“Anime da un villaggio scomparso”: memoria ed emozione in scena a Sanluri

attori in scena con cappotti scuri e ombrelli aperti

Il villaggio di Sitzamus, che lo storico e poeta Francesco Sonis ha riscattato dall’oblio, torna ancora una volta a vivere nello spettacolo “Anime da un villaggio scomparso” della compagnia teatrale Abaco. Un’opera che fa di Sitzamus il simbolo di ogni comunità assassinata dall’ottusa avidità dell’uomo, complice una Natura più matrigna che madre. 

attori in scena con cappotti scuri e ombrelli apertidi Marcella Onnis

Avantieri, 1° novembre 2015, la compagnia teatrale Abaco ha portato in scena al Teatro di Sanluri, nell’ambito della stagione Zefiro, lo spettacolo “Anime da un villaggio scomparso”, diretto da Rosalba Piras e Tiziano Polese. La scelta della data non è casuale: nella cultura della Sardegna, quella tra il 31 ottobre e il 1° novembre non è la notte di Halloween ma de Is Animeddas (o is Panixeddas o su Prugadòriu o altro nome secondo le zone dell’Isola), ricorrenza in cui si ricordano le anime (is animas) del Purgatorio (Prugadòriu). Nella religiosità ibrida che caratterizza la cultura sarda, questo rituale pagano (ben descritto nelle sue varianti da Claudia Zedda nell’articolo “Is Animeddas – Il Samhain Sardo”) si affianca ai riti cristiani di Ognissanti e della Commemorazione dei defunti e continua a essere celebrato in diverse parti della Sardegna. L’Halloween di importazione, pur più attraente nella sua “tenebrosa” e consumistica veste, non è, infatti, riuscito a scalzarlo ovunque. Segno che, in quest’Isola, il timore reverenziale per la morte e il rispetto per i defunti sono ancora ben radicati.

SITZAMUS, UN VILLAGGIO SIMBOLO – Abaco teatro ha, quindi, voluto celebrare Is Animeddas a modo suo: portando in scena la pena delle anime di Sitzamus, piccolo villaggio che un tempo sorgeva nei pressi di una palude in Marmilla, fra i territori di Siddi, Ussaramanna e Pauli Arbarei (cioè in un’area vicina anche a Sanluri). Lo spettacolo in questione, “Anime da un villaggio scomparso”, è un adattamento teatrale dell’opera “Memorare, omaggio ai dimenticati” del poeta e storico Francesco Sonis, che a Sitzamus e alla sua memoria ha dedicato studi e scritti. Ai suoi toccanti versi, Abaco ha sapientemente intrecciato altri testi dedicati a persone e comunità scomparse, attinti dalla produzione di Edgard Lee Master (in particolare “La collina”, tratta dalla “Antologia di Spoon River” e nota anche nella versione musicata da Fabrizio De André), Ferdinando Pessoa, Thomas Eliot, Dante Alighieri e Antonin Artaut. E potremmo aggiungere Baudelaire, con il suo “Invito al viaggio” musicato da Franco Battiato.

La vicenda di Sitzamus è un pezzo di storia della Sardegna che Sonis ha riscattato dall’oblio, ma non è certo solo per questo che la compagnia teatrale le ha dedicato tanta attenzione. Il villaggio si estinse per morti e abbandoni alla fine del 1729, sfinito dai pesanti tributi imposti dagli avidi feudatari aragonesi, dalla carestia, dalla fame e – se non bastasse – dalla peste: un epilogo che ne fa un simbolo di ogni vessazione e sopruso. Un’altra storia che, pur circoscritta nel tempo e nello spazio, grazie ad Abaco rivela la sua vocazione universale e la sua eredità morale.

