Che fare con “l’altro”: l’eterno dilemma spiegato da Daoud (e Camus)
“Il caso Mersault” all’estero è già un… caso letterario. Semplice sequel de “Lo straniero” di Camus? Libro politico sull’Algeria? A questi e altri quesiti ha risposto esaurientemente e saggiamente l’autore, Kamel Daoud, durante il XIX Festival della letteratura di Mantova.
Festivaletteratura 2015 – Mantova – Sabato 12 settembre 2015
Chi ha letto e apprezzato “Lo straniero” (meglio ancora se l’originale francese “L’étranger”) di Albert Camus non poteva certo perdersi l’incontro con Kamel Daoud, giornalista e autore del romanzo “Il caso Mersault”, presentato in anteprima nazionale al 19° festival della letteratura di Mantova. Mersault è, infatti, il nome del protagonista del romanzo di Camus, che un giorno, su una spiaggia algerina, ammazza un arabo. La vittima resta senza nome e Daoud ha deciso con il suo romanzo di darle un’identità per voce di Haroun, che gli assegna come fratello. Il libro, quindi, «dialoga in modo molto fitto con “Lo straniero”» ha evidenziato Elisabetta Bartuli, esperta di lingua e letteratura araba. Ringrazia, dunque, l’autore per averla fatta tornare su questo libro che, dice, aveva poco compreso, «forse per averlo troppo studiato più che letto come romanzo».
IL NOME CHE NON C’ERA – Punto di partenza dell’incontro non può che essere l’opera di Camus, di cui Daoud sintetizza, più che la trama, l’essenza: «Mersault non viene tanto giudicato per l’omicidio di un arabo, ma piuttosto per non aver seppellito adeguatamente sua madre. La forza di quest’opera non sta nell’intreccio, ma nella maniera di raccontarla, nello stile di Camus, nel modo geniale di raccontare la storia: molto molto sintetico. Si dice che appartenga al romanzo dell’assurdo e che parli della condizione umana. A ognuno la sua interpretazione». Poi spiega di aver immaginato che la famiglia, in particolare il fratello dell’arabo ucciso da Mersault, racconti la storia da un punto di vista diverso. Ne “Lo straniero”, fa notare, il termine “arabo” è citato 25 volte, ma non c’è mai il suo nome: «È il solo romanzo poliziesco in cui c’è una confessione, un assassino e un corpo, ma non c’è il nome. Io ho voluto partire da quel nome».
CON CAMUS “PER VEDERE PIÙ LONTANO” – «Questo libro si può leggere secondo diversi punti di vista e ha già una storia importante fuori dall’Italia» afferma Elisabetta Bartuli, riferendosi in particolare al fatto che venga letto come chiave di risposta a “Lo straniero”. Quindi domanda a Daoud: «Secondo me, il fatto che abbia già una storia importante è un po’ un pericolo: non rischia di non essere considerato storia a sé?» «È vero, è un rischio» ammette l’interessato, per poi chiarire il perché: «Nonostante Camus fosse un uomo senza religione, è contornato da una sorta di religione camusiana: ci sono “pellegrini” che vengono a percorrere in Algeria le tappe seguite da lui; ci sono suoi seguaci nel mondo. Si rischia, quindi, di restare ingabbiati in questa religione. Ma ritengo di essere riuscito a scrivere un romanzo autonomo. Non ho una fissazione per Camus: ho semplicemente usato il suo genio per interrogare il mio mondo – che non è il suo – e per trovare le risposte». E Bartuli cita una bell’affermazione fatta da Daoud, in proposito, durante un’intervista: «È stato come salire sulle spalle di un gigante per vedere più lontano». Infatti, aggiunge lei, «racconta l’Algeria di oggi di cui – io credo – sappiamo poco». E io credo che lei creda bene.
