Aldo Moro, uomo prima che statista
Un politico con grande senso delle istituzioni ma convinto che la persona venga prima di tutto, anche dello Stato: questo il ritratto che è stato fatto di Aldo Moro nel corso dell’incontro con sua figlia Agnese organizzato il 13 novembre 2015 a Cagliari.
Il 13 novembre 2015 il Rotaract Club Cagliari Golfo degli Angeli, in collaborazione con Progetto Studenti, ha organizzato un incontro nel capoluogo sardo per ricordare Aldo Moro come politico ma anche come professore universitario e come uomo.
IL PROFESSOR ALDO MORO – Il Moro-professore è stato raccontato dal dott. Antonio Secchi, che da studente seguì uno dei suoi corsi alla Sapienza di Roma. Il contesto storico è il ’68 di cui, ha rimarcato il relatore, oggi si ricorda sopratutto la deriva violenta ma che «resta un passaggio epocale a livello internazionale».
Con lo stesso stupore provato a suo tempo da lui, anche il pubblico ha appreso che, nonostante all’epoca fosse già molto impegnato nell’attività politica, a differenza dei tanti “baroni universitari” concedeva «spazi di incontro agli studenti», fermandosi a chiacchierare con loro al termine delle lezioni e mostrando particolare attenzione per quelli fuori sede e per i loro disagi. Non solo: di ciascuno studente annotava i nomi a inizio corso e, nelle successive lezioni, ne registrava la presenza, senza bisogno di chiedere conferma all’interessato per associare i nomi ai volti. Significative, inoltre, le sue “Confessioni di un professore universitario”, citate dal suo allievo, in cui, rivolgendosi allo Studente, mostra un’inaspettata comprensione dei problemi e dei disagi delle matricole al loro primo approccio con l’Università. In queste righe, in particolare, Moro auspica «un’Università all’insegna dell’amicizia e del dialogo» in cui il professore si ponga come «sacerdote della Verità, al servizio degli studenti». E il suo rapporto con questi ultimi – in alcuni casi, come con Secchi, proseguito dopo la fine dei corsi – dimostra che veramente non svolgeva questo lavoro «per potere, ma per un servizio» e che non mentiva quando affermava «per me vale incontrare persone. Ciò che conta è il rapporto umano».
“LA PERSONA PRIMA DI TUTTO” – Durante l’incontro è emersa anche una “continuità ideologica” tra il suo modo di intendere il ruolo di professore e quello con cui faceva politica: «In politica era sempre la stessa persona, i concetti erano sempre quelli, anche durante la sua prigionia» ha affermato Secchi, con particolare riferimento alla sua idea che «il cardine della vita umana è la persona. Per lui lo Stato viene dopo la persona: è il luogo dove questa va verso il suo arricchimento». Ed è stata proprio questa convinzione a ispirare, nelle lettere scritte durante la prigionia, i suoi appelli ai colleghi democristiani affinché facessero quanto in loro potere per liberarlo: oltre a essere comprensibilmente preoccupato per la propria sorte, infatti, era anche convinto che la sua morte non sarebbe servita a nulla e avrebbe portato conseguenze drammatiche. E il tempo, galantuomo, gli ha presto dato ragione. «Il suo era un pensiero più morale che politico», ha sottolineato Secchi, ricordando che Moro era convinto che «molte cose non vanno in noi stessi».
Sempre lui ha evidenziato pure il legame imprescindibile tra lo statista e il contesto storico di cui è stato parte attiva: «È difficile leggere la storia del Novecento senza conoscere Aldo Moro» perché, dal Secondo dopoguerra in poi, «segna tutti i passaggi importanti della storia del nostro Paese». Ed è proprio lo «straordinario intreccio tra la sua vita e la storia del Paese» che rende difficile redigerne una biografia, la quale, infatti, ancora non esiste ma su cui – ha precisato – stanno lavorando più soggetti.
