Alain Delon bello e dannoso; con digressioni
di Carlo Di Stanislao
«Non volevo fare questo mestiere. Venivo dall’esercito. A 17 anni ero sotto le armi. La mia infanzia è stata tragica. Poi è successa una cosa miracolosa: il cinema è venuto a cercarmi. Forse sono stato scelto per il mio aspetto fisico, ma non corrispondeva a chi ero davvero: era l’opposto del mio travaglio interiore». Alain Delon
Abbandonato dai suoi e con una infanzia difficile, da piccolo criminale, con tante famiglie adottive incapaci di capirlo. Espulso da scuola e dall’esercito, con infamia, per indisciplina e il furto di un fuoristrada. Alain Delon nasce l’8 novembre 1935 a Sceaux, nell’Île-de-France: il suo nome per intero era Alain Fabien Maurice Marcel Delon. Antipatico e scostante, sessista e omofobo, ma anche irresistibile e con slanci imprevedibili di generosità. Sullo schermo era morto 35 volte, nella vita ha iniziato a farlo dal 2005. Frequentava donne più anziane di lui, con reciproca soddisfazione, finché un talent scout, donna naturalmente, Brigitte Aubert, lo introdusse nel mondo del cinema: il suo. «Di lui – diceva Visconti – mi piacciono il candore malinconico, la tristezza profonda, la ribellione rimbaudiana». Le labbra serrate in un mezzo sorriso arrogante, gli occhi di ghiaccio, lo sguardo tagliente, la faccia d’angelo inquieto, Alain era un seduttore naturale.
Drammaticamente bello, può avere (e ha) tutte le donne che vuole. «Non ho mai corteggiato una donna – amava dire – sono loro che cercano me». «La seduzione è fatta di calcolo, non di fascino». Sembrerebbe la frase di un latin lover «de noantri», ma a dirla era lui, considerato l’uomo più bello del mondo. Le donne sono state parte importante della sua vita, tanto da ammettere di aver iniziato e continuato a recitare «per via delle donne e per le donne». Di lui, nel ’58, s’innamora Romy Schneider: lo scapestrato ragazzo francese e la dolce ragazza austriaca. Su di lui Romy investe tutta se stessa senza accorgersi che è l’uomo sbagliato, senza radici, troppo bello per essere di una sola. Alain la lascia («Molto bello ma vigliacco», dice di lui Romy) per sposare Nathalie Barthélemy, che diventerà madre del suo primo figlio, Anthony. Lasciata Nathalie, sono Mireille Darc e Anne Parillaud le donne più note fra le tante che hanno una piccola parte nella sua vita esagerata.
L’attore perde colpi negli anni Ottanta e stenta a ripetere i successi di un tempo. L’uomo sembra stabilizzarsi nella serenità quando sposa una giovane e bellissima modella olandese, Rosalie Van Bremen, da cui ha due figli: Anoucka (la sua preferita) e Alain-Fabien. Il mondo dei rotocalchi si stupisce nel vedere il mitico Delon, nel frattempo diventato nonno, interpretare due parti non tagliate per lui: quella del marito fedele e del padre amoroso di due bambini. La favola non dura. Nel 2002 Rosalie lo lascia e il maschio più desiderato del Novecento si sente solo. L’edonista che viveva alla giornata, per la prima volta si guarda indietro. E si guarda dentro: vecchio, malato di cuore, malinconico, dolente, in crisi sentimentale. «Non capisco le donne – dice – e morirò senza averle capite». Il seduttore s’interroga sull’oggetto della seduzione. «È’ un brutto segno», commenta un giornale francese. Nel 2005 la caduta. «Non lascerò a Dio la scelta della data della mia morte». Il “duro” è depresso e ventila il suicidio. La notizia va impietosamente in prima pagina. Le donne d’Europa sono sconcertate: il mito è a pezzi, il sogno di una vita è crollato. Ma Alain resiste e, in parte, recupera. Nel 2008 torna a recitare, invecchiato, segnato, con un sorriso opaco. Non è più uomo copertina, vive con i suoi cani e i suoi ricordi.
