Bimbi in carcere: la grande ingiustizia raccontata da Rosella Postorino

di Marcella Onnis

Lo scorso 6 giugno, nell’ambito del progetto “Scrittori a piede Lìberos” Rosella Postorino ha presentato a Cagliari, insieme a Francesco Abate,  Il corpo docile, il suo ultimo romanzo (qui la recensione). Per i lettori questa è stata l’occasione non solo per penetrare meglio tra le maglie del libro e per imparare qualcosa di utile sulla scrittura in generale, ma anche e soprattutto per conoscere o approfondire la situazione dei bimbi che vivono in carcere con le loro madri.

Le norme in materia di tutela dei figli di detenuti (Legge n. 354/1975, Legge n. 165/1998, Legge n. 40/2001 e Legge n. 62/2011; per approfondimenti vi rimandiamo al sito del Ministero della Giustizia) prevedono che le madri di bimbi di età non superiore ai 3 anni possano beneficiare di misure alternative alla detenzione (arresti domiciliari, semilibertà con permanenza nelle cosiddette case famiglia protette, detenzione presso gli istituti a custodia attenuata per detenute madri…)  e che, quindi, i loro figli non siano – almeno teoricamente – costretti a nascere e vivere in carcere. Tuttavia, ha spiegato la Postorino, la maggioranza di queste mamme non può usufruire di tali benefici perché non si verifica il presupposto per la loro concessione, ossia che non vi sia pericolo di recidiva.

«Ho scoperto l’ingiustizia per me più grande», ha affermato, perché questi bimbi «non hanno commesso alcuna colpa, ma scontano comunque una condanna». «Le azioni dei genitori pesano sempre sui figli» dice Eugenio (che«era la seconda vita di Milena», la protagonista del romanzo, e che continua ad essere il suo poco ortodosso angelo custode), ma questo è un peso troppo grande perché ci si rassegni a lasciarglielo portare.

Sconcertata da questa ingiustizia, la scrittrice ha desiderato toccare con mano questa realtà. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: «È difficile anche riuscire a dare il proprio aiuto» – ha raccontato – perché il carcere è chiuso sia da dentro verso fuori che viceversa. È riuscita finalmente ad entrare in un penitenziario, quello di Rebibbia, solo grazie all’associazione A Roma, insieme. Quest’ultima si dedica ai bimbi che vivono in carcere e li porta fuori da quelle mura soffocanti «per fare esperienze di gioia», anche se – si è premurata di aggiungere – «la gioia vera sono stati loro a darla a me. […] Questi bambini sono esattamente come gli altri bambini, ma ti regalano più gioia perché sai che la loro vita è limitata.»

L’associazione, in particolare, organizza “sabati di libertà” per tutti i bambini e offre loro la possibilità di trascorrere le domeniche da soli con una famiglia che li ospiti. Rosella Postorino, come volontaria dell’associazione, ha provato entrambe le esperienze per un periodo abbastanza lungo. Per scrivere Il corpo docile, però, ha dovuto prendersi dei mesi di distacco da questi piccoli «per una questione etica», perché – conoscendo personalmente chi le aveva ispirato questo libro – si trovava in difficoltà a raccontare una storia inventata.

