Bestiari e dintorni
L’idea di analizzare e sviscerare le umane passioni attraverso gli animali e i bestiari non è nuova, certamente originale è passare attraverso le modalità della morte degli animali per rintracciare le metafore delle vite degli umani.
Renato Polizzi elabora un titolo, per il suo libro, Morti favolose di animali comuni, che potrebbe far pensare, in prima battuta, a una sorta di racconto favoloso un po’ infantile, idea supportata da una copertina che contribuisce a mantenere una ambiguità che invece fin dalle prime pagine scompare. È un libro capovolto, ostinato e contrario, che parte dalla morte, appunto, per esaltare la vita, e gli aspetti di essa, che ogni animale, antropizzato, rappresenta.
Si parla di morte in questo libro, un tema del quale in questi tempi non si ama parlare, se non sotto forma di dramma da esorcizzare nei film o in tv, una morte che ha perso le sue caratteristiche di fenomeno della vita, relegata a fatto sanitario, tanto è vero che si muore in ospedale, o fuori casa, quando non è possibile programmare nel nostro incontenibile delirio di onnipotenza. Una onnipotenza che pure gli animali evidenziano, in quella che l’autore definisce morte per scherzo o tanatosi, fingere di morire per continuare a vivere. Una morte mediata nel bestiario che Polizzi disegna, messa in scena nella laguna per l’airone o in un angolo di pineta per la cicala, ai margini di ogni luogo o non luogo per lo scarafaggio, che vive marginale, pur onnipresente, e muore marginale, ma riscattando la sua vita marginale: ha consumato una vita a strisciare, fuggire guardando basso, nascondendosi nelle fogne o nelle strettoie più infime, e muore invece pancia all’aria, guardando per l’ultima eterna volta, il cielo, il suo infinito di nuvole o stelle, di luna sole, di contraddizioni che si oppongono rinchiudendo il tutto. Devo ammettere che, come afferma Polizzi, sono una delle tantissime donne che odia, teme e disprezza gli scarafaggi, e devo rendere merito all’autore di avermene offerta una rappresentazione simbolica per la prima volta accettabile (neppure Kafka vi era riuscito, ottenendo soltanto di sovraccaricare di angoscia esistenziale lo schifo originario), addirittura piacevole. Chiaramente solo ed esclusivamente a livello simbolico, perché lo schifo che questa bestiola mi suscita permane, neppure scalfito da un cadavere a pancia all’aria, finalmente libero, come tutti vorremmo essere.
Ogni animale affronta la morte in modi diversi, magistralmente descritti in questo zoo panteista, dove la leggerezza è profondità, l’ironia corroborata da citazioni intense, sempre funzionali a un pensiero laico, libero, fatto di energie che si contaminano e ri-orientano, per cui alla fine emerge chiara la consapevolezza che vita e morte, Eros e Thanatos, sono elementi di un’unica danza universale, col sottofondo che ci unisce tutti. Quell’animalità che vogliamo negare, oscurare, sconfiggere e dimenticare e che invece non possiamo scrollarci di dosso, in vita e in morte.
Un libro esistenzialista e passionale, perché le passioni, liquide o tristi, consentendo una citazione colta, percorrono ogni pagina, ogni bestia, ogni corrispettivo umano. La passione felice della cicala, felicemente e finalmente riabilitata, la passione erotica misconosciuta dell’elefante, la passione sensuale dell’autore, che traspare e travalica l’ironia culinaria, sensualità per eccellenza, per mostrarsi nuda in tutta la sua catartica potenza.
Francesca Salis
PH.D Università di Urbino
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