Appunti di viaggio: Tanzania, ad Ilula centro di assistenza per bambini con handicap

 

 

11-12-13/08/2011  

 Villaggi di: Ilula, Mlafu, Ifua, Watersoni, Udequa. Abbiamo visto la nuova chiesa in un villaggio: il progresso va avanti. Si è passati da una costruzione in fango ad una di mattoni. All’interno, essenziale e disadorno come si addice ad un gotico africano, i banchi per sedersi sono costituiti da assi sistemati su mattoni. Ma il colore rosso della terra nell’interno basso, esalta un’atmosfera calda ed intima. Hanno l’acqua. Sono fortunati. Sulla via del ritorno frotte di scolari a piedi lungo strade polverose percorrendo distanze per noi inconcepibili. E ad ogni passaggio di macchina o bus è assicurata una generosa incipriata di polvere rossa da cancellare la visuale: come faranno con la penuria d’acqua?  E sembra che non ci facciano caso più di tanto. Verso Il villaggio di destinazione ci stringiamo per far posto ad un malato e ad una mamma con i suoi due bambini.

Ad Ilula un missionario italiano di origini siciliane, ha messo su un qualcosa di unico in Tanzania: un centro di assistenza per bambini portatori di handicap. Qui, ciechi, sordi, albini (la cui vita è minacciata da oscure e persistenti pratiche occulte) oltre ad orfani e disagiati di ogni genere, trovano accoglienza. Ma, anche qui: ciò che vorrebbe essere tensione verso un modello il più largamente accogliente  per la disabilità, si ritrova a fare i conti con i freni ed i  problemi legati alle carenze essenziali: acqua, energia, viabilità e, includerei, affermate competenze professionali nell’assistenza diretta e professionalità specifiche nella gestione e manutenzione delle strutture di accoglienza. Il problema della manutenzione degli edifici è quasi generale alle strutture esistenti nel paese. Il termine maintenance, mi dicono, è assente al vocabolario swahili. Ad ogni modo gli sforzi sono evidenti: c’è il locale per la fisioterapia, le aule, la cucina, la sala per i pasti. È un villaggio nel villaggio. E la vita è la stessa del villaggio. Anche il lavoro di ragazze, (alcune madri dei bambini accolti che, ospitate lì anch’esse, lavorano anche per gli altri piccoli) ripetono i gesti di vita quotidiana: sedute a terra sotto il sole, sgranano il mais. Le stesse guardiane (tutte donne) non sono esenti dalla diretta assistenza agli orfani del centro.

 14/08/2011   

Iringa  In una nuova casa dell’associazione laicale missionaria. Persiste l’odore di vernice ma ho riposato bene.  Il muezzin precede l’alba e nell’edificio accanto, ma è come se stessero in casa nostra, una comunità di una non ben specificata chiesa di Sion,(simile forse ai noti carismatici), per lunghe ore convoglierà ogni attenzione con la sua ossessiva e categorica scansione di formule esorcizzanti ed esortative. La città, salvo alcuni edifici a più piani in costruzione, è ancora la stessa di molti anni fa: una teoria di basse case in mattoni che si inerpicano in ogni dove occupando tutte le sinuosità del colle sovrastante l’immensa pianura fertile ed irrigua che la circonda. Alcune sue propaggini di case sia in mattoni che in fango, si fanno spazio tra massi enormi che ricordano il big bang e, attraverso questi bastioni naturali e solidi, si godono l’immensità della valle sottostante e la corona di monti azzurrini che sonnecchiano nell’orizzonte lontano incipriati di densa afa. Di fronte a me, in tensione verso la parte più alta del bordo massoso, vedo la cattedrale,  e più oltre la casa dei missionari e missionarie della consolata che, pionieri in questo paese, molto hanno fatto e continuano a fare.  Vivace, colorata ed estemporanea, Iringa vive di un buon tenore commerciale, soprattutto grazie all’operosa presenza indiana. C’è un ospedale che sembra funzionare e che, osservo, ancora in via di ampliamenti. Ci sono scuole primarie e secondarie e una università. I viali principali, come un tempo, sono trasfigurati dal tenero e caldo colore viola delle splendide jacarande ancora in fiore.(Fine terza parte)

Emanuela Verderosa

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