L’angolo di Full: “Erbacce”
All’epoca, conoscevo una certa Miriam Barone, di professione avvocato, che abitava poco lontano da casa mia. Era una donna ormai matura e con le rughe sul fegato –quelle in superficie se l’era fatte spianare–. Spesso la vedevo intenta ad accudire le proprie aiuole di tagete che agghindavano il minuscolo giardino della sua “villetta a schiera”. Ē questo un eufemismo commerciale che indica un condominio orizzontale dove i terrazzi sono sostituiti da esigui praticelli. Una dimora che costa comunque un capitale per la fortuna di speculatori edili che abitano ardite ville aggrappate alle scogliere marine o sontuosi superattici metropolitani e le cui mogli coltivano pallide rose o carnose orchidee bell’e pronte nei vasi di cristallo delle suite a cinque stelle.
La soluzione “a schiera” è un compromesso fra casa individuale e condominiale che trova la propria fortuna commerciale in quei personaggi che, oppressi dalla snaturata vita cittadina, della campagna temono invece l’isolamento come fonte di solitudine, pericoli e paure. Retaggi che appartengono alle città e che loro si portano addosso.
La dimora “a schiera” li salverà, forse, dal paventato isolamento, ma vi ritroveranno le stesse beghe condominiali che intendevano sfuggire: invece di litigare per l’ascensore o per il riscaldamento centrale, se la prenderanno con chi rumoreggia col tosaerba durante la siesta, o irrora pesticidi, o ammorba l’aria con puzzolenti barbecue.
I crucci agresti dell’avvocato Miriam erano essenzialmente due: i lumaconi che divoravano i suoi fiori durante la notte e un’erba infestante dalla foglia rugosa che le divorava il prato inglese durante il giorno.
Dal terrazzo della mia casetta di campagna, vedevo la donna mentre, carponi, cacciava i lumaconi infilzandoli con uno spiedino da cucina: infilzare un lumacone può essere una crudele cattiveria, si diceva l’avvocato, ma infilzarne cento è diverso: significa bonificare il giardino. Tuttavia, quelli tornavano ogni notte più numerosi perché i lumaconi non hanno nemici naturali… a parte qualche avvocato.
Poi, armata di un curioso attrezzo reperito “in offerta” al consorzio agrario, l’avvocato Miriam estirpava pazientemente l’erbaccia rugosa che invadeva il suo praticello, ignara del pericolo mortale che le procurava questa pratica apparentemente innocua.
Un letale pericolo che nessuno poteva immaginare così come nessuno avrebbe saputo spiegarle il mistero di quella strana erbacea che infestava soltanto il suo giardino e non quello dei vicini dove, è noto, l’erba è sempre più verde.
Ebbene, senza affrettarsi troppo, era passato ormai un anno e alcuni manifesti a lutto annunciavano che l’avvocato Miriam Barone era stata “strappata agli affranti parenti” –per quanto vivesse sola e senza affetti–. Un grave malanno l’aveva minata per anni disseminando nel suo ambiente milioni di cellule che, simili a spore, favorivano la crescita di quell’erba rugosa allo scopo di curarla, nell’ambito del complesso equilibrio universale che regola tutte le cose.
Se l’avvocato Miriam avesse mantenuto i suoi atavici istinti, si sarebbe curata alimentandosi con quell’erba perché l’istinto serve appunto da guida in ciò che va oltre la nostra conoscenza. O quanto meno, avrebbe potuto intuirne il meccanismo, se soltanto avesse coltivato il concetto del logos che è il principio metafisico, l’ordine razionale, la ragione causa e sostanza di tutte le cose.
Nel frattempo, addentrandomi nei miei studi di filosofia naturale e di botanica, avevo imparato a riconoscere alcune di queste erbe premonitrici e m’ero impegnato in una sorta di missione peregrinando per le periferie di paese, e quando scoprivo un giardino infestato da una di quelle specie, mi presentavo al citofono spiegando pericolo e rimedio. Per rendermi più credibile m’ero fatto crescere una lunga barba, bianca come la palandrana che indossavo. In genere, mi allungavano un euro purché mi togliessi dalle scatole.
Ultimamente ho dovuto rinunciare alla mia missione perché, nelle famiglie da me visitate, si verificavano puntualmente i lutti che avevo loro paventato. Così sono cominciate le minacce, le denunce e persino le percosse. Ho già subìto un processo ed ora sono rinchiuso in una casa di cura per psicolabili.
In questo giardino crescono rigogliose tutte le erbacee che avevo catalogato. Infatti, ogni poche settimane muore un ricoverato.
Da qualche giorno ho individuato un’erba nuova e ammaliante. Credo stia germogliando per me, nutrita dalla pena che mi dilania il cuore.
E’ un’erba molto tossica ed è venuta a liberarmi.
Fulvio Musso
Vivissimi complimenti all’autore.
Ben scritto, il racconto parte da descrizioni e luoghi comuni condivisi da molti di noi, poveri illusi, che crediamo sia un affare pagare un mutuo salatissimo e infinito, per possedere una casetta a schiera ben lungi da essere esente da problemi di vicinato et simili.
“Erbacce” è, dal canto mio, un esempio di come si debba scrivere un racconto breve, con intelligenza e leggerezza.
Ancora complimenti signor Musso.
Gg – poco più di niente -.
Di erbacce da estirpare in giro ce ne sono a iosa… ma non ci sono giardinieri abbastanza esperti per poterlo fare!
Ironia di primo mattino… la mia… occhio fermo e pensiero lucido!
Anche in questo racconto Full dimostra la sua innata capacità di scrittore, meravigliando chi legge con una chiusa che lascia con l e spalle al muro e la gola senza respiro per quell’erba “molto tossica” che ala fine grida sempre il “libero tutti”.
Un caro saluto, Full, e a presto.
Un caro saluto anche a te ,Gigi, anche per la puntualità del tuo commento.
Serenità.
ciao, Luica
Un abbraccio caloroso a te, Lucia e una energica stretta di mano al Sig. Musso.
Enjoy.
Gg – poco più di niente -.
🙂 😉 🙂