L’angolo di Full: “Federico Barbarossa”

Federico Barbarossa

 Arrivava la notte e avevo preso l’abitudine di aspettare il sonno seduto dietro la vetrata della veranda, lo sguardo perduto nella profondità della vallata che dormiva placida con la luna accesa.

Dalla saletta giungeva smorzato il chiacchiericcio del televisore… il Barbarossa, parlavano di Federico Barbarossa…

E dopo tanti anni, invitata dalla memoria, tornava furtiva un’ospite silenziosa, lontana compagna dei miei anni infantili. Mi era facile riconoscerla, per quanto tempo fosse passato: era cambiata così poco, la tristezza.

   Allora ero un bambino quasi biondo, un po’ gracile e ogni sera m’addormentavo tenendomi una mano con altra, immaginando quella della mamma.

Questo sino a undici anni. Poi, un giorno, una mia compagna di scuola che frequentava una classe più avanti ed era guardata con molta considerazione perché portava due dita di tacco e un’ombra di rossetto sulle labbra, mi si rivolse per la prima volta con queste esatte parole:

«Mi reggi la cartella che mi si è slacciato un polsino?»

Era uno di quei fatti che segnano le svolte della vita e da quel preciso giorno, o meglio, dalla notte successiva, la “mano della mamma” si rimpicciolì per divenire la manina di Marinella, e ogni volta che la incontravo credevo di scorgere un dolce segreto sospeso fra i nostri sguardi, per quanto lei mi guardasse solo per scansarmi.

   Melissa era la maggiore delle mie sorelle, una brava ragazza che sentiva molto la responsabilità di primogenita, anche per l’autorità che questa posizione le conferiva dopo la perdita dei genitori. Un’autorità che esercitava quasi esclusivamente con me che avevo il torto di essere il più piccolo e l’unico maschio, sempre vantato dal nostro papà bello e biondo come il sole che, negli anni precedenti il naufragio, sorgeva ogni quanto dalle plance delle navi come un dio dal mare, e di quel tempo avaro che trascorreva a casa, ne dedicava gran parte al figlio maschio, cioè a me che avrei dovuto proseguire le rotte marinare tracciate in quel suo nome di grande navigatore: Amerigo.

   Melissa aspettava di avere una buona platea per mostrare il piglio col quale sapeva esercitare le proprie facoltà e soleva aggredirmi mentre giocavo coi nostri cuginetti:

«Sono le quattro del pomeriggio e non hai ancora aperto la cartella. E’ possibile che ogni giorno io debba stare attenta ai tuoi compiti?»

«Ma anche loro non li hanno ancora fatti» replicavo senza distogliere gli occhi dal gioco.

«Certo, ma loro non sono degli animali come te! Loro sono promossi a giugno: non vanno a ottobre!»

«Io avevo già studiato prima che loro arrivassero.»

«Bugiardo! S’è vero che hai studiato dimmi chi fu l’imperatore che rase al suolo Milano nel “1162”.»

Non volendo riconoscere a mia sorella l’autorità di cui s’approfittava, io tacevo ostinato, impuntandomi.

«Un bel somaro sei! Come al solito non sai la lezione. Allora, invece di fare chiasso con i cugini, andrai subito in cucina a studiare. E visto che hai una bugia per ogni giorno della settimana, tutte le tue figurine sono requisite per un mese. Per un mese! Lo capisci?»

Lo capivano tutti e un silenzio costernato gravava sui visetti dei cugini.

In un mese molte figurine avrebbero perso la loro attualità e, con questa, ogni possibilità di baratto, di negozio. Era una catastrofe troppo grande per me che, inghiottendo saliva sin quasi a strozzarmi, m’arrendevo e sputavo il rospo, cioè l’imperatore:

«Federico Barbarossa».

   Mentre si chiudeva il cerchio del ricordo, il sonno cominciava a bussare perché, con gli anni, questo amico dalla macabra parentela s’era fatto più puntuale, ma anche più scontroso: era capace di andarsene dopo poche ore per ricomparire brevemente di primo mattino, giusto per il caffè.

Così approfittavo di quel quieto bussare, spegnevo tutte le luci e mi lasciavo accompagnare a letto dalla badante luna.

Fulvio Musso 


Racconto liberamente tratto dal romanzo di Full “Il galletto amburghese”  

 

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