Cinema: Il ragazzo con la bicicletta, tra formazione e azione

C’è sempre un po’ di sano scetticismo nei confronti dei festival cinematografici e del meccanismo di assegnazione dei premi: lobbies produttive che sguinzagliano i propri agenti lungo i più famosi red carpet del mondo; ex colleghi delle star in gara che presiedono una poltrona da giurato tutt’altro che inavvicinabile; estenuanti trattative dietro le quinte per ottenere un premio, anche minore, che può fare da acceleratore sugli incassi al botteghino. Così, nel vedere premiati per l’ennesima volta i fratelli Dardenne a Cannes con il Gran Prix 2011, dopo le due Palma d’Oro del 1999 e del 2004 per Rosetta e L’enfant, in molti avevano pensato a una sorta di oscuro apparentamento dei due fratelli belgi con l’establishment della Croisette.

Il sottoscritto si è voluto togliere ogni pregiudizio andando a vedere al cinema Il ragazzo con la bicicletta, con la conseguente sorpresa che il film è particolarmente riuscito, e probabilmente meritevole del premio.

Per chi conosce il cinema dei fratelli Dardenne, che ragiona spesso sulla giovane età di personaggi alle prese con problemi più grandi di loro, Il ragazzo con la bicicletta non riserva particolari novità di soggetto: il protagonista è un ragazzino iperattivo abbandonato dal padre, che non accetta le permanenze forzate nelle case accoglienza o gli affidi decisi dagli assistenti sociali. Anche il linguaggio cinematografico non fa registrare particolari variazioni rispetto ai film precedenti dei due registi belgi, con telecamere a spalla che inseguono i personaggi attraverso lunghe soggettive, ritraendoli in modo nervoso e impersonale, tagliandoli spesso dalla scena.

La principale novità de Il ragazzo con la bicicletta è, invece, la velocità della pellicola, tanto che si può parlare contemporaneamente di cinema d’autore, di formazione e di azione.

Velocità insita nel carattere e nella missione del protagonista, sempre in moto perpetuo e alla ricerca di una figura paterna, reale prima, sostitutiva poi; velocità accresciuta dal mezzo utilizzato, una bicicletta che permette un effetto pedinamento di neorealista memoria in tanti frangenti del film, divenendo spesso, con le corse, i furti e gli incidenti di percorso, il vero motore narrativo della storia; velocità che i fratelli Dardenne hanno  sapientemente esaltato attraverso un montaggio dai tagli quanto mai irruenti e improvvisi, interrompendo volutamente l’unitarietà di numerose scene e preferendo seguire l’on the road del protagonista.

Il risultato finale, nell’anno (e nel festival) delle mega-produzioni americane d’autore (Inception,The Tree Of Life), è una interessante risposta del cinema di impegno europeo, una possibile variante del film d’autore che, date le istanza, le abitudini e le gli stili di vita dominanti nella nostra veloce e liquida modernità, riflette su nuovi formati, ritmi e fruizioni della cultura, avvicinando il cinema d’essai all’action movie  in modo convincente.

Anastasi Andrea

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