LA FIDUCIA NEI GIOVANI – Agnese Moro aveva 25 anni quando suo padre morì: troppo pochi per essere almeno teoricamente preparata a dover fare a meno di lui, ma abbastanza per conservarne un ricordo nitido, anche se, ha precisato, «tantissime cose di mio padre le ho scoperte dopo la sua morte». Impegnata a conservarne la memoria con l’Accademia di studi storici a lui intitolata, si è rallegrata di avere di fronte un folto pubblico prevalentemente composto da ragazzi: «Per me è sempre un privilegio parlare ai giovani perché ho molto bisogno di affidare mio padre ad altre persone». Anche perché è convinta che lui «possa ancora dare delle cose positive ai giovani» nei quali «aveva profonda fiducia, invece noi viviamo in un mondo che ai giovani dà pochissimo credito». Già prima di lei, anche il dott. Secchi aveva ricordato che per Moro le nuove generazioni «erano la speranza» e che si augurava si sentissero «protagoniste della democrazia». Non solo: considerava i giovani preziosi anche per se stesso perché, diceva, “mi insegnano il movimento, il senso della vita, e mi impediscono di fossilizzarmi”.
UNO CHE LAVORAVA SEMPRE… – Genuina, ironica e molto umana, Agnese Moro ha subito stabilito un legame empatico con il pubblico, sciogliendo l’atmosfera fino a quel momento piuttosto formale, complici le rigide posture e l’abbigliamento da cerimonia di buona parte dei giovani presenti. Grazie a lei è stato possibile conoscere il lato privato di quello che ha definito «un padre un po’ strano». «In casa c’era pochissimo», ha raccontato confessando che, per questo, lei e i tre fratelli (Maria Fida, Anna e Giovanni) erano un po’ gelosi dei suoi studenti, cui invece dedicava molto tempo. «Se ci penso, la prima immagine che ho di mio padre è di uno che lavora sempre» ha detto rievocando la casa ingombra di fascicoli e giornali, cui il padre si dedicava anche nelle ore notturne. «Mio padre era un secchione, bisogna dirlo» ha aggiunto divertita e divertente: cresciuto in una famiglia di origini modeste, ha spiegato, per lui studiare tanto aveva rappresentato l’unica via per poter arrivare alla laurea e questo spirito di sacrificio se lo portò sempre dietro.
Seppur molto impegnato e fisicamente poco presente, Agnese non lo ricorda comunque umanamente assente, anzi, ha affermato di apprezzare «tanto il suo sforzo di starci vicini anche nella distanza». Tuttora, infatti, ha detto di sentirlo presente, anche per quella sua capacità di «tenere insieme le cose grandi e le cose piccole», evidente persino nelle lettere scritte durante la prigionia: «Ogni conversazione, ovunque fosse, si concludeva con un “Mi raccomando, spegnete il gas”». E questi ricordi, molto personali e toccanti, sono stati anche un’occasione per invitare a riflettere su quanto contino «i piccoli gesti dei genitori, che ti restano anche quando non ci sono più».
… E CHE AMAVA GLI ITALIANI – Anche la sua testimonianza ha evidenziato la coerenza tra il Moro-pubblico e il Moro-privato: come nella prima dimensione era uomo dai toni pacati e sostenitore del dialogo, nella seconda era un padre che non si imponeva ma che, ha raccontato, usava il metodo della “goccia che scava la roccia”: «Aveva questo suo modo gentile, garbato di dire le cose, di non imporle, con i figli e con tutti». E nei litigi tra lei e i fratelli interveniva per invitare l’uno a comprendere le ragioni dell’altro.
Questa coerenza, che si traduce in una tendenziale inscindibilità delle due dimensioni, spiega anche perché per lei vivere con lui «era un po’ estenuante» al punto che, ha affermato, «per noi il momento più bello era quando cadeva un governo di cui faceva parte, perché così per qualche giorno l’avevamo tutto per noi». «C’era una certa sovrapposizione tra vita pubblica e privata», ha spiegato Agnese Moro, aggiungendo che in casa «c’era una sorta di quinto figlio, che erano gli italiani», perché a loro suo padre «pensava sempre, anche nella vita privata». Prova ne sia che persino in spiaggia si recasse sempre vestito di tutto punto perché, diceva, «gli italiani hanno diritto a essere sempre rappresentati degnamente». Ogni commento riferito all’attualità è scontato.
