Carceri: sovraffollamento, disperazione e possibilità di cambiamento, ne parla Carla Fineschi, psicoterapeuta a Siena e S. Gimignano
Con questo servizio comincia il nostro viaggio nel sistema carcerario in Italia. Si parte con l’intervista alla dr.ssa Carla Fineschi, psicoterapeuta nelle case circondariali di Siena e S. Gimignano, per poi proseguire con i dati e i costi che il sistema deve affrontare per mantenere i detenuti, la testimonianza di un detenuto del carcere di Teramo ed altri interventi redazionali attinenti l’argomento. L’intervista ci mostra le peculiarità della professione di psicoterapeuta dentro il sistema carcerario, la spinta emozionale che necessita per svolgere al meglio la professione, i momenti difficili, i successi, i rischi, gli insuccessi che questa comporta. La testimonianza è forte ed ha una doppia valenza sociale e umana, da un lato, e di genere dall’altro, mostrando ciò che una donna può fare quando sceglie di lavorare in un ambiente estremamente duro e difficile come quello carcerario.
“Perché ha scelto proprio il mondo carcerario per svolgere la sua professione?”
Ho iniziato a lavorare in carcere nel 1989, casualmente, poiché avevo fatto un concorso presso il Ministero di Giustizia, ma ne avevo fatti anche altri. Quel mondo mi ha subito attratto, mi sono sentita utile ed ho sentito una grande accoglienza da parte dei detenuti. C’era un forte bisogno di comunicare, di lasciarsi andare e di non sentirsi giudicati e vivevano la mia professione come la più idonea ad una relazione empatica e d’accoglienza.
“Vuole raccontarci qual è stato, in questi anni, il momento più difficile nel suo lavoro?”
I momenti più difficili del mio lavoro non sono mai stati legati al rapporto con i detenuti, ma con le istituzioni, in particolare è diventato veramente difficile lavorare dopo il 2000, quando è iniziata la riforma della sanità penitenziaria e sono stata trasferita ope legis all’USL.
Non sempre condividevo le decisioni del Ministero ma ne vedevo la ratio, mentre le USL non hanno competenza in materia di carcere (che ricordo sono l’ultima struttura chiusa in Italia) ma hanno avuto subito l’intenzione di far sentire il proprio potere, rendendo impossibile un serio lavoro terapeutico.
“I successi?”
Spesso i soggetti recidivano, per cui gli operatori sono sottoposti a frustrazioni continue, ma gli obiettivi sono sempre a lungo termine. Vedo quindi come successo il fatto che i detenuti assumano maggiore consapevolezza e, nel tempo, riescono ad avere un corretto reinserimento sociale. Questo avviene con grande frequenza, anche se nell’immaginario comune c’è la rappresentazione contraria: chi finisce in carcere è “bollato” a vita. Non è così, c’è un’alta percentuale di persone che non ricadono in comportamenti devianti, soprattutto se riusciamo a farli uscire attraverso le misure alternative alla detenzione (semilibertà, affidamento in prova)
“Si può definire piuttosto rischioso il suo lavoro, visto che lavora anche in un carcere di massima sicurezza…”
Non ho mai avuto la percezione di essere stata in pericolo. Il lavoro in carcere mi ha aiutato a valutare le persone per il comportamento presente, mai per il pregresso. Dopo tanti anni sono arrivata alla conclusione che il carcere è un luogo di disperati, ed alcuni di loro, per la storia di vita e le scarse capacità di resilienza, hanno trasformato i loro trascorsi traumatici in percorsi devianti, aggressivi e di sopraffazione. Anche questi hanno però possibilità di cambiare.
La sezione Alta Sicurezza è invece diversa perché in massima parte vi sono ristretti soggetti affiliati alla criminalità organizzata. Con loro è più difficile ottenere una revisione del proprio stile di vita, sia perché aderiscono a norme alternative a quelle sociali sia perché l’affiliazione è spesso una strada di non ritorno, è impossibile uscirne.
“Può dirci come si svolge la sua professione all’interno di un carcere come quello di San Gimignano?”
Lo strumento professionale più utilizzato è il lavoro clinico individuale o di gruppo, alcune volte è stato possibile fare anche una psicoterapia breve. E’ inoltre necessario relazionare al Tribunale di Sorveglianza circa l’idoneità del detenuto alle misure alternative alla detenzione.
“Si occupa anche delle detenute?”
Mi sono occupata della sezione femminile presso il carcere di Siena fino al 1999, anno in cui tale reparto è stato chiuso. Si dice che la devianza sia «maschio», ed in effetti le donne detenute sono solo il 5% dell’intera popolazione carceraria. Sono prevalentemente rom e tossicodipendenti.
“In relazione alla sua esperienza come si differenzia l’approccio al carcere delle donne detenute, rispetto a quello degli uomini?”
La vita detentiva si differenzia in base al genere, ma ricalca sostanzialmente i modelli sociali che troviamo fuori dal carcere. L’aggressività nelle donne è più autodiretta, ma non mancano scontri dovuti a gelosie. La maggior parte dei dissidi nelle detenute sono dovuti a questioni affettive. Nelle sezioni maschili i conflitti sono da imputarsi al cercare d’imporre la supremazia, il potere sugli altri.
“Ricorda qualche situazione particolare legata ad un detenuto di cui si è occupata?”
Una situazione che, da un punto di vista clinico, mi ha lasciato un forte ricordo è dovuta ad un detenuto che aveva ucciso il padre e sentiva di averlo fatto per difendere il proprio figlio. Egli ammetteva però che suo padre non aveva mai nuociuto al nipote e non riusciva a spiegarsi il crimine commesso, che lo aveva portato anche a tentare più volte il suicidio. Attraverso vari incontri di ipnosi siamo riusciti a far affiorare dei ricordi rimossi, che hanno potuto spiegare l’omicidio.