Nel maggio del 2019 torna ad assaporare le luci del red carpet al Festival di Cannes per ricevere la Palma d’Oro alla carriera, tra lacrime e un discorso dai toni testamentari. “Il giorno dopo questa Palma d’Oro alla carriera, mi sento di ringraziare tutti coloro che mi hanno dimostrato in un modo o nell’altro il loro affetto e la loro simpatia, e non solo. Mentre il mio viaggio volge al termine, voglio dirlo: ho conosciuto tante passioni, tanti amori, tanti successi e fallimenti, tante polemiche, tanti scandali, vicende oscure, tanti ricordi, tanti appuntamenti mancati e incontri improvvisati, tanti alti e bassi; che quando gli onori non sono altro che vani e lontani ricordi, c’è solo una cosa che brilla con la sua costanza e longevità: voi, solo voi. A voi che avete determinato quello che sono e che determinerete quello che sarò, devo dire grazie, grazie, grazie”, scriveva l’attore al suo pubblico.
Conquistare, amare e poi? E poi nulla, se non le rughe: una ruga per ogni momento d’amore o di amara tristezza. Stanco, con l’aria confusa, incapace addirittura di riuscire ad elaborare una frase di senso compiuto. Sono le condizioni nelle quali è stato trovato da un medico legale che lo scorso luglio aveva visitato l’attore nella sua storica residenza di Douchy, nel sud della Francia, dove è morto il 18 agosto a 88 anni.
“Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle. Per sempre tua, Angelica”: rivivendo un’ultima volta le storiche scene che li videro indimenticabili protagonisti de “Il Gattopardo”, Claudia Cardinale affida all’Ansa le sue ultime parole per Alain. “Mi chiedono parole – dice – ma la tristezza è troppo intensa. Mi unisco al dolore dei suoi figli, dei suoi cari, dei suoi fan. Il ballo è finito”. Sul set era una star ma la sua carriera è stata turbolenta come la sua vita privata, tra amori folli (Nathalie Delon, Jill Fouquet, Romy Schneider, Nico, Dalida, Mireille Darc, Anne Parillaud, Rosalie Van Breemen), figli trascurati ( e uno mai riconosciuto), grane legali in vecchiaia con la sua amante/badante Hiromi Rollin, liti ricorrenti tra i figli, passioni pericolose (i cavalli, la boxe, il gioco), rischiose amicizie nella malavita e il mistero dell’assassinio del suo body-guard, Stevan Markovich.
Si può dire di lui bello e dannato, che ha nuociuto a molti a partire da se stesso. Il Figaro, perfido, aveva scritto che “la parte migliore della sua recitazione è quando non apre bocca”. Ma ridurre la straordinaria carriera di Alain Delon al suo magnetismo, alla sua bellezza imbronciata, ai suoi ombrosi silenzi, è davvero ingiusto. Ora è nella sua Prima notte di quiete, come il titolo del film del ’72 da lui interpretato, diretto da Valerio Zurlini che parte da un verso di Goethe, che nasconde il sollievo della morte: un sonno finalmente senza sogni. Alain Delon, che si appassiona a tal punto al personaggio da partecipare al film anche in veste di produttore (non senza screzi con Zurlini), nei panni del professore crea uno dei suoi personaggi più intensi, impregnato di angoscia e capace di improvvisi slanci di dolcezza. La prima notte di quiete è un capolavoro dell’arte del Novecento. E lì Alain è più i che mai se stesso.
Io lo ricorderò soprattutto per Le Samourai di Melville, polar del 1967. Ore sei del pomeriggio. Un uomo è sdraiato sul letto di uno spoglio monolocale, mentre volute di fumo che partono dalla sua sigaretta si levano nell’aria. Sullo sfondo, tra due finestre battute dal temporale che sta investendo Parigi, c’è una grossa gabbia di metallo. Dentro la gabbia, un canarino non smette di pigolare. L’uomo, che ha la bellezza algida e lo sguardo distaccato del trentaduenne Alain Delon, si chiama Jef Costello ed è un “tueur à gages”, un sicario assoldato per uccidere il proprietario di un night club. Costello spegne la sigaretta e si alza in piedi, sfiora con un cenno propiziatorio la gabbia del canarino e comincia a prepararsi per la missione. Ogni sua azione è meticolosa e precisa, ogni suo gesto ritagliato con precisione rituale, come i gesti di un samurai. Nessun movimento superfluo, nessuna parola di troppo.Parte così il capolavoro realizzato da Jean-Pierre Melville nel 1967, che in francese si intitola, appunto, Le samouraï.