attori in scena LA TRADIZIONE COME ANTIDOTO ALL’ESTINZIONE – E sono tanti i valori universali e locali che quest’opera chiama in causa. La tradizione, innanzitutto, che in Sardegna non è chiaramente costituita dal solo rito de Is Animeddas, ma include un grande patrimonio culturale, agroalimentare e sociale. Di questo patrimonio lo spettacolo richiama svariati elementi: il lavoro nel villaggio e nei campi, la caccia, la lavatura collettiva dei panni, i balli, i canti… Tutelare questa eredità, perpetuandola fedelmente o innovandola senza snaturarla, è forse l’unico modo per scongiurare l’estinzione o, almeno, per  compensarne in parte le perdite.
Tutti quanti aspiriamo a esser ricordati anche dopo morti, ma non dobbiamo scordare che la memoria è un dovere prima ancora che un’aspirazione: se vogliamo continuare a vivere un domani nel ricordo di chi ci sopravvivrà, dobbiamo oggi essere noi i primi a ricordare chi e cosa ci hanno preceduti, anche se personalmente non li abbiamo conosciuti.
È per queste ragioni che anche scrittori e intellettuali come Marcello Fois e Giulio Angioni si impegnano in prima persona per preservare la memoria e l’abitudine a raccontare sé e il proprio mondo. E lo stesso intento ha mosso Francesco Sonis che, con le sue ricerche e con l’opera “Memorare, omaggio ai dimenticati”, ha restituito alla comunità di Sitzamus almeno il ricordo di sé, come giustamente evidenziato durante la presentazione dello spettacolo.
Con esso Abaco teatro prosegue il percorso di recupero della memoria avviato da Sonis (presente in sala, ma rimasto “in incognito”) e va oltre, invitandoci non solo a seguire il loro esempio ma anche a impedire altre scomparse, altre estinzioni. Certo, non è un compito semplice, ma arrendersi senza combattere non è ammissibile.
Il problema dello spopolamento in Sardegna, soprattutto in zone come il Medio Campidano, caratterizzate da centri urbani di ridotte dimensioni e da un contesto economico non certo florido, è molto sentito e desta forte preoccupazione. Anche per questo in tanti abbiamo accolto il richiamo delle anime di Sitzamus, riempiendo il bel teatro di Sanluri. La popolazione invecchia e i pochi giovani emigrano o, nella migliore delle ipotesi, si trasferiscono in centri di più grosse dimensioni, dove almeno teoricamente le opportunità lavorative sono maggiori. Sitzamus aveva 700 anime ed è scomparso in breve tempo; paesi come Ussaramanna sono già scesi al di sotto dei 600 abitanti: non possiamo lasciare che diventino borghi fantasma in cui un domani aggirarci a caccia di ricordi, tentando di riesumare volti, luoghi, mestieri, riti, canti e altre tradizioni che già oggi si stanno lentamente perdendo.

attori con costumi di scena durante uno spettacoloLA SOLIDARIETÀ COME ANTIDOTO ALL’AVIDITÀ – Un altro valore di cui questo spettacolo si fa portatore è la solidarietà, l’atto di identificarsi nell’altro e di farsi carico della sua pena. Diventa chiaro nel momento in cui la piccola folla di anime vaganti, spalle al pubblico, si dirige verso il mare, proiettato su uno schermo ma reso reale dal suo rumore inconfondibile. Quelle sagome non sono più solo le anime di Sitzamus, ma sono tutte le genti affamate che migrano in cerca di terre fertili, tutte quelle spaventate che fuggono verso terre in cui la guerra non fa parte del quotidiano e tutte quelle disperate che cercano terre dove un lavoro possa loro garantire un’esistenza dignitosa. Sono la rappresentazione di un dramma che instancabilmente da millenni si ripete con poche significative variazioni. E, a ben pensarci, sono l’immagine di tutta l’Umanità, dalla Notte dei tempi sino ad oggi, ché in questa vita siamo tutti di passaggio, siamo tutti nomadi, migranti, ignari della meta. “Alberi erranti e naufraghi”, direbbe Alberto Capitta.
Ma di tutto questo non sempre ci ricordiamo, non sempre sappiamo sentire come nostra la fame, la disperazione e la paura dell’altro, soprattutto se, quelle vere, non le abbiamo mai provate. Quanti di noi hanno effettivamente mai visto un uomo così affamato da morire «con la bocca impastata di erbe e spine»? Non possiamo, tuttavia, far finta di non sapere e di non vedere, dobbiamo lasciarci toccare da ciò che ci accade intorno, così come, durante lo spettacolo, abbiamo saputo fare davanti a quelle mani che mimavano il gesto di scavare la terra arida in cerca di cibo e davanti a quelle bocche che, deluse, esclamavano “Pietre! Pietre! Pietre!”.