Oltre a un grande senso di responsabilità e decoro, “complice” senz’altro il suo essere cattolico credente e praticante, Moro era peraltro dotato anche di un certo patriottismo: «Mai fatta una vacanza all’estero perché, diceva, “In Italia c’è tutto”».
«Io credo che lui veramente amasse gli italiani» ha affermato sua figlia. Ma loro ricambiavano questo amore? Sicuramente non tutti. L’avv. Rita Dedola – oggi Presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari e all’epoca del rapimento di Moro ancora una studentessa alle prese con l’esame di maturità – ha ricordato che per i giovani come lei quell’evento «è stato un po’ come per voi ragazzi l’11 settembre, perché davvero ha cambiato la Storia, non solo d’Italia ma d’Europa». Però, per gran parte di quei giovani la DC era un “nemico” per cui, quando Moro fu sequestrato, «alcuni giovani inneggiarono e sono poi stati contenti nel vedere il suo cadavere». Moro, però, era una figura discussa anche tra gli adulti. Ne è un esempio il film “Todo modo”, girato da Elio Petri nel 1976 e liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Sciascia: oltre a contenere una chiara allusione alla doppiezza morale della DC, la pellicola assegna al personaggio che inequivocabilmente si rifà a Moro (interpretato da Gian Maria Volonté) un ruolo a dir poco ambiguo. Né con lo statista democristiano fu tenera la stampa, i cui attacchi feroci sono stati ricordati dalla stessa Agnese Moro: pagine che, da bambini, lei e i fratelli potevano leggere solo di nascosto, infrangendo il divieto imposto dalla madre e ricavandone un grande ma confuso turbamento.
UN UOMO COERENTE E CORAGGIOSO – Per chi non ha conosciuto Moro è difficile farsi un’idea chiara di chi fosse quest’uomo senza lasciarsi influenzare dal clima di sfiducia e disillusione nei confronti della politica che si è affermato da Tangentopoli in poi. Molto più facile, invece, pensare che anche lui, nei suoi trent’anni di incarichi di governo, si sia lasciato coinvolgere nelle ruberie e nei giochi di potere che già allora si praticavano sotto la facciata istituzionale. Ma non si può ignorare questa coerenza di atteggiamento e “filosofia” tra la sua vita privata e la sua immagine pubblica. Né si può negare che le sue scelte politiche siano state non solo innovative ma anche «coraggiose e scomode», come le ha definite sua figlia. A partire dall’apertura ai socialisti per cui, ha ricordato, «rischiò la scomunica». Ancora, «nel ’68 passò all’opposizione nel suo partito perché lo rimproverava di non sapersi aprire al cambiamento, a questa istanza di giustizia» e nel 1977, anno in cui la DC subì minacce e attentati alle sedi, «si metterà fisicamente in mezzo alla violenza, per invogliare il partito ad andare avanti». L’apice di questo percorso coraggioso fu, naturalmente, l’apertura al PCI che, all’epoca, per gran parte del mondo cattolico era ancora un’incarnazione dell’Anticristo. Perché questa scelta? Perché all’epoca, ha spiegato ai più giovani, i partiti erano «società, non i gruppetti che conosciamo oggi» e «dire “partito comunista” significava un terzo del Paese», per cui Moro aveva capito che «nessun partito poteva governare da solo, ma ciascuno poteva impedire all’altro di farlo». Sbagliato, quindi, crederlo un cattocomunista, come ha precisato nel suo intervento il dott. Secchi: per Moro «il suo partito era centrale».