Jef Costello condurrà a termine il suo lavoro in modo impeccabile, ma il destino farà incrociare la sua strada con quella di una testimone, e lui sarà costretto a guardarsi non soltanto dalla polizia, ma dalla stessa organizzazione che l’ha ingaggiato. Anche se la sua trama può apparire simile a quella di molti B-movie a sfondo gangsteristico, Le samouraï segna uno spartiacque nel filone delle crime-story che hanno tra le figure centrali quella del killer solitario a sangue freddo.
Prima di Melville, infatti, nessun regista aveva formalizzato in modo così radicale i codici comportamentali del sicario, mutuandone l’iconografia dalle tradizioni western e poliziesca del cinema classico americano. Tradizioni di cui i referenti più immediati sono, rispettivamente, il nevrotico pistolero Wilson interpretato da Jack Palance in Il cavaliere della valle solitaria (Shane, George Stevens, 1953) e il sicario Raven interpretato da Alan Ladd in Il fuorilegge (This Gun for Hire, Frank Tuttle, 1942), al quale Melville si ispira, oltre che per il look di Costello, anche per i due minuti iniziali del film.
Anche Raven possiede un animale, un gatto che accarezza scaramanticamente prima di andare a uccidere, e in cui, come Costello, vede riflessa la propria condizione esistenziale. Parliamo ovviamente della solitudine, che già prima di Costello aveva caratterizzato l’universo degli (anti)eroi melvilliani, a partire dall’ufficiale nazista Werner di Il silenzio del mare (Le silence de la mer, 1947) fino al gangster Gu di Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide! (Le deuxième souffle, 1966), ma che, nel caso di Le samouraï, appare per la prima volta sradicata dal contesto storico o sociale in cui il protagonista si muove, trovando la propria ragion d’essere soltanto all’interno della sua mente e nelle sue percezioni.
Costello è, infatti, uno psicotico. «Un killer è per definizione uno schizofrenico» afferma il regista nel libro-intervista Il Cinema secondo Melville di Rui Nogueira (Le Mani, 1994). «Prima di scrivere la sceneggiatura, ho letto tutto ciò che ho potuto sulla schizofrenia, sulla solitudine, sul comportamento muto, il ripiegamento in se stessi. […] Per lo schizofrenico, ogni atto è un rituale». Il termine schizofrenia deriva dall’unione delle due parole greche schizo (scindo) e phren (mente). Lo schizofrenico possiede cioè una mente divisa, frammentata. Non è difficile intuire come mai Melville abbia scritto il soggetto del film pensando ad Alain Delon, l’attore la cui proverbiale ambiguità, insieme alla dote innata di rarefare ogni emozione, ha portato moltissime volte a confrontarsi col tema del doppio e con quello della ricerca (o dell’affermazione) dell’identità personale. Ricerca che spesso può giungere a compimento solo tramite l’omicidio, come avviene in Delitto in pieno sole (Plein Soleil, René Clement, 1960) o in L’assassinio di Trotski (L’assassinat de Trotski, Joseph Losey, 1972), per citare solo i film più significativi di Delon in tal senso.
Melville permea dell’ambiguità e della freddezza tipiche del divo francese il senso di estraneità con cui Costello vive il contatto con gli oggetti, e pone dei veri e propri filtri umani nel modo in cui il samurai si relaziona con le altre persone: il maturo professionista Wiener (Michel Boisrond) con cui Costello condivide la ragazza che lo ama (Nathalie Delon), e il sicario biondo (Jacques Leroy), quasi un clone di Costello, elemento di raccordo con l’organizzazione. Tali doppioni, simboli viventi della frammentazione psichica del protagonista, diventano meri strumenti che lui utilizza per i suoi scopi (la costruzione del falso alibi con cui ingannare la polizia, o scoprire l’identità di chi ha ordinato di ucciderlo). Essi possiedono, in altri termini, la stessa, intercambiabile funzionalità delle automobili o dei revolver con cui il samurai porterà a termine il suo rituale di morte. E in fondo Alain Delon, apparentemente libero e ribelle, questo di fatto è stato dentro al cinema e nella vita: uno strumento.
