L’astensionismo, il vero mesto trionfatore delle elezioni regionali in Sardegna
Francesco Pigliaru è il nuovo Governatore della Sardegna. Scelto da circa un quarto degli elettori sardi (il 42,45% di quel 52,34% che è andato a votare; qui i dati completi sulle elezioni), porta al PD un altro pezzo per la sua collezione di pseudo-vittorie. Certo, di minor pregio rispetto a quella collezionata da Bersani alle ultime Politiche o da Renzi, incaricato di governare senza essere stato scelto dagli elettori come un D’Alema qualunque (pagherei per sapere a quale dei due questo paragone dia più l’orticaria).
La vittoria effettiva – ma triste, tanto triste – appartiene, però, ad un’altra formazione politica, che il responso definitivo non ha dovuto attenderlo per oltre 24 ore: l’astensionismo. Checché se ne dica, infatti, anche questo è un modo di esercitare un diritto politico, è comunque una scelta, spesso molto più ragionata (e sofferta) di quella di chi vota ciò che passa il proprio convento e di chi opta per un voto di protesta a prescindere dalla validità della proposta su cui tale voto ricade.
Il 47,66% degli elettori, cioè un sardo su due (ripeto: un sardo su due), ha disertato una consultazione che per noi sardi è più importante delle politiche, come ha opportunamente sottolineato Valentina Sanna (ex PD e candidata con Comunidades, lista che sosteneva Michela Murgia). E spaventoso è il picco negativo toccato a Teulada dove solo il 17,28% è andato a votare.
Oggi quindi le forze politiche che si sono confrontate in queste settimane dovrebbero, innanzitutto, preoccuparsi non del perché hanno vinto con pochi punti di scarto (sia Pigliaru che la sua coalizione hanno totalizzato il 42,45% dei voti, mentre Cappellacci il 39,65% e la sua coalizione il 43,89%) o perché hanno perso, bensì del perché metà dei sardi non ha avuto fiducia in nessuno di loro, facendo poi seria autocritica e non riempendosi la bocca di frasi di circostanza, come hanno iniziato a fare ieri, soprattutto nel centrodestra.
Ma gli astensionisti da loro non si aspettano risposte concrete – altrimenti li avrebbero votati, no? – per cui proverò io a dare, a nome nostro, qualche motivazione, senza pretesa di esaustività perché le correnti dell’astensionismo sono numerose quasi quanto lo erano quelle della DC e quante sono quelle del PD.
A chi non capisce il non voto davanti ad una folta rosa di proposte, rispondo che forse il problema è proprio la loro abbondanza: 6 candidati presidenti (potevano essere 8 addirittura, se la magistratura non ne avesse escluso due per irregolarità), oltre 30 liste (ho provato a contarle ma confesso di essermi persa) e più di un migliaio di candidati consiglieri per una poltrona da Governatore e 60 in Consiglio regionale non sono paurosamente troppi? In un simile scenario nessuno dei contendenti può pensare di poter rappresentare la maggioranza degli elettori né tanto meno può pensare di farlo credere agli interessati. È davvero assurdo che i sardi – e gli italiani in generale – non abbiano ancora capito che l’alternativa al bipartitismo/bipolarismo non è necessariamente il pluripartitismo esasperato. Una caratteristica che nessun sistema elettorale finora ha saputo correggere, neanche la nuova legge sarda “liberticida” – l’ha definita a ragione Michela Murgia – che prevede una soglia di sbarramento al 10% per le coalizioni.
“Ma non sono tutti uguali” rispondevano quelli che volevano dare un voto convinto a quelli che dicevano “non voto perché sono tutti uguali”. Io ho dato ragione ai primi: non sono tutti uguali … e, infatti, sono poco convincenti per motivi differenti.
Perché non votare Ugo Cappellacci (o Fanfaracci, come qualcuno l’ha brillantemente soprannominato)? Secondo alcuni l’esecutivo uscente è penalizzato in quanto tale: fosse anche vero, credo che la pochezza politica e l’impudenza nel compiere scelte inopportune al limite della legittimità abbiano dato molta sostanza alla bocciatura.