L’uomo non sfrutti la Terra; l’uomo non sfrutti l’uomo: sono due comandamenti semplici da imparare e ricordare. Eppure ci ostiniamo a ignorarli, più o meno deliberatamente. Sfruttati siamo spesso ingenui, sfruttatori siamo sempre poco lungimiranti. In Sitzamus e nella sua comunità è facile vedere un’allegoria della Sardegna – granaio di Roma e di ogni dominatore che ne ha preso il posto – e dei sardi – carne da macello per giochi di potere spesso disputati oltremare. Ma sono, in realtà, allegoria di ogni popolo e ogni terra vessati dall’avidità umana e dalla Natura che, sfidata dalla prima, da madre diventa matrigna.

LA DONNA, CUSTODE DELLA VITA – Lo spettacolo e il cortometraggio di Giovanni Coda realizzato nei luoghi in cui sorgeva Sitzamus, sempre prodotto da Abaco e “inglobato” nella rappresentazione teatrale sono incentrati sull’alternanza di vita e morte, tutt’altro che netta e unidirezionale. Non stupisce, quindi, che a dominare, quantitativamente e qualitativamente, sia la figura femminile: è la donna a donare la vita e, spesso, anche ad assisterla mentre si spegne. Nella tradizione sarda era, inoltre, una donna, s’Accabadora, a dispensare la “buona morte”, molto tempo prima che l’eutanasia diventasse un problema da risolvere. Sono le donne a perpetuare la vita e spesso – in attesa di esalare l’ultimo respiro, talvolta una liberazione dalla pena di essere sopravvissute a figli e mariti – anche il ricordo dei propri cari, come di intere comunità.

anziana con un velo nero prega tenendo un rosario tra le mani giunteIL VERO VOLTO DEL DOLORE – È arduo raccontare con ordine e lucidità uno spettacolo intessuto più di emozione che di ragione. Soprattutto perché quest’emozione è fatta prevalentemente di dolore, un misto di rabbia, disperazione e ostinazione presentato nella sua forma più pura e nobile. Niente a che vedere con l’ostentazione del dramma cui ci ha abituati la tv strappalacrime.
Nel cortometraggio di Giovanni Coda, suggestivo e intenso, due immagini rappresentano perfettamente il Dolore. Una propone un’anziana donna (Emerenziana Lechis di Sitzamus, intepretata da Lorena Piccapietra) con il capo coperto dal velo nero del lutto: stringe tra le mani un rosario, anche’esso nero, e scava tra le macerie in cerca di ricordi della sua vecchia vita. Ostinate le dita frugano dentro un contenitore di legno in cerca dei suoi ori-ricordo, tirandone fuori, però, solo insensibile terra scura.
L’altra mostra tre giovani donne, violentemente scosse dal vento di maestrale come le canne raccontate da Grazia Deledda e come queste decise a non cedere alla sorte avversa. Toccante, quasi devastante, la visione dei tre corpi intrecciati a comporre una nuova iconografia di pietà e dei tre volti scomposti dalla disperazione e dall’incredulità.