Dal 14 agosto del 1994 mai ho smesso un solo giorno di pensare a Elias Canetti. Almeno un pensiero al giorno, come un’ossessione, tanto sono estese le cose del mondo che egli riusciva a raggiungere, anche stando seduto. Oggi sono trenta gli anni che ci separano dalla sua morte, morte che ha sempre tentato di combattere, senza ovviamente vincerla: “Non morire (il primo comandamento)”. Elias Canetti nasce a Ruse in Bulgaria il 25 luglio 1905 in una famiglia di ebrei sefarditi. Ha come lingue materne l’antico spagnolo e il bulgaro. In un suo dramma il romanziere e saggista premio Nobel della letteratura nel 1981, che si intitola Vite a scadenza, si ipotizza che a ogni bambino venga consegnata una capsula in cui è scritto il giorno della nascita, ma anche quello della morte. Cosa succede a un uomo se conosce quando scoccherà la sua ora? Il signor Cinquanta (così chiamato perché è a 50 anni che morirà) si ribella e scopre che le capsule sono vuote: la sua diventa una denuncia alla supina accettazione della morte.
Ed è esattamente quanto ha voluto fare con tutta la sua esistenza e la sua opera Elias Canetti, come conferma Il libro contro la morte uscito postumo nel 2014. Delon ha provato ad imitarlo, ma ha ottenuto l’esatto contrario, se non nel cinema di certo nella vita. Ce lo dicono le sue parole nella lettera scritta a Mary Schneider dopo la tragica morte dell’attrice, nel 1982. Tra l’altro scrive: “Adesso non hai più paura. Non stai più in agguato, non sei più preda di cacciatori. La caccia è finita e tu finalmente riposi”. Finalmente riposa anche lui. E che tristezza vedere i tre figli riconosciuti che si scannano per i suoi soldi. Davvero neanche loro lo hanno mai capito e a capirlo sono stati solo alcuni registi, alcune attrici (Brigitte Bardot per prima) e i 45 cani che lo hanno accompagnato nella vita e che sono seppelliti nel parco della sua villa-rifugio dove anche lui dal 22 scorso è sepolto.
Nel maggio 2019, alla vigilia della consegna della Palma d’Oro d’onore per la sua carriera al Festival di Cannes, Delon aveva rilasciato diverse interviste. In una, già indebolito dalla malattia, aveva espresso il suo grande desiderio di non vedere i suoi figli dilaniarsi in faide familiari: «Faccio di tutto affinché non succeda – aveva spiegato -, non vorrei che i miei figli si facessero la guerra come i figli di Hallyday. Sto preparando tutto, non bisogna farsi prendere di sorpresa. Tutto sarà risolto prima della mia morte, che piaccia o no. Se non lo facessi, si dilanierebbero, fra loro ci sarebbe una guerra, ne sono certo».
Con il peggioramento del suo stato di salute, i suoi timori si sono rivelati fondati. Un mese dopo quell’intervista, l’attore è stato colpito da due ictus, seguiti da un’emorragia cerebrale. Un’operazione, poi un lungo periodo di convalescenza e riabilitazione in Svizzera. Un paio d’anni dopo, un annuncio: il suo ipotetico ritorno sul set. In realtà, si stabilì nel suo rifugio prediletto, la proprietà di Douchy, nel centro della Francia, che aveva acquistato negli anni Settanta con la allora sua compagna, Mireille Darc. Lui mi fa tristezza ma molto di più (accostamenti strani si fanno in estate) la constatazione che perfino in questo Sud di disoccupati e pensionati le gastronomie sono affollate e tutti spendono in piatti pronti zuppi di olio e sale. I miei connazionali non vogliono più cucinare dunque non sanno più cucinare. Inetti che si meritano l’ipertensione e la pizza nel cartone.
Così come hanno delocalizzato l’industria, delegandola all’Asia, gli italiani stanno delocalizzando la preparazione del cibo, delegandola a mercenari, spesso stranieri. Un popolo che non produce più, che non si riproduce più (c’è un nesso), ha cessato la sua storia. E torniamo, prendendola larga, a Delon, al cinema alla fine di un popolo e della sua morale. Mi riferisco a Mr. Klein di Losey con Delon protagonista e produttore. Il cinema di Losey è un cinema innanzitutto mentale, giocato sulla psicologia (spesso distorta) dei protagonisti, un cinema che predilesse di frequente la narrazione di storie d’amore malate e perverse (pensiamo a classici come Eva, L’incidente e Messaggero d’amore), senza disdegnare incursioni nel noir, nel war-movie e addirittura nella fantascienza.