RACCONTARE LA CONDIZIONE UMANA – A questa considerazione si lega la successiva domanda: «Il protagonista ora ha 70 anni e ne aveva 7 quando viene ucciso il fratello, 27 quando l’Algeria diventa indipendente: possiamo dire che il libro racconta la storia dell’Algeria degli ultimi 70 anni?» Daoud conferma: «Sì, lo scopo di questo libro non è parlare di Camus, ma della libertà. È un problema che mi pongo. Ora nel mio Paese si pone il problema della libertà, libertà che è messa in discussione: libertà di credere o no; libertà riguardo al nostro corpo, al nostro piacere. Non ho trovato di meglio che raccontare la storia di un uomo che ha vissuto illusioni e disillusioni dell’Algeria, ma ho voluto fare un racconto di una condizione non nazionale, bensì umana. Il soggetto più importante nel mio romanzo – come penso in quello di Camus – non è il crimine ma la libertà, il rapporto con il Cielo, con la religione. Mersault è insensibile, non si emoziona: l’unico momento in cui si scalda è quando si confronta con il cappellano. L’elemento comune a quel secolo e a questo è il legame con il Cielo. C’è una frase nel mio libro, pronunciata da Haroun, che rende bene l’idea: “Per me la religione è un mezzo pubblico di trasporto che non prendo mai. Se proprio è il caso, mi piace andare verso questo Dio a piedi, ma non in viaggio organizzato”».
Commenta Elisabetta Bartuli che «siamo arrivati ad annullare il tempo, perché in questa condizione di Mersault – accettare quel che avviene senza emozioni – ho riconosciuto questi tempi in cui siamo assuefatti a tutto. Per cui, “Lo straniero” ritorna a essere attuale. Anche leggendo “Il caso Mersault” il tempo si annulla: c’è il periodo coloniale, il periodo post-coloniale, l’indipendenza… Per essere chi? Per essere cosa? Il tempo non passa. Dopo questi avvenimenti storici che hanno inciso così profondamente nelle nostre vite, è tempo di voltare pagina?» «Quale pagina?» risponde Daoud, che poi aggiunge: «Credo che se Camus è stato letto tante volte, è proprio perché racconta l’uomo, ciò che è umano. Fa capire che la condizione inumana è più frequente dell’umana. Ci ritroviamo in un circolo che si ripete. Credo questa sia la favola principale dell’umanità che si riassume nell’incontro con l’altro. Quando incontri l’altro, bisogna decidere cosa farne. Dobbiamo continuamente porci questa domanda: “Cosa ce ne facciamo dell’altro? È necessario per noi?” È una continua dinamica». In poche affermazioni ecco racchiuse l’essenza del problema dell’immigrazione e la chiave per la sua risoluzione.
«Che poi l’altro cos’è? L’altro rispetto a cosa?» commenta Bartuli, che poi prosegue: «Se prima parlavamo di annullamento del tempo, con questi libri facciamo anche esercizio di annullamento della distanza, delle culture diverse. Per me è stato molto chiaro che, a un certo punto, il protagonista è diventato il suo autore e, al tempo stesso l’alter ego di Mersault, se non addirittura Mersault, annullando tutta la differenza che inizialmente correva tra i due personaggi». Daoud sorprende e conquista con la sua schietta semplicità (e in questo mi appare vicino a Percival Everett): «Non credo che il romanzo sia così complesso. Credo sia una storia più semplice cui si possono dare tante interpretazioni. Non ho pensato a tutto ciò scrivendola. Tante volte quando si legge Camus, lo si interpreta più come filosofo che come romanziere. Credo non sia corretto. Io amo la letteratura, i libri, scrivere storie: se avessi voluto scrivere un saggio, avrei scritto un saggio. Invece no, ho voluto scrivere un romanzo ed è questo su cui voglio si concentri l’attenzione. Il saggio è come una conversazione seria, la letteratura è come una conversazione di piacere».
