Apprensione e desiderio del paziente
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Non è raro imbattersi nella convinzione (ormai forse di tutti) che taluni progressi della medicina e della chirurgia vengono qualificati come “miracoli”. La scoperta del vaccino antivaioloso di Edward Jenner (1749-1823) o quella del vaccino contro la poliomielite di Albert B. Sabin (1906-1993) ci sembravano ieri, e ancora oggi, qualcosa di più di miracoli metaforici, e le tecniche di trapianto d’organi sono una ulteriore conferma per avvicinarsi a quel misterioso potere divino di cui fa riferimento la Bibbia in merito alla creazione della donna… e dell’uomo. Ma vi sono altri progressi della scienza medica che ci inducono a classificarli come miracoli, visti i risultati sia in fatto di diagnosi che di terapia di alcune malattie, anche rare. Tutto questo si riconduce alla maestosità della mente umana e alla sua lungimiranza, nella fattispecie dell’uomo-medico (clinico e ricercatore) che ha fatto propria la sua scelta per soccorrere i suoi simili. Ma bastano la capacità tecnica, l’intuito e l’esperienza a “soddisfare” le esigenze del paziente? Di primo acchito verrebbe da dire di sì, ma in realtà il paziente, specie se il suo stato di salute si protrae e presenta incertezze nel suo decorso, in alcuni casi non è pienamente appagato perché ancora persiste quel recondito ed invocato desiderio di essere visitato periodicamente non solo dai medici di turno, ma anche da quella apicale figura che ancora oggi identifichiamo come primario (direttore di Struttura Complessa e/o capo Dipartimento), talvolta il suo primo interlocutore che ha fatto la diagnosi ma che poi si allontana per confinare nel suo studio, nella clinica privata od in altri ambiti dell’ospedale. Ecco che, in questi casi, il paziente lamenta una assenza di un più “confortevole” riferimento come se rappresentasse la massima garanzia di una possibile guarigione o della stabilità della patologia in corso. Ma è proprio un diritto esigere l’attenzione, sia pur a cadenza periodica, di quello che si crede essere un luminare e al tempo stesso considerare di “secondo piano” i suoi collaboratori di corsia o di ambulatorio? È certamente un bel quesito la cui risposta implica una considerazione di fondo: il medico non può non considerare il suo paziente nella sua interezza psiche/soma e quindi non rendersi conto della complessità psicologica di tale relazione. Le esigenze del malato, termine a mio avviso assai più affine per questo contesto, quasi sempre vanno oltre la diagnosi e la terapia poiché la considerazione in toto anche da parte della figura “principe” rappresenta per lui una sorta di completamento per il suo benessere dato da una maggior voglia di lottare contro la malattia, anche se l’esito pare scontato… Questo desiderio di essere visitato di tanto in tanto anche da colui che si è dimostrato essere il “miglior” punto di riferimento, dovrebbe essere quindi soppesato dimostrando più comprensione, ma ancora prima immedesimazione e soprattutto disponibilità poiché il dolore e l’incertezza svestono l’uomo, lo rende trasparente. E ben si sa che quando si parla di medico ideale il traguardo è irraggiungibile, ma il tendervi è l’unico modo consentito all’uomo di raggiungerlo almeno in parte. Ritengo quindi che la figura del clinico “in auge” possa essere visto come il “dottore disponibile”, ovvero disposto a comprendere il paziente nella sua interezza, non solo conoscendo la sua macchina corporea, il suo organismo fisico, ma anche condividendo i suoi problemi con sguardo e riguardo per la sua persona, senza nulla togliere al ruolo dei suoi colleghi di équipe. E quando il malato potrà dire: «mi sta seguendo anche il primario», quasi certamente la compliance è assicurata!
(Il termine compliance usato in ambito medico, significa la collaborazione prestata dal paziente nel seguire le istruzioni del medico).