Canzoni e cantanti nelle notti parigine
di Diego Giachetti
E’ un libro non previsto avverte Gianni Lucini, autore di Chanson e chansonniers nelle notti di Parigi, edito da Segni e parole (Novara 2024), venuto subito dopo quello intitolato Luci, lucciole e canzoni sotto il cielo di Parigi. Non previsto ma inevitabile per completare l’orizzonte maschile della canzone e dello spettacolo dopo aver dato risalto a quello femminile. Uguale la strategia narrativa basata su fonti biografiche relative ai cantanti e collocate nei decenni della prima metà del Novecento. Cantanti e uomini di spettacolo attraversano e sono attraversati da una storia intensa e drammatica: due Guerre mondiali, l’occupazione tedesca della Francia, la Resistenza, il collaborazionismo della Repubblica di Vichy e infine la Liberazione che apre nuove prospettive, subito deluse dall’incipiente Guerra fredda.
Sullo sfondo c’è una città, Parigi, detta la Ville Lumière, florida di luci, speranze, opportunità, capace di raccogliere artisti provenienti da paesi diversi. In ciò sta l’originalità e la forza della canzone francese del periodo, motivata dall’ospitalità che lo stato non ha quasi mai negato ai perseguitati. Sostenuta da una struttura culturale e musicale che ha saputo innervarsi di nuove sfumature senza perdere i contatti con le radici, capace di inserire tra gli chansonniers i “nuovi francesi” provenienti da varie parti del mondo: danesi, armeni, belgi, russi, algerini, greci, italiani. Poeti, musicisti, attori talentuosi che mescolano senza preoccuparsi troppo della coerenza e del politicamente corretto. Riprendono il filo della memoria e cantano con nuove tonalità e nuove intenzioni le parole e le musiche già intonate da altre generazioni.
Gianni Lucini coniuga le biografie di trentadue chansonniers e due gruppi musicali col mondo dello spettacolo: cabaret, teatro, cinema. Storie di persone che prima di diventare personaggi, di salire alla ribalta, hanno svolto lavori umili, hanno subito sfruttamento e umiliazione. Miscugli di artisti, vagabondi, perdigiorno, poeti, cantanti che s’incontrano, s’innamorano, si lasciano vivere nei caffè. Storie intrecciate col riscatto sociale, colpi di fortuna, incontri decisivi, solidarietà tra artisti. «Hanno osato e ci sono riusciti per disperazione o incoscienza, senza temere di cadere nell’abisso, perché l’abisso lo avevano già sfiorato», scrive nella prefazione Tiziana Regine.
Gran parte delle canzoni nascono nelle strade, perché la strada è il teatro della vita. Si scioglie la distinzione tra canzone colta, ballata popolare e critica sociale: rabbia per le ingiustizie e sentimenti si mescolano e alimentano sogni, senza i quali, sostiene l’autore, non è data la possibilità della rivoluzione. Come i sogni e le idee, le canzoni, hanno il pregio di muoversi da sole, di resistere oltre la scomparsa di chi le ha fatte venire al mondo. Così, venuto meno il sogno o la speranza, le musiche, come le idee vivono da sole.
Tra le pagine del libro
Nei trentaquattro ritratti che Lucini produce c’è posto, tra gli altri, per l’ottimista Maurice Chevalier che lavora tra il teatro di rivista il cinema e la canzone. Accusato di collaborazionismo ai tempi della repubblica di Vichy, come altri, ad esempio Georgius, autore di trenta romanzi, opere teatrali e circa millecinquecento canzoni. Per Fernandel: attore, cantante, fantasista, intrattenitore, ballerino. Jean Gabin, l’eroe proletario col profilo cambiato da un pugno che ha saputo dare una speranza di riscatto alle classi subalterne impersonando eroi di un mondo precario, uomini che reagiscono alle batoste della vita. Jean Sablon, il primo a valorizzare il microfono come un vero e proprio strumento. Tino Rossi: mille canzoni registrate, 300 milioni di dischi venduti. Capace di suscitare forme di ammirazione di massa che anticipano quelle riservate a Elvis Presley e ai Beatles.
Rudy Ventura che mescola jazz, canzoni, brevi sketches e improvvisazione scenica. Charles Trenet, detto il cantante folle, nonché il gigante della canzone moderna francese. Leo Ferré: il libertario anarchico abile nel passare dalla poesia all’invettiva senza perdere l’eleganza. Henri Salvador, la cui carriera attraversa la canzone europea per più di sessant’anni. Francis Lemarque, forse uno dei più politicizzati animatori sociali. Yves Montand, l’italo -francese che colpisce al cuore dive e casalinghe, col suo sguardo sornione, l’aria arruffata, la voce capace di accarezzare l’anima. Georges Bressans, l’orso geniale, ironico, scorbutico al punto da spaventare De André. Mette la parola al centro con una scrittura matematica, un linguaggio raffinato e rigoroso col quale racconta gli ultimi, quelli che vivono ai margini. Charles Aznavour: l’istrione che racconta l’amore. Gilbert Bécaud: chi non lo ama lo vive con insofferenza. Protagonista di una rivoluzione musicale simile a quella di Domenico Modugno. Serge Gainsbourg, quello di je t’aime…, ma non solo. Jacques Brel, che amava dire: io non porto messaggi, lo lascio fare ai postini. Così replicava a chi tentava di stanarlo sulle questioni politiche.