Carcere: “Dei dolori e delle pene”, saggio sull’abolizione degli istituti di pena
Mentre cercavo su internet qualche esempio interessante di letteratura sul carcere, sono incappata in un testo non più recente ma ancora attualissimo: Dei dolori e delle pene – saggio abolizionista e sull’obiezione di coscienza, scritto da Vincenzo Guagliardo nel luglio 1996 e pubblicato nell’ottobre 1997.
Nato in Tunisia nel 1948, membro storico della colonna genovese delle Brigate Rosse, Guagliardo è attualmente detenuto nel carcere milanese di Opera, dove sta scontando una condanna a 4 ergastoli. Lui e sua moglie, Nadia Ponti (anche lei ex brigatista ed ergastolana), hanno scelto la pratica non violenta e silenziosa dell’obiezione di coscienza alla “legge Gozzini”, la legge penitenziaria del 1986 che ha introdotto il sistema dei “benefici” per i detenuti (liberazione anticipata, permessi premio, affidamento al servizio sociale, arresti domiciliari …). Attualmente godono del regime di semilibertà. Il giudice di sorveglianza ha rifiutato più volte la richiesta di libertà condizionata per Gagliardo, a favore della quale si è pronunciata perfino l’on. Sabina Rossa (PD), figlia di una delle sue vittime: il sindacalista Guido Rossa.
A distanza di quasi 15 anni e aldilà delle convinzioni personali di ciascuno sull’argomento, questo libro mantiene intatta la sua validità per stimolare riflessioni e dibattiti. Il valore dell’opera è stato, peraltro, riconosciuto a suo tempo dalle stesse istituzioni statali: è, infatti, stata pubblicata con un contributo dell’allora Ministero dell’Università e ricerca scientifica.
Per prima cosa, va detto che si tratta di un lettura molto impegnativa, non per il tema affrontato – trattato senza alcuna aggressività, senza ricorrere a immagini sensazionalistiche e, anzi, con grande pudore – quanto piuttosto per la forma scelta per parlarne: a dispetto di quanto si afferma nella nota di copertina, lo scritto non può essere assolutamente definito “accessibile”, perlomeno non se si intende tale aggettivo come “comprensibile per l’uomo medio” ossia per la maggioranza della popolazione.
Quando si interpreta uno scritto altrui, si corre sempre il rischio di prendere colossali cantonate, soprattutto se si è faticato a comprenderlo, per cui è con molta cautela che vi esporrò le mie considerazioni, ricorrendo spesso a citazioni tratte direttamente dal testo. Peraltro, essendo consapevole che non ci si dovrebbe mai arrogare il diritto di esprimere giudizi su situazioni non sperimentate personalmente, invito voi lettori a valutare il mio punto di vista ancor più criticamente di quello esposto da Gagliardo, in quanto questi – a differenza mia – parla con cognizione di causa.
Innanzitutto, cos’è l’abolizionismo? Ce lo spiega lo stesso autore: «La parola “abolizionismo” nasce in America nella lotta contro lo schiavismo; oggi essa qualifica un movimento inteso a realizzare una giustizia senza prigioni e, più in generale, una società che superi l’idea stessa di pena.»