Daoud racconta, quindi, com’è nato questo libro: «All’inizio non avevo una tesi: il mio libro è scaturito dal desiderio di scrivere. Sono un po’ come un lettore che legge un romanzo che non è ancora stato scritto. Mi stupisce che i lettori si spingano a interpretazioni che non avevo previsto. Questa è la sorpresa della letteratura: si spinge oltre il previsto dall’autore. Quando si bacia una bella donna non si riflette: lo si fa e basta». Riferendosi poi all’interpretazione secondo cui la madre di Mersault rappresenterebbe l’Algeria, così commenta: «Se un italiano avesse scritto questo romanzo, non credo gli avrebbero posto la stessa domanda. Ma la cosa che mi rassicura è che il romanzo è stato tradotto in altre lingue e ciò, in un certo senso, ci dà una via d’uscita».
«La forza di questa storia è che ci si può riconoscere nel protagonista» afferma Bartuli, che è anche convinta (a ragione) che «si parla molto di identità ma mai abbastanza di identificazione. Ci si può identificare nei personaggi e questo è il modo migliore di rapportarsi all’altro, che così non è più “altro”». Daoud è d’accordo: «Credo che questo sia il genio, il miracolo della letteratura: rendere possibile questo processo di identificazione. Forse il lettore è un po’ un voyeur. Con la televisione si diventa voyeur dei corpi, con la letteratura voyeur delle anime. Perché consente di vedere ciò che c’è dentro, il dialogo che c’è dentro di noi».
NON UNA VENDETTA – Nel romanzo, come in quello di Camus e come è nella realtà, c’è un legame tra Algeria e Francia, per cui Elisabetta Bartuli domanda allo scrittore quale differenza di ricezione ci sia stata nei due paesi. Daoud così risponde: «Sono due accoglienze malate. All’inizio, è stato necessario spiegare che si trattava di un romanzo e non di una vendetta. E i media hanno dovuto decidere se parlarne o meno. Gli algerini che si aspettavano una storia di vendetta sono rimasti molto delusi. Il romanzo può essere diviso grosso modo in due parti: nella prima, Haroun è molto critico vero Mersault, mentre nella seconda diventa critico verso il suo Paese. Per questo in Algeria mi dicevano che la prima parte è magnifica, mentre la seconda mediocre. In Francia, invece, mi dicevano che la prima parte era mediocre e la seconda magnifica». «E questo ci fa capire che è un ottimo libro», commenta Bartuli.
A TU PER TU CON IL PUBBLICO – Interessante anche quanto emerge grazie alle domande del pubblico. Uno dei presenti chiede a Daoud se «l’algerino di oggi ha il desiderio di liberarsi da Dio, da un principio trascendente, che è però schiacciante, per scoprire l’uomo in tutta la sua complessità, quella che Camus aveva scoperto, tracciato, approfondito». Lo scrittore risponde che «è una situazione molto contraddittoria perché le persone si sono battute per avere la libertà per poi farsi sottomettere. Ci vuole un grande sforzo per volere la libertà» (e qui, senza saperlo, anticipa il tema della lectio magistralis che terrà il giorno dopo Gustavo Zagrebelsky). Poi prosegue: «Molti algerini preferiscono abdicare piuttosto che cercare la libertà. Molti non riescono a restare soli: hanno bisogno di un mito, una storia, un impegno, una storia d’amore…». E mica solo gli algerini…
Una lettrice interviene, invece, per fare delle considerazioni stilistiche ed evidenziare come, rispetto a “L’étranger”, ci siano delle parti molto belle e poetiche, soprattutto quando l’autore parla del rapporto madre-figlio. Daoud la ringrazia «per aver parlato d’amore e non più di politica» (e qui da Everett si discosta sicuramente), poi aggiunge che «“Lo straniero” parla di uno che non arriva ad amare. Per me è stato bellissimo scrivere queste parole, anche le parti in cui Haroun incontra la donna di cui si innamora o quando parla della sua vita seduto in un caffè. Invece, in genere, si ritiene che questo romanzo parli di politica, di questioni storico-politiche».
