Carcere: “Dei dolori e delle pene”, saggio sull’abolizione degli istituti di pena. Seconda parte
Nella precedente puntata, abbiamo parlato dei presupposti su cui si fonda la tesi abolizionista esposta da Vincenzo Guagliardo nel saggio Dei dolori e delle pene (1997).
I punti di partenza possono riassumersi in due concetti fondamentali: il primo è che l’ergastolo, in quanto pena perpetua, è contrario ai principi della Costituzione (lo riconoscono anche esperti in materia), in particolare alla regola per cui la pena deve essere finalizzata alla “rieducazione del condannato”; il secondo è che, secondo l’autore, «il carcere è irriformabile».
In questa seconda parte, dunque, daremo spazio alle soluzioni che il saggio propone come alternative al sistema penale … e ad alcune obiezioni che è possibile avanzare in proposito.
Una prima alternativa potrebbe essere l’esilio, di cui il carcere viene presentato come moderna, “asfittica” versione: questa condanna non graverebbe sui contribuenti in quanto i condannati sarebbero liberi di provvedere al proprio sostentamento; questi ultimi avrebbero invece il vantaggio di potersi autodeterminare, anche se all’interno di confini geografici determinati. A questa soluzione , però, è facile obiettare che certamente non tutti i condannati sarebbero disposti a vivere solo ed esclusivamente in una determinata zona. Forse la soluzione potrebbe funzionare per detenuti come Guagliardo, ma non con chi difficilmente potrebbe perdere il vizio di delinquere come, ad esempio, un serial killer o un maniaco sessuale.
L’analisi condotta dall’autore, infatti, risente troppo della propria condizione di detenuto politico, il quale, a suo dire, si attende dai giudici non condanne personalizzate ma un riconoscimento della responsabilità dell’intero gruppo per quell’evento. Secondo Guagliardo, infatti, il detenuto politico «non compirà più gli stessi atti di prima quando il contesto nel quale operava sia mutato, perché il suo agire è stato parte di una soggettività non individuale». Ora, in queste parole mi pare di cogliere – a torto o ragione – una sorta di scusante esterna per i reati compiuti dagli ex terroristi. Sembrerebbe che questi ultimi non possano dirsi effettivamente responsabile per i crimini commessi. Ma si può davvero dire che gli atti terroristici degli anni ’60-’80 furono atti necessari, dato quel contesto storico? È possibile credere che furono più necessitati di una rapina commessa da un nullatenente o di un omicidio compiuto per vendetta?
Tornando al discorso generale, per l’autore la pena «viene vissuta da chi la subisce come un pagamento che ci assolve da ogni debito”: il castigo più efficace sarebbe quindi la “non punizione” perché questa farebbe sentire il colpevole in debito verso la società e, soprattutto, verso le vittime. Anche a tal proposito, mi sento di poter dire che la soluzione potrebbe funzionare per persone dotate di equilibrio e di una certa moralità come Guagliardo e sua moglie, ma che dire di certi criminali che di umano non hanno nulla? È ipotizzabile che una bestia come Angelo Izzo si sarebbe sentito in debito davanti ad una non punizione? Forse che un uomo che scioglie nell’acido il corpo di un bambino assassinato può essere in grado di comprendere il valore di un simile dono?
Peraltro, lo stesso autore afferma di non aver mai incontrato «un detenuto che non si sentisse vittima di un trattamento iniquo, a prescindere dalla sua colpevolezza»: se ciò corrisponde al vero, è facile supporre che il colpevole non condannato potrebbe anche ritenere di non essere in debito con alcuno, perché ciò che ha fatto non è poi così grave.
Guagliardo contesta il nostro sistema penale anche per il fatto che esso si fonda sul discutibile assunto che «il dolore dell’offensore dovrebbe ripagare la vittima del dolore ricevuto». Assunto che sarebbe smentito dai fatti in quanto, spesso, perlomeno per i reati meno rilevanti, la vittima preferisce rifarsi in sede civile piuttosto che penale. È presentato quindi in modo positivo, come esempio che già percorre la strada che porta all’abolizionismo, il caso di quei paesi in cui le donne molestate sessualmente si rivolgono al giudice civile per ottenere che il molestatore non possa più frequentare la loro stessa zona abituale. Ecco, io trovo questa una soluzione egoista poiché il molestatore, in questo caso, resta libero di andare tranquillamente a violentare altre donne in altre zone. Soprattutto per questo genere di situazioni, non è possibile pensare solo alla vittima attuale ma anche alle potenziali vittime: occorre neutralizzare la pericolosità di quel criminale,evitare che ripeta quel gesto ignobile. Anche a questo mira il nostro sistema penale. Poi sul come punire e prevenire si può anche discutere.
La soluzione migliore per disincentivare il crimine sarebbe, dunque, sostituire il giudizio alla comprensione del contesto che ha indotto la persona a delinquere, in quanto l’autore sposa la tesi di personaggi illustri, quali Marx e Rousseau, secondo cui «è inevitabile che l’essere umano nasca con “buone intenzioni”, rovinate da una società». Personalmente, però, così come rifiuto di credere che i nostri sentimenti siano esclusivamente frutto di processi chimici, così fatico ad accettare che l’individuo non abbia margini di autodeterminazione e che sia esclusivamente un “prodotto sociale”. Io credo che se l’uomo non avesse insito in sé il “seme del male”, non potrebbe esservi contesto capace di indurlo a compiere un crimine.
La politica abolizionista propone una rivoluzione culturale e sociale, che “renda superfluo quel che oggi appare necessario”, che ci affranchi dai condizionamenti dell’economia e ci faccia riscoprire il valore del dono.
Gli obiettivi minimi di una simile politica sono quattro:
1) ridurre le pene attualmente esistenti e abolire l’ergastolo;
2) opporsi a un aumento del numero dei detenuti e delle carceri;
3) favorire automatismi, cioè meccanismi oggettivi (fondati sulla quantità di pena scontata) per la concessione di quei benefici oggi previsti come premi;
4) considerare gli affetti e la sessualità un diritto e non un beneficio.
Si tratta di proposte concrete su cui non è difficile trovarsi d’accordo: l’umanizzazione del sistema penale è sicuramente una strada da percorrere, anzi, è un percorso che dovrebbe essere obbligato, se si volesse davvero renderlo conforme alla Costituzione.
Quando, però, il discorso si spinge oltre, arrivando a proporre l’abolizione del sistema penale, non riesco più a vedere una “utopia concreta”, come la definisce Guagliardo, ma vedo solo un’utopia tout court: a mio modestissimo parere, l’abolizionismo, esattamente come il comunismo (una delle più belle utopie di tutti i tempi), non propone soluzioni effettivamente praticabili, posto che se la natura dell’uomo è stata questa per secoli e secoli, non è credibile che possa mai cambiare radicalmente. È possibile, è auspicabile (e, pertanto, va tentato) un miglioramento, ma non è immaginabile un suo totale stravolgimento.
Afferma Guagliardo che «è solo l’approccio morale che consente di capire, a chi non ha mai vissuto l’esperienza del carcere, l’evoluzione del sistema penale, la sua crisi, la possibilità e la necessità di farne a meno»: evidentemente, non essendo giunta a quest’ultima conclusione, sono dotata di scarsa moralità … e voi?
Marcella Onnis