UNO CHE CREDEVA IN CIÒ CHE FACEVA – Davanti a questa serie di scelte rischiose, da figlia non ha potuto fare a meno di chiedersi «perché non si è tirato indietro?». Ma, sempre da figlia, ha anche saputo trovare la risposta: «Secondo me, ci sono tre motivi nella sua vita, oltre alla fede (su cui non mi addentro perché su questo lui era molto riservato). Innanzitutto, la fiducia nella Storia e nel fatto che ognuno di noi la può cambiare, facendola andare verso il Bene o verso il disastro». Non solo: Moro «aveva l’idea di un debito da pagare verso quelli della sua generazione morti nei campi di concentramento e in guerra. Sosteneva che “non c’è un merito nell’essere rimasti, ma certamente c’è una responsabilità”». Il secondo motivo è «la fiducia nel Diritto, in quegli articoli della Costituzione in cui c’è una sua fortissima impronta». In particolare, credeva fermamente «nel principio per cui tutti hanno diritto a poter fare la loro strada e a poter fare il loro dovere». Mentre «la terza forza è l’amore per la Giustizia, una delle cose che più fanno parte di lui e del suo modo di vedere la vita. Noi in questa parola mettiamo tutto quanto di buono possiamo sperare per una vita personale e collettiva».
Rispondendo a una domanda del pubblico, Agnese Moro ha poi confermato che nella sua concezione inclusiva della democrazia e nella sua continua ricerca di dialogo con tutti ha avuto un peso la fede: «Lo sguardo sul mondo di mio padre (e altri) è profondamente toccato dalla fede: dove gli altri vedono rovine, lui vede comunque un filo, un andare verso il bene. E questo andare lo ha sostenuto. Quest’occhio positivo è tipico del cristiano, convinto che anche la morte di Gesù sia servita a qualcosa. La sua vita testimonia che credeva che niente può separarci dall’amore di Gesù». Lo attesta anche la lettera che le scrisse prima di morire, in cui la salutò scrivendole “con tanti auguri e tanta speranza”: «non per consolarmi, perché sapeva che non mi avrebbe potuto consolare, ma perché credeva in Qualcosa. Invece, oggi vediamo persone che si professano cattoliche, ma non si dimostrano cristiane». A onor di cronaca, ha però precisato che già allora «si discuteva se la DC fosse un “partito cristiano” o un “partito di cristiani”».
QUESTIONE DI FIDUCIA – A confronto con gli attuali governanti, Moro appare quasi una figura mitologica. Non a caso, un avvocato intervenuto a fine incontro ha affermato che «in quell’anno [nel 1978, ndr] non è morto solo Aldo Moro ma anche un certo modo di fare politica, portando avanti un’idea di Paese con cui confrontarsi. Dopo, non c’è più stata una visione comune, per questo oggi abbiamo un’Italia molto meno stimolante». Rispondendo alla domanda di uno studente, Agnese Moro ha affermato che anche per lei, dopo suo padre, nessuno ha fatto politica con quella sua stessa “ingenuità” e quel suo stesso disinteresse per un tornaconto personale. Con amara ironia ha precisato, però, che «un altro che aveva le sue stesse caratteristiche era Ruffilli [Roberto, ndr]. Poi hanno ammazzato pure lui. Sfiga!».
Chi ha senso etico, tuttavia, a suo parere non deve darsi per sconfitto, anzi: «Se ce l’avete, è vostro. Io credo che in tanti non riusciamo a far valere e far contare nella società queste cose positive che sono dentro di noi. Conservarle è lo sforzo di una vita. E c’è da avere molta fiducia in se stessi. Una delle cose più gravi che ci è stata tolta dopo la morte di mio padre è il fatto di credere che possiamo essere ciò che vogliamo, che possiamo impedire che certe cose accadano. C’è molto da lavorare su noi stessi, occorrono luoghi per parlare e non sentirsi soli. Tante cose non le facciamo perché ci limitiamo da soli. Quindi… perseverare!»
Articolo correlato:
Il “caso Aldo Moro”, uno dei tanti misteri italiani