IL VERO VOLTO DELLA VITA – Nella vita, però, non c’è solo dolore, per questo lo spettacolo inframmezza scene di vita quotidiana cariche di vitalità alla rievocazione del dramma (o, meglio, dei drammi più o meno dimenticati che nella Storia da sempre si susseguono e, purtroppo, sempre si susseguiranno). Il palco si anima in questi momenti di voci, risate, balli e canti di falegnami e fabbri, contadini, lavandaie, gitane e bambine. Ma niente illusioni: basta poco per passare dall’euforia allo sconforto, talvolta alla disperazione vera e propria. Significativo il momento in cui le comari, intente a lavar lenzuola, ricordano l’ultimo superstite di Sitzamus, Nanni Congia: il clima giocoso e sognante creato dalla rievocazione dei ricordi, anche canzonanti («Odorava sempre di cipolla», «Neanche la peste l’ha voluto!»), si spegne in fretta come un cerino al pensiero di quel Nero che, inesorabile, ha avvolto Nanni e il suo villaggio. Quel Nero che, loro sanno, un giorno avvolgerà anche loro.
Un attrice con costume di scenaAltrettanto eloquente è la scena in cui le madri cullano, cantando s’anninnia (la ninna nanna), fagotti che presto si rivelano lenzuola vuote, a simboleggiare i figli strappati alle loro braccia dalla fame, dalla povertà e dalla malattia.
E ambivalente è anche la testimonianza di Antonia (interpretata da Rosalba Piras): luminosamente ispirata quando ricorda i tempi felici (fatti anche di pareti annerite dal fumo ma scaldate d’amore); cupa e rabbiosa quando l’assale il ricordo dei cinque figli morti e del suo uomo, partito per cercare cibo e tornato stecchito dalla fame, stringendo nel pugno fave secche, ultima premura per la sua famiglia.
Prima e dopo la morte, prima e dopo l’estinzione, c’è sempre qualcosa, sembra volerci dire Abaco con questo spettacolo in cui gioia e dolore chiaramente ci appaiono l’una parentesi dell’altra.

Morte e vita, dolore e gioia, corpo e anima: concetti antitetici ma complementari, che trovano un’efficace sintesi nella figura di Sisinnia Atzei (interpretata da Luana Maoddi). Sisinnia è un’orfanella che vaga per le campagne nei pressi di Sitzamus alla vana ricerca di sua madre. Vaga fino a che, anche lei, deve arrendersi alla morte. Il soffio di un angelo (impersonato da Anna Karyna Dyatlyk, già con Rosalba Piras nel film “Bellas Mariposas”), però, le restituisce linfa vitale così che lei, danzando, può ricongiungersi, anima con anima, a sua madre.

IL DONO DELLE ANIME – Recitazione, danza, movimenti, luci, musiche, suoni, costumi… Ogni elemento ha un ruolo fondamentale nel confezionare il messaggio da trasmettere al pubblico e nel veicolarlo attraverso l’emozione. Impeccabili in questo sono stati i registi-attori Tiziano Polese (che sul palco declama gran parte dei testi e interpreta il Conte Ugolino cantato da Dante, proprietario del Castello di Acquafredda a Siliqua) e Rosalba Piras, ma perfettamente all’altezza del compito anche Luana Maoddi, Anna Karyna Dyatlyk, Laura Ortu (nei panni di Rosa Atzeni ed Eugenia Locci) e gli altri attori, allievi della Abaco Art Academy: Camilla Scameroni, Claudia Mareddu, Cristina Piras, Emanuele Stochino, Erika Marras, Federica Pili, Giovanna Piselli, Maurizio Angius (nei panni del Padrone, anche lui caduto vittima dalla sua stessa avidità), Riccardo Mameli (che interpreta il figlio del Padrone) e Stefania Murru.
cast di uno spettacolo teatraleDismettendo se stessi, hanno saputo essere anime desiderose di raccontare la loro storia e la loro pena. Anime che ci hanno chiesto ascolto con intensità crescente e che, per esser certe che partecipassimo al loro dolore, hanno mandato l’angelo Sisinnia a danzare dolente tra noi sulle note di una cover di “Hallelujah” di Leonard Cohen.

Non siamo rimasti insensibili alla loro richiesta di ascolto, non abbiamo rifiutato di farci toccare da questo dolore. Prova ne sia l’applauso esploso sul finale, che ha accompagnato queste anime mentre lasciavano la sala in processione ordinata, nello stesso modo in cui vi erano entrate. Un applauso che si è rianimato più volte e che ha risuonato chiaramente come un “Bravi”, ma soprattutto come un sentito “Grazie”.

Calato il sipario, ci è rimasta una grande emozione, dolorosa sì ma da custodire gelosamente e da mettere a frutto. E ci è rimasto anche un pensiero, consegnato da una delle anime a fine spettacolo, inciso in una striscia di carta accuratamente ripiegata: «Niente si sa, tutto si immagina. Così presto passa tutto quel che passa

 

 

I fotogrammi del cortometraggio sono di proprietà di Abaco

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