Un altro lettore, che viene dalla Corsica, dopo essersi scusato per la domanda politica, gli chiede se si senta anche un po’ francese, visto che scrive in questa lingua. Con la sua risposta, Daoud fa ridacchiare tutti noi radunati nel portico del cortile d’onore di Palazzo ducale: «Trovo che la domanda sia strana, posta da un corso». Ma poi si fa serio: «Non mi sento francese: mi sento algerino. Sono algerino. Amo gli altri paesi, ma non per viverci. Il francese, però, mi appartiene. È una lingua da cui non mi sento imprigionato: mi fa sentire libero». E racconta che quando suo figlio di tre anni gli ha chiesto perché bisogna studiare le lingue, lui gli ha risposto così: «Secondo me, una casa con tante finestre, è molto meglio illuminata che una con una finestra sola». E questa bellissima metafora può senza dubbio includersi tra quelle trasformative di cui il giorno prima ha parlato Carofiglio. Che sia convinto di ciò che dice lo attesta anche il fatto che più volte si scusa di non parlare italiano perché fatica a entrare in contatto con il pubblico. Ma è un timore infondato perché molti di noi capiscono il francese e ancor prima di ascoltare la traduzione (peraltro, non sempre impeccabile) già sorridono, applaudono o esprimono più silenziosamente il loro assenso. In ogni caso, promette di imparare la nostra lingua per quando tornerà in Italia.
Un’altra lettrice pone una domanda che definisce breve e che riporta la discussione su temi più intimistici (e presumibilmente più graditi all’autore): «L’amore è inevitabile o per farlo entrare occorre lasciare una porta aperta?» «Crede davvero sia una domanda breve?» risponde Daoud, guadagnandosi un altro divertito assenso del pubblico. Ma prova comunque a rispondere: «Haroun soffre perché non ha risolto il problema del rapporto con la donna che ama. Io credo che il legame con la donna sia essenziale: se non risolve questo problema, si diventa malati. Ho detto a dei giornalisti che capisco – non giustifico – perché gli islamici velano le donne: perché per loro le donne sono un problema irrisolto. Danno la vita, rappresentano la nascita, la voglia di vivere. Voi siete cresciuti in una società in cui l’amore è un valore supremo; io e Haroun siamo cresciuti in una società dove l’amore è una valore clandestino, per cui non credo di poter rispondere a questa domanda».
A un altro quesito che chiama in causa il cosiddetto autunno arabo, Daoud risponde, invece, visibilmente contrariato: «Non sono d’accordo con espressioni come “autunno arabo” dopo la “primavera”. Credo che, a volte, ci sono evoluzioni con risvolti positivi, a volte no, ma ciò che succede è comunque importante. La Storia si è rimessa in moto, anche se purtroppo con dei morti. Da un fattore scatenante abbiamo avuto tanti diversi sviluppi. Se una rivoluzione di tante persone è stata tradita, se il loro sforzo è stato deluso, non è colpa di quelle persone. Questa loro rivolta è stata inquinata, strumentalizzata, ma queste persone hanno diritto di continuare a sperare. Tutti abbiamo diritto di provarci».
L’ultima domanda del pubblico si ricollega alle interpretazioni non previste e magari sgradite che sono state date di questo libro: «Si sentirà libero di scrivere la prossima storia come si è sentito per questa?» Daoud risponde così: «In Algeria mi chiedono perché continuare a scrivere, se non serve a niente. Credo che questo in Italia non succeda. Serve per dare un senso profondo alla mia vita. Amo il successo, ma la letteratura è più del bisogno di riuscire. Per me è il mio modo di lottare. Non so fare altro: io non ho scelto, io subisco una passione.» E, parafrasando “Il profeta” di Gibran, aggiunge: «Scrivere non serve a cambiare il mondo, ma scrivo perché il mondo non cambi me. È anche un modo per tenere lontana la morte. Non sono un attivista: io difendo la libertà, la mia libertà è essenziale. Dico sempre: “Chi non può morire al mio posto non può vivere al mio posto perché l’unica persona che morirà sono io”. E questo per me è essenziale».
Chapeau bas!