Prima di dichiararsi a favore o contro la tesi esposta nel saggio occorre avere presenti i presupposti su cui essa si fonda, presupposti che, spesso, consistono in dati oggettivi, in gran parte confermati, dopo anni, pure dai risultati dell’inchiesta che il nostro giornale sta conducendo:
– il sistema penale non disincentiva il crimine, tant’è vero che «chi uccide, per esempio, lo fa per delle motivazioni estremamente interiorizzate, lucide o irrazionali che siano, che nessun terrore della sanzione penale può fermare. […] Viceversa, chi non ha intenzione di uccidere non lo farà neppure in mancanza di sanzione.»;
– il sistema penale ignora e fa ignorare l’individualità del recluso. Ed è anche per questo che “il delinquente”, “l’emarginato”, più che un suo ospite è una sua creatura;
– « il carcere è prima di tutto una costante pena fisica poiché in ciò consiste anzitutto la mancanza di libertà»; non è affatto un albergo, quanto piuttosto un sistema crudele che si regge su “non-regole”, che lasciano i detenuti in balia di scelte arbitrarie e imprevedibili. In proposito, Guagliardo spiega che «questa inefficienza eretta a unica regola è una delle cause principali, tra l’altro, del degrado ambientale che si nota praticamente in ogni carcere sotto il profilo igienico e alimentare, del fiorire di speculazioni che periodicamente produce qualche scandaletto presto dimenticato.» Ed è per via di questa situazione che dilagano tra i detenuti malattie di tutti i generi, dalla dermatite e la gastrite a quelle più gravi come il diabete, l’epatite o la tubercolosi;
– per le ragioni sopra esposte, il carcere è una condanna a morte indiretta; per dirla con l’autore, «la morte in carcere è una sentenza nascosta»;– il carcere è un sistema costoso, che grava fortemente sui contribuenti, ma che non rende in proporzione a tale costo poiché non contribuisce a diminuire il crimine. Il sistema penale, infatti, è in grado di punire concretamente percentuali molto basse dei reati compiuti: dalle statistiche dell’epoca risultava che la maggior parte dei delitti restava opera di sconosciuti; facendo una ricerca veloce sul web, è possibile appurare che i dati del 2010 dicono che in Italia i delitti che restano impuniti sono circa il 35% (la percentuale più alta fra i grandi paesi europei);– il diritto penale non sta al passo con i tempi, «finisce per penalizzare delle pratiche che sono diventate necessarie nel nuovo contesto e che perciò, agli occhi dei loro autori, sono “naturali”. Viceversa, pratiche che ieri non erano illegali, oggi lo diventano»;
– le pene in Italia sono tra le più alte al mondo, anche se non tutti le scontano per intero, anzi, «a parità di reato corrisponderanno quasi sempre pene diverse», in base a «il periodo in cui si è svolto il processo, il “clima”, la città, il carattere del giudice ecc.» o al fatto di fare o meno il “pentito”.
Particolarmente degna di nota è proprio l’analisi delle storture ingenerate dalla legge Gozzini e dal “pacchetto benefici” da questa prevista: secondo l’autore – e la sua conclusione è, a mio parere, largamente condivisibile – il sistema dei premi ha indebolito i vincoli di solidarietà tra i reclusi, portandoli a considerare se stessi come individui singoli che percorrono un proprio, personalissimo cammino, il cui buon esito può essere compromesso da comportamenti altrui non conformi alle regole vigenti in quel dato momento nell’istituto. Del resto, afferma Guagliardo, è «la struttura stessa che in ogni suo angolo ti indica che qui la solidarietà, i sentimenti veri sono un lusso che ti verrà fatto pagar caro». Da qui, dunque, la crescente ostilità di molti detenuti nei confronti dei tentativi di evasione e la crescita del numero delle “spie”. Non solo: il sistema premiale ha creato quel fenomeno che può definirsi “mercificazione degli affetti” o – per usare le parole dell’autore – “prostituzione dei sentimenti”, in quanto per poter avere incontri riservati con i familiari occorre meritarsi la licenza premio. L’autore si dimostra, inoltre, molto scettico contro tutte le misure alternative alla detenzione, compreso il volontariato, considerate un sorta di “carcere blando” e dunque inadeguate a favorire un vero recupero sociale del condannato.
Interessanti e, soprattutto, attuali le considerazioni sui “pentiti”. Innanzitutto, questo saggio mette in evidenza come i trattamenti agevolati loro riservati abbiano creato delle distorsioni all’interno della società prima ancora che dentro al carcere poiché, come afferma Guagliardo, «molti sono ormai gli individui che si fanno questo conto: “Appena mi beccano, faccio quello che denuncia gli altri e me la cavo”». In secondo luogo, viene rimarcata tutta l’ambiguità di queste figura che, a parere dell’autore, dovrebbe scomparire in quanto «obbiettivamente interessata a fornire accuse». I recenti avvenimenti di cronaca ci mostrano, in effetti, che le dichiarazioni dei pentiti possono sì essere utili alle indagini, ma andrebbero sempre gestite con grande cautela dagli inquirenti.
Altro punto meritevole di attenzione, in cui Guagliardo mostra tutta la sua lungimiranza (peraltro riscontrabile anche in personaggi di spicco come Luciano Violante, citato dallo stesso autore), è l’analisi della crescente tendenza della magistratura ad invadere sfere che non le competono, soprattutto quella politica. Una tendenza che – come tutti sappiamo – apparve in tutta evidenza con l’esplodere di “Mani pulite” trovando subito il consenso della massa, in cerca di una qualsiasi forma di “risarcimento” nei confronti dell’operato deplorevole della classe dirigente. Da allora, temi come il garantismo ed il giustizialismo sono tra i più dibattuti nel nostro Paese.
Fine prima parte- (continua)
Marcella Onnis