Perché, allora, non votare il PD? Credo che, semmai, dovrebbe esserci bisogno di spiegare perché i sardi continuino a votare questo partito. Già per gli italiani in generali mi è difficile capire come possano non pesare la sua identità indefinita (né di centro né di sinistra, né laico né confessionale, con tutti d’accordo solo sul fatto di non essere d’accordo, come dice una persona a me carissima che pur li vota) e le porcherie compiute a livello nazionale (aver governato con il presunto nemico di sempre; non aver sostenuto il più autorevole candidato alla Presidenza della Repubblica; sfornare governi di larghi inciuci senza passare dal voto…). Ma, scendendo a livello isolano, mi chiedo come si possa perdonare a questo partito il fatto di fare sistematicamente carta straccia della volontà degli elettori isolani: ignorato l’esito delle Parlamentarie; fatta fuori la candidata governatrice eletta con le primarie ma casualmente invisa a pezzi grossi del partito in nome di una moralità che non si è ricercata per i candidati consiglieri … “Ma Pigliaru è un uomo indipendente” rispondeva qualcuno in queste settimane. D’accordo … ma ci vuole ottimismo per pensare che, se lo è davvero (e non ho motivo di dubitarne) e se la sua attività dovesse cozzare con il Renzi-pensiero, non finirà a giocare a Risiko con Bersani, Letta, Soru e Barracciu.
Veniamo a Michela Murgia. In tanti siamo agli allergici ai “mi candido per il bene del popolo” e preferiremmo un presuntuoso ma sincero “sono ambizioso e voglio provare questa esperienza di potere, anche perché penso di poter fare meglio di chi mi ha preceduto”. In tanti siamo diventati sospettosi e sentiamo puzza di marketing selvaggio dietro certe proposte politiche nuove, nazionali o locali che siano. In tanti non abbiamo creduto – a ragione – nella pseudo-partecipazione di Grillo e, pertanto, non abbiamo creduto neppure (a torto o a ragione, mi sarebbe piaciuto poterlo scoprire e, perché no, ricredermi) che la scrittrice-politica avrebbe accettato indicazioni differenti dalle proprie convinzioni ma venute dalla maggioranza dei suoi sostenitori. E in tanti, anche se i politici di lungo corso si sono dimostrati incapaci, non crediamo che chi la propria passione per la politica non l’abbia prima fortificata in amministrazioni locali possa guidare con consapevolezza un ente complesso come la Regione.
Quanto a Mauro Pili, chi è di sinistra, anche se scontento, difficilmente poteva votare un uomo di destra, anche se condito in salsa autonomista. E gli scontenti di destra forse non l’hanno trovato convincente, magari ritenendo che quel suo essere sempre al posto giusto al momento giusto in questi ultimi cinque anni sia stato più un’operazione di facciata che la prova di un impegno concreto per la risoluzione delle nostre mille vertenze e difficoltà.
Perché, allora non votare Pier Franco Devias? Magari perché tra le tante proposte indipendentiste era quella che sembrava meno in grado di raccogliere consensi. O forse perché quelle tante proposte indipendentiste erano tutte poco allettanti proprio perché troppe. Mi chiedo, infatti, come – ammesso e non concesso che sia davvero auspicabile – si possa seriamente pensare di rendere la Sardegna indipendente: davvero si può credere che i sardi siano in grado di mettersi d’accordo su come governarsi se non sono neanche in grado di dare vita ad una, massimo due proposte politiche in tal senso? Queste tematiche sono state vessillo di tutte o quasi le forze politiche, persino del PD e di FI che hanno aggiunto un “Sardegna” al nome delle loro liste per rimarcare un’indipendenza dai vertici nazionali … smentita puntualmente dalla immancabile visita dei “padrini” Renzi e Berlusconi in campagna elettorale. Eppure nessuna di queste proposte, vere o di facciata, ha fatto presa su metà dei sardi. Forse, appunto, perché la spartizione di queste istanze tra le decine di liste presentate ha fatto perdere loro credibilità. O, magari, non sono l’unica a credere che per risolvere i problemi dell’Isola non serva l’indipendenza: basterebbe imparare – finalmente! – ad usare gli strumenti forti di autonomia di cui già siamo dotati. Ma per farlo dovremmo abbandonare la nostra vocazione assistenzialista e piantarla di battere cassa a Roma, anziché bussare alle sue porte per proporre soluzioni che ci facciano uscire – con le nostre mani e con il loro supporto – dalla palude in cui abbiamo contribuito a sprofondare e permanere.
Infine, perché non votare Luigi Amedeo Sanna? Direi perché la Sardegna non ha solo bisogno della zona franca, perché questa non è una panacea … e perché la zona franca è come il punto G: tutti ne parlano, ma pochi con cognizione di causa.
Nonostante questo scenario desolante, però, così come credo che prima o poi usciremo dalla crisi (il problema, per tanti, sarà arrivare a vederne la fine), così credo che la mia – e non solo mia – sarà solo una “pausa elettorale”. Credo ancora che un domani (o un dopodomani o un dopo-dopodomani) riprenderò a scegliere con convinzione – magari sbagliando, per carità – una delle proposte a disposizione.
Cari politici (o aspiranti tali), convincetemi e convinceteci! Con fatti, si intende.