“Situazioni di tensione?”
Le situazioni di piccole tensione ci sono spesso, legati prevalentemente al sovraffollamento,che rende la vita detentiva terrificante. Non è più possibile avere un piccolo spazio personale e quindi le celle diventano «elettriche». Ogni piccola questione fa esplodere tensioni(quali programmi televisivi guardare ecc.) ma è impossibile per gli operatori risolvere questo problema , pertanto dobbiamo stare nel nostro senso d’impotenza. Vorrei sottolineare che alcuni carceri vecchi e fatiscenti, come quello di Siena hanno situazioni igieniche precarie ed i dirigenti USL non hanno mai preso in considerazione la possibilità di richiedere modifiche ed avvallano da anni questa situazione.
“Le carceri sono sovraffollate, anche quelle di Siena e San Gimignano?”
Anche Siena e San Gimignano sono sovraffollate, abbiamo un sovraffollamento del 30% rispetto al limite tollerabile (tollerabile per chi?)
“Cosa le chiedono principalmente i detenuti?”
Aiuto per accedere alle misure alternative ed aiuto per superare i loro forti momenti di disperazione.
“Il sistema carcerario così com’è strutturato in Italia, secondo lei, effettivamente rieduca il detenuto al rientro nella società?”
L’Italia ha un corpus normativo ottimo rispetto al diritto penitenziario, ma viene costantemente disatteso per mancanza di risorse.
“Ha mai assistito ad un abuso o sentito parlare di un abuso verso un detenuto nelle carceri dove presta servizio?”
Non ho mai assistito direttamente ad un abuso ma mi hanno raccontato di abusi subiti. Devo dire che in quei casi ho trovato grande collaborazione con le direzioni dei carceri dove lavoro e con il garante dei diritti di Sollicciano, Franco Corleone, che pur non potendo intervenire direttamente ha sempre dato validi consigli per le strade da percorrere. Sottolineo inoltre che la polizia del carcere di Siena ha sempre avuto una buona relazione con i detenuti e lo sottolineo volentieri perchè spesso si sente parlare della polizia penitenziaria solo quando sono sospettati di illegalità. Esistono invece molti che fanno bene il loro lavoro, collaborano costruttivamente con gli altri operatori, aiutando così i detenuti .
“Un giovane che conosco, arrestato per una testimonianza poi rivelatasi falsa e quindi scarcerato con tante scuse, è stato in carcere a Siena per una quindicina di giorni, e pur avendo bisogno di alcuni farmaci che assumeva per problemi di salute, non ha potuto curarsi subito, ma solo dopo una settimana. Qual è il senso, secondo lei, della privazione dei farmaci ai detenuti che hanno bisogno di cure immediate, secondo il regime carcerario?”
La sanità penitenziaria è sempre stata carente, soprattutto dopo il passaggio alla Sistema Sanitario Nazionale, che come ho prima accennato, ha subito preso alcune decisioni senza conoscere, né rispettare le prassi passate. Questo ha reso difficile avere a disposizione i farmaci meno comuni ed il tempo per farli arrivare è molto lungo. Altro problema sono le visite ospedaliere. Occorrono mesi per ottenerle e quando c’è la possibilità non possono essere eseguite poiché il Nucleo Traduzioni, che è il reparto preposto al trasporto detenuti, non è disponibile. Pertanto i detenuti accedono con molto ritardo ai servizi sanitari .
“Ricorderà il caso Izzo. Il massacratore del Circeo riuscì a gabbare lo psicologo del carcere e, una volta ottenuto il regime di semilibertà, uccise altre due donne. Come può uno psicologo non accorgersi che un detenuto non è pronto ad uscire dal carcere, perché rischierebbe di reiterare il reato, proprio come è accaduto a Izzo?”
Il caso Izzo ha fatto molto clamore, ma è possibile per gli psicologi fare una prognosi di recidiva, anche se sappiamo che il comportamento umano non è stabile né totalmente controllabile. Da sempre le relazioni sull’idoneità di un detenuto alla misura alternativa sono fatti in modo congiunto tra tutti gli operatori penitenziari (direttore, polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori professionali e psicologi) proprio per ridurre al minimo i rischi Come ho già detto gli errori potrebbero essere ridotti ma solo sulla carta. In realtà il tempo per conoscere e relazionare su un detenuto è veramente poco, soprattutto per gli psicologi, che hanno un contratto libero professionale. Le faccio il mio esempio, che è esemplificativo della categoria: 30 ore Mensili per 100 detenuti a San Gimignano e 38 ore Mensili a Siena per 70/75 detenuti. E’ possibile fare una diagnosi attendibile con questo poco tempo a disposizione?
“Una domanda personale: tornasse indietro sceglierebbe lo stesso di lavorare nelle carceri?”
Sicuramente sì ma proprio per le ragioni che ho esposto prima : la possibilità d’aiutare chi ha sempre avuto poco dalla vita ma anche l’accordo libero professionale e le poche ore da fare mensilmente. Questo mi consente di svolgere l’attività professionale anche fuori. Operare esclusivamente in carcere sinceramente lo riterrei eccessivamente stressante e riduttivo per la mia persona. La struttura chiusa non ha un buon influsso per chi ci opera…figuriamoci per chi vi è ristretto!
Francesca Lippi
Nella foto: la dr.ssa Carla Fineschi