Ma se volessimo cimentarci nella rischiosa e difficile impresa di identificare i film più rappresentativi della sua poetica, dovremmo inserire sicuramente due film: Il servo (1963), con Dirk Bogarde, un sottile e crudele gioco al massacro psicologico fra un servitore e il suo padrone che conduce al ribaltamento dei ruoli, e Mr. Klein (1976), un amarissimo apologo kafkiano ambientato in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale, dove la storia del protagonista immaginario si fonde continuamente con la Storia nella sua accezione più tragica.
Mr. Klein (Monsieur Klein nel titolo originale, essendo una co-produzione italo-francese), prodotto dallo stesso protagonista Alain Delon, fu scritto e sceneggiato da Franco Solinas, uno fra i più importanti autori italiani nell’ambito del cinema politico: lavorò per registi come Francesco Rosi, Valerio Zurlini e soprattutto Gillo Pontecorvo, ma anche Francesco Maselli e Costa-Gavras, e pure per registi più popolari come Sergio Sollima, Damiano Damiani, Sergio Corbucci e Giulio Petroni, firmando gli script dei loro western dove la Rivoluzione Messicana diventava una metafora della lotta politica di quegli anni.
Lui aveva capito e riversato sullo schermo la fine di un mondo, quello che definiamo europeo, privo di valori poiché non crede più a se stesso e con la scusa del pensiero debole è accidioso e corrotto. E nella sua ruvida antipatia Delon non era certo questo. Nessun omaggio nazionale, lo aveva detto lui stesso, quando nel novembre 2018, in un’intervista, gli era stato chiesto esplicitamente se alla sua morte avrebbe voluto un tributo nazionale, una cerimonia pubblica alla presenza delle più alte cariche dello Stato, come era stato per il suo amico Jean-Paul Belmondo, per Johnny Hallyday o Charles Aznavour aveva risposto secco: “No, no, assolutamente no! Assolutamente no!”. Aveva capito che in Europa non esiste più uno stato ed è molto meglio essere un individuo, almeno da morto. Stati che si comportano in modo diverso a seconda di chi vogliono sugli altari o nella polvere.
Promessa del ciclismo italiano, campione azzurro Under23 nel 2010, Stefano Agostini militava nella Liquigas-Cannondale quando nel 2013 risulta positivo al Clostebol la stessa sostanza trovata a Sinner, solo che per lui il ‘trattamento’ del sistema è stato molto diverso. Il ciclista parla della stessa quantità (anche se nel caso di Sinner il Clostebol trovato è stato di 86 picogrammi per millilitro mentre per Agostini si trattava di nanogrammi, quindi la quantità era maggiore) certamente della stessa sostanza (proibita e infatti Sinner ha perso sia il titolo vinto a Indian Wells che il premio in denaro che i punti guadagnati) ma per il ciclista italiano era scattato il ‘gioco al massacro’ con il licenziamento dalla Cannondale e la stampa che lo aveva messo in croce. La Wada gli aveva dato 15 mesi di squalifica e per lui era arrivato il ‘marchio’ di ‘dopato’. A Delon hanno affibbiato quello di sciupa femmine senza cuore e reazionario nazifascista, mentre certi suoi colleghi, di molto peggiori nei fatti e nelle conseguenze (Depardieu), hanno ricevuto tutte le possibili attenuanti. Per non parlare dell’enfasi attorno a certe morti e del silenzio quasi totale su altre (di questi giorni Roberto Herlitzka e Diletta D’Andrea ad esempio).
Le parole che David Edelstein scrisse all’indomani della morte del regista confermano più di tante altre l’irriducibilità di Kubrick a qualunque schema ideologico, etico, politico; mostrano l’incapacità di comprenderlo da parte di chi nutre valori assoluti e con essi giudica il mondo. Per questo vale la pena leggerle: «Non posso non disprezzare Kubrick per aver legato la Nona sinfonia di Beethoven, Singin’ in the Rain e alcune musiche tra le più gloriose di Händel e Purcell al sadomasochismo e alla disumanità dell’uomo sull’uomo». Parole che costituiscono un esempio tra i più chiari di moralismo applicato all’arte. E se si leggono coccodrilli e necrologi diffusi ovunque a dismisura dopo la morte di Delon si percepisce lo stesso diffuso insopportabile moralismo che fa del cinema insieme un sogno e un luogo dominato dagli arconti.