Che questa grande ingiustizia le stia sinceramente a cuore lo si capisce anche da come il suo corpo, grazioso e minuto, si anima mentre ne parla e da come la sua voce si fa via via più concitata mentre spiega quanto l’infanzia trascorsa in carcere influisca sul presente e sul futuro di una persona. Racconta, ad esempio, che questi bambini «usano il linguaggio carcerario per cui chiamano la stanza “cella”» e che il loro dramma tante volte non finisce con l’esperienza carceraria perché «usciti da lì, la loro libertà dipende dal destino delle madri». E se, come spesso accade, queste sono immigrate irregolari, per i loro piccoli ciò significa lasciare la scuola, gli amichetti, le abitudini, l’Italia. Ma c’è di più e di peggio: «Ho incontrato bambini che non sanno di essere infelici […] Il problema è che un giorno sapranno di essere infelici e penseranno di essere nati scarti, colpevoli, non degni d’amore.» D’altronde, giustamente si chiede e ci chiede, «Se tu nasci dove i diritti umani sono sospesi, come fai a sentirti umano?» Perché è un passato con cui sempre bisognerà fare i conti «Questa tara genetica di nome galera. Questo destino che è da ingenui pensare di sottrarsi.» Un dramma che rende Milena e i bimbi che hanno vissuto in carcere simili a Lucia, la protagonista di Per sempre lasciami di Michela Capone, e ai tanti minori, come lei, vittime di violenza sessuale. Ed è anche per via di questa tremenda “eredità” che, ha spiegato la Postorino, «Milena si è ricreata una prigione su misura» e, ha sintetizzato con efficacia Francesco Abate, «Non fa parte né dei liberi né dei prigionieri».

“Perché ha deciso di scrivere questa storia?”, le hanno chiesto. «Perché questi bambini sono invisibili e io potevo dare loro voce» (ed è anche per tale ragione che noi, che abbiamo per motto “dare voce a chi non ne ha”, abbiamo sentito il richiamo di questa sensibile autrice e del suo straordinario romanzo). Ma c’è di più: per lei «la scrittura, come il carcere, è una forma di astensione dalla vita ma, allo stesso tempo, anche di ostinazione alla vita». E poi, probabilmente, questa storia l’ha scritta anche perché «Le cose esistono se le dici.»

«- […] fate un ottimo lavoro.
Ottimo lavoro sarebbe impedire ai bambini di vivere in carcere
Così risponde Milena al giornalista Lou Rizzi, quando lui loda l’operato dell’associazione Lahore (che, nel libro, ha il ruolo che nella realtà svolge A Roma, insieme).
Quali soluzioni, dunque?  Rosella Postorino alcune idee concrete le ha:

1)«Le norme andrebbero riscritte pensando al bambino.» La Legge n. 62/2011 ha apportato alcuni miglioramenti ma, ha spiegato, con le nuove norme da questa introdotte, che entreranno in vigore dal 1° gennaio 2014, «c’è il rischio che i bimbi restino in carcere fino a  6 anni»;

2) «Quando possibile, vanno concesse le misure alternative». Ma anche tali misure pongono dei problemi, Ad esempio, le “case protette” sono poche. La Postorino ha anche chiarito la differenza tra queste e gli istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM). Questi ultimi sono a carico degli istituti penitenziari; hanno le sbarre alle finestre, però hanno un arredamento accogliente; le guardie non sono armate e non portano una divisa; vi si applica comunque l’ordinamento penitenziario (ad esempio per le visite), però le madri sono inserite in percorsi formativi e professionali. Le “case famiglia protette”, invece, non applicano l’ordinamento penitenziario (per cui, ad esempio, le ospiti ne hanno le chiavi) e sono a carico degli enti locali. Considerata la scarsità di risorse finanziarie di cui essi dispongono – soprattutto in questi tempi di spending review – , è facile comprendere perché il numero di tali strutture sia insufficiente. Ed è sempre a causa della scarsità di fondi che – ha raccontato la scrittrice ad alcuni lettori prima che l’incontro si aprisse ufficialmente – attualmente il Comune di Roma non può più fornire il servizio di trasporto dei bambini dal carcere a vari nidi della città (N.B.: più nidi e non uno solo, per evitare la ghettizzazione);

3) «va ripensato il carcere» e non c’è certamente bisogno di spiegare perché;

4) «occorre trovare l’equilibrio tra sicurezza e tutela del minore». E al momento «purtroppo l’ago della bilancia pende verso la sicurezza».

 

 

La foto di Rosella Postorino è di Giuseppe Argiolas, presidente della Prometeo Aitf onlus

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