Appunti di viaggio: La Tanzania cammina con i piedi delle donne- 2° parte

 

08/08/2011– Conosco poco di  Dar Es Salaam. Capitale del paese fino agli anni settanta, sta gradualmente passando le competenze amministrative alla reale capitale che è Dodoma. È caotica e polverosa oltre ogni dire. E il traffico urbano ed extraurbano, inimmaginabile in un paese che si ritiene depresso, impazza senza regole e, normalmente, al limite dall’azzardo. Si respira un’atmosfera decisamente coloniale. I forti contrasti tra aree europee ed africane sono azzerati dalla uniforme, caotica, colorata vita cittadina che si riversa su bordi delle strade tra la soverchiante fila di case basse, negozietti, farmacie, mostre culturali che si insinuano ovunque sino a perdersi nelle periferie indefinite, affollate, fatiscenti ed insalubri. E sulla strada, tra odori indistinti che pervadono ogni cosa, la vita dà spettacolo di se stessa ed è continuamente alimentata e rimescolata dai daladala sovraffollati e vocianti. È qui che si commercia, si lavora al proprio vivaio, si posteggia il taxi, si pernotta, si traversa con il proprio carico di legna o di acqua sulla testa fino alla periferia oscura e lontana. Un brulichio incessante di vita che fa fronte  come può a redditi irrisori e all’altissima disoccupazione in un paese che pure vanta un consistente livello di alfabetizzazione. Lungo il porto giganteggia la snella architettura della cattedrale St. Joseph risalente agli inizi del  novecento e, poco distante, una palazzina bianca, già harem del sultano Majid e donata ai Padri Bianchi, è rimasta nella storia perché luogo di accoglienza degli schiavi che i missionari riuscivano a riscattare e, mi dicono, senza tentare di convertirli.  Il mercato del pesce è un mondo a parte. Frenetico e super affollato da pescatori che scaricano il pescato, viaggiatori che transitano per il ferry, commercianti con il proprio carico di merce, gente in movimento continuo tra ristorantini, banchi di pesce o di frutta. Colorato e ricco l’intrigante mercato delle conchiglie attorniato da ripulitori chini su secchi a lustrare quelle arrivate. Stupisce ed incuriosisce la varietà di forma e di sfumature di questi micromondi  approdati dal sommerso. Si è quasi riverenti come di fronte a una biblioteca custode di un passato evolutivo che ora si svela allo sguardo ed interroga il cuore (a che prezzo per l’ambiente?).  Nell’aria densa l’odore caldo e pungente del pesce appena pescato e fritto ti apre ad uno spettacolo da girone dantesco: fila di calderoni adagiati su fuochi roventi e friggitori sporchi, scalzi ed accaldati che si aggirano, contattano, pattuiscono e poi riversano su banconi  mattonati il pesce già pronto per la delizia di affamati e stranieri curiosi. Certo la pulizia e l’igiene, qui, rimangono aleatoria opinione ma la vita, si avverte, rimane misteriosamente e corposamente sapida, umana, gioiosa. E poi vuoi mettere. Poco lontano oltre il recinto bianco c’è la casa del presidente e lui stesso, mi dicono, non disdegna di avere all’interno, tra i locali di rappresentanza, la sua personale mandria di mucche africane. Oltre al fatto che solo un muro lo separa dal più vociante, colorato, rovente e paradigmatico squarcio realistico del suo paese.

10/08/2011                                                                                                              

 Circa nove ore di viaggio in pullman verso la regione di Iringa; 500 Km, cinquanta dei quali attraverso il parco nazionale del Mikumi.   Ad ogni stazione di sosta gli autobus vengono letteralmente accerchiati dalla marea umana che attraverso i finestrini vende acqua, frutta, caramelle, frittelle e prodotti di artigianato. Mi è impossibile non fare una delusa comparazione tra il parco che ho visto nel 2008, (oltre a quello del 1988) e tra ciò che mi scorre ora sotto lo sguardo: vegetazione ridotta, animali pressoché assenti, terreno bruciato in tutta la parte prospiciente la strada (dicono per non far avvicinare gli animali). La sensazione forte è quella di elevata criticità ambientale. In un luogo di sosta per i bisogni fisiologici, l’autobus è assediato da rivenditori di spiedini di carne e ciò che intravedo di quanto rimane tra la marea indaffarata non mi pare animale d’allevamento. Al di fuori del parco e lungo tutta la strada si osserva un aumento considerevole di case e villaggi. Quello che scorre intorno a me è lo specchio del paese. Del paese rurale preponderante come del paese che vuole apparire urbano. Ciò che si ripete a macchia d’olio è un modulo civile-abitativo conflittuale in cui coesistono tradizioni agricole immodificate, bisogni esternamente indotti al limite dell’incompatibilità e crescita demografica elevata rispetto all’offerta di infrastrutture e servizi. Accanto alla casa tradizionale fatta di fango argilloso (ora più sovente soppiantata da quella in mattoni e cemento ricoperte di ondulati di alluminio) sono indispensabili: il campo per la coltivazione del mais (alimento base),  la buca sulla quale sono costruiti i servizi igienici e lo scavo per buttare (e bruciare) l’immondizia (anche la plastica e tutto ciò che noi faremmo oggetto di differenziata). Un modulo abitativo estremamente precario condizionato dall’assenza di acqua ed energia e dalla criticità dei servizi di igiene pubblica e della viabilità. Intuibili i risvolti igienico-sanitari ed ambientali. Le alternative? Se si è fortunati si può andare ad attingere acqua al pozzo del villaggio, diversamente si deve andare lontano (spesso molto lontano) verso un fiume o, più spesso, verso pozzetti scavati a mano lungo gli alvei asciutti dei torrenti. Qui, sulla scia di un rito millenario, la donna si acquatta con il suo secchio in fondo alla buca e, con ripetuti gesti pazienti della mano, travasa con una scodella il prezioso liquido dalla polla al secchio fino a riempirlo. Poi si alza. Sistema il secchio sulla testa tra spruzzi fuggitivi e ritorna a casa, magari con un bambino sulle spalle ed uno che le caracolla gioiosamente a fianco. Stessa cosa per reperire la legna per l’ugali (polenta). Ma qualcosa è cambiato. Ho notato, in questo ultimo viaggio, che le donne iniziano, ora, a farsi aiutare dagli asinelli in questi quotidiani pellegrinaggi per acqua e legna cosa che, fino al recente passato, appariva prerogativa delle donne Masai.  Meravigliose donne tanzaniane. Riescono ad essere teneramente schive come gazzelle e dure come la pietra. Sobbarcandosi quasi da sole l’onere delle dure fatiche essenziali all’esistenza, sono e rimangono il vero motore produttivo e sociale del paese. Le ho viste anche lavorare in edilizia sull’asfalto rovente. E sorvolo sui motivi sotterranei di questo aggiuntivo onere lavorativo femminile. La Tanzania cammina lentamente. E cammina con i piedi di queste donne. Esse mi ricordano le tenaci e pazienti donne della mia Basilicata. Donne a me vicine e donne oscure di villaggi sperduti che porto nel cuore come l’eredità più preziosa della mia gente. (Fine/Seconda parte)

Emanuela Verderosa

 

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