Solo tre anni dopo Le Samourai, Alain Delon e Jean-Pierre Melville toccano l’apice della loro collaborazione con I Senza Nome, altro neo-noir di incantevole fattura, con un cast incredibile che oltre ad Alain Delon, annoverava Gian Maria Volonté e Yves Montand nei panni di tre rapinatori decisi a far fortuna, con un colpo ad una gioielleria di Parigi. Da un punto di vista meramente formale, forse nessun noir europeo è alla pari di questo, minimalista eppure capace di fungere da contenitore definitivo del genere, delle sue regole a livello di semantica, struttura narrativa, identità visiva, arrivando a fungere sia da punto di riferimento per la classicità che per motore del rinnovamento.
Alain Delon è semplicemente perfetto nei panni di questo rapinatore che naturalmente, istintivamente, si lega ad altri suoi simili in nome di quell’amicizia virile, quella ricerca di un senso e anche di una fine, che avevano reso Jean-Pierre Melville un regista unico già a quel tempo. I Senza Nome è quindi giocoforza l’opera testamento del grande regista francese, quella dove lui ci dona una visione del mondo, del cinema, della vita fatta di nichilismo, solitudine, della lotta senza quartiere per cercare una liberazione dell’anima che non avverrà mai, non nella forma canonica. Anche per questo è impossibile non farsi stregare da questo film, da questi tre personaggi, al di là di ogni codice morale e di ogni appartenenza al cosiddetto mondo civile.
A volte anche gli arconti sono costretti a far circolare idee vere. Tanto tutti penseranno che è solo cinema. Così come pensano che una tromba marina non vista sui radar e che lascia intatta ogni altra imbarcazione, faccia affondare in 60 secondi e nel porto di Palermo uno yacht di 56 metri costruito per solcare gli oceani come, 5 mesi fa, aveva fatto affondare, sul placido lago di Como una barca con 22 agenti segreti italiani e del Mossad a bordo. Questo sì che è cinema.
“Sabato 8 giugno, intorno alle 3.00 di notte, un incendio nel cellario B 4 del CSC Cineteca Nazionale ha distrutto la quasi totalità delle pellicole in nitrato che vi erano conservate”. Questa notizia l’ha letta forse solo Superman. Perché sul sito del Centro Sperimentale, dove è stata pubblicata il 12 giugno, è rimasta solo mezz’ora. Puff svanita come cenere al vento… In una interrogazione chiedo semplicemente di sapere: quali titoli sono bruciati, e di ogni titolo cosa è rimasto? Ma soprattutto voglio capire perché non ne hanno dato notizia e perché il Ministro ha taciuto pur sapendo tutto”.
La denuncia del deputato di Avs Marco Grimaldi che ha presentato un’interrogazione parlamentare. La fondazione di via Tuscolana a Roma dal 2023 è presieduta da Sergio Castellitto. Non si sa quante e quali siano le pellicole andate distrutte, né che cosa abbia provocato l’incendio. Dal canto suo, il CSC fa sapere che l’incendio avrebbe in realtà danneggiato solo «una parte esigua delle pellicole, per le quali esisteva già una prima copia di protezione. Allo stato attuale non è stato ancora concluso il censimento completo delle opere che sono andate distrutte». Intanto, le cause dell’incendio rimangono incerte e sono oggetto di un’inchiesta. Il presidente della fondazione, l’attore e regista Sergio Castellitto, fa sapere la CSC, aveva già sollevato preoccupazioni circa la sicurezza dei locali di conservazione, una questione che il Centro ha promesso di affrontare con l’aiuto del ministero della Cultura, esplorando la possibilità di strutture più adeguate per la preservazione e il restauro del patrimonio filmico. Una fonte vicina alla Cineteca ha rivelato che l’indagine sta tentando di appurare se le cause dell’incendio siano dolose o meno e se le pellicole danneggiate siano quelle originali, e non come si ritiene invece «copie di copie». Sono un complottista se invece penso che si siano bruciati film scomodi o troppo veritieri?
A voi “l’ardua sentenza”.