterà soprattutto con il raggiungimento di un equilibro metabolico attraverso la normalizzazione del sistema vascolare e neurovegetativo. «Tali applicazioni – ha concluso il dott. Ferrero – sono indicate in neonatologia e pediatria, ortopedia e traumatologia, fisiatria, ginecologia, odontostomatologia e otorinolaringoiatria. Va comunque precisato che ogni situazione clinica è un caso a sé, e che si cura la persona e non il sintomo. La prevenzione che consiste, appunto, nell’intervenire su di un organismo in formazione, presenta vantaggi terapeutici. Tra questi sono da evidenziare la struttura agile e malleabile dei bambini assimila a fondo ma soprattutto in modo definitivo l’intervento terapeutico; reagisce alle cure in tempi molto rapidi; visto in prospettiva, migliora la qualità di vita e riduce il dolore, costi e incertezze che la cura di un corpo ormai sviluppato comporta». Dal punto di vista dell’informazione in questi ultimi anni la medicina osteopatica ha conosciuto una notevole divulgazione ed evoluzione. La letteratura a riguardo è sempre più copiosa ed è fruibile non solo su internet, ma anche dalle numerose pubblicazioni editoriali e della stampa in genere; oltre naturalmente a corsi di formazione, giornate di studio e convegni sia a livello nazionale che internazionale.
Foto a cura di Giovanni Bresciani