CONGRESSO NAZIONALE A TORINO SULLE DISABILITÀ COMPLESSE
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Il vasto mondo delle disabilità è uno scenario che suscita particolare interesse per fatti di cronaca, un po’ meno, invece, se si tratta di approfondire le conoscenze sia dal punto di vista scientifico che culturale attraverso iniziative congressuali ed incontri scientifici a carattere divulgativo. Il problema merita quindi portare alla luce alcuni scenari che, delle disabilità complesse in particolare, riguardano le priorità, le responsabilità e le competenze. Con questo obiettivo nei giorni scorsi si è tenuto a Torino un congresso nazionale a cura della Fondazione Malattie Rare Infantili (FMRI) e del Consorzio per la Ricerca e l’Educazione Permanente (Corep), a cui hanno aderito diverse Associazioni ed Enti istituzionali. Nella sua introduzione il dott. Roberto Lala (vice presidente della FMRI) ha reso noto che i recenti progressi dell’assistenza pediatrica hanno visto l’aumentato numero delle persone giovani con disabilità complesse, e in talune realtà migliorato le loro aspettative di vita, ma allo stesso tempo evidenziato le loro particolari necessità da parte del SSN tanto da implicare riflessioni sia dal punto di vista etico ed economico che clinico ed organizzativo. «Una “sfida” – ha precisato il clinico – da cui derivano sfide culturali per approfondire la conoscenza dell’iter della malattia proiettato nella vita adulta di questi soggetti; ma anche morale, da parte di tutti (pazienti, famiglie, operatori socio-sanitari e cittadini), responsabili delle strutture pubbliche, per individuare decisioni su come allocare al meglio le risorse economiche. Quindi la sfida è anche organizzativa al fine di progettare una rete coordinata e flessibile di interventi considerando le prospettive di questi pazienti». Lunga ed approfondita l’esposizione su “Analisi del costo-efficacia sulla discriminazione delle disabilità” del prof. Greg Bognar (del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Stoccolma) precisando sin da subito che definire le priorità nel settore sanitario è inevitabile alla luce della carenza di risorse che affligge i nostri sistemi sanitari (europei, ed altri), come pure concepire la disabilità nel contesto delle definizioni in ambito sanitario, e come la stessa vada affrontata nell’ambito della giustizia sociale. Ma perché la scarsità di risorse è sempre presente in un sistema sanitario? «Anzitutto – ha spiegato – per il progresso in campo biomedico tale da favorire la diffusione di nuove cure e trattamenti, e per l’invecchiamento della popolazione con maggiori necessità di assistenza sanitaria; ma anche per l’aumento delle aspettative dal sistema sanitario da parte della popolazione. Ed è utopia che un sistema sanitario potrà avere più risorse per soddisfare tutte le esigenze sanitarie, e quindi si tratta di definire delle priorità». Anche se è legittimo avere delle aspettative da parte di tutti, l’uguaglianza è mal tollerata, soprattutto per i trattamenti sanitari e assistenziali più estesi e differenziati. In effetti la scarsità di risorse è data anche dal fatto che l’assistenza sanitaria compete con altri obiettivi sociali (infrastrutture, istruzione, etc.). D’altro canto la definizione di priorità è sempre presente ed inevitabile, e le decisioni vengono prese in modo esplicito e/o implicito; e da un certo punto di vista la scarsità di risorse può essere intesa in modo positivo sapendo come meglio allocare le stesse. Ma come si definiscono le priorità in ambito sanitario? «Dal punto di vista economico – ha spiegato il cattedratico – si fa l’analisi di quello che è il costo e l’efficacia di un trattamento, e si raffrontano le due dimensioni per poi valutarne così gli eventuali vantaggi-benefici per la loro attuazione. Quindi la definizione delle priorità garantisce che vengano raggiunti i maggiori benefici sanitari al minor costo possibile, anche se ciò solleva problemi dal punto di vista etico, soprattutto per le persone che hanno una capacità “ridotta” di beneficiare dei vantaggi di un trattamento, come i pazienti disabili».
In merito ai diversi modi di concepire la disabilità il relatore svedese (nella foto) ha precisato che si può pensare ad una disabilità come problema medico in analogia con una patologia, ma al tempo stesso può essere vista anche come uno svantaggio che può essere paragonato all’etnia e al sesso tale da diventare uno svantaggio a “causa” del contesto sociale; e per farvi fronte vige il sistema legislativo a tutela della discriminazione. Una terza visione della disabilità può essere la combinazione di questi aspetti messi insieme, e la non garanzia di costo-efficacia di un trattamento non sostenibile dal Servizio sanitario. «Ciò rappresenta una discriminazione “ingiusta” – ha precisato – in quanto viola i diritti decisionali delle persone ostacolando, ad esempio, il diritto del disabile di vivere la propria vita in modo indipendente, che deve essere voluto in base a determinati valori… In caso di trattamento diverso che causa uno svantaggio, è anche motivo di discriminazione in quanto la disparità di trattamento spesso è determinata non dalla disabilità, ma dalla scarsità di risorse». In buona sostanza, quando si parla di discriminazione nei confronti della disabilità non è corretto fare un’analogia con altri tipi di discriminazione come quelle di appartenenza ad un gruppo etnico piuttosto che ad un altro; il problema va affrontato non solo dal punto di vista delle leggi, ma in modo più ampio, e gli svantaggi subiti da persone disabili vanno visti di fronte ad esigenze di priorità in un contesto di giustizia sociale. «Quindi – ha concluso il prof. Bognar – è vero che per via della scarsità di risorse c’é bisogno di definire delle priorità, e questa esigenza non deve essere di natura esclusivamente economica, ma deve tener conto di alcuni principi etici, in modo che le persone non subiscano degli svantaggi sociali».
Sulle disabilità complesse in pediatria è intervenuto il dottor Marco Spada (nella foto), direttore della S.C. di Pediatria all’Infantile “Regina Margherita” della AOU Città della Salute e della Scienza di Torino. Snocciolando alcuni dati ha informato che si è passati da un 30 per mille di mortalità infantile al 2-3 per mille. In particolare ha rilevato che sono sempre più note malattie cronico-degenerative, i disturbi dello sviluppo e mentale, e molte sono le famiglie “fragili” provenienti anche da altri Paesi. «Tra le malattie complesse – ha sottolineato – molte sono di origine genetica, come pure ve ne sono di carattere oncologico. Negli anni sono emerse sempre più le necessità dei genitori di questi pazienti di avere un’assistenza coordinata, come prevede per certi versi la Legge 279/2001, la quale prende in considerazione il vasto arcipelago delle malattie rare e complesse, formando delle Reti per un percorso sistematizzato. Abbiamo a che fare con la cronicità che investe molto il concetto sanitario, ma la disabilità è volta verso una visione “più sociale”, in quanto comporta una limitazione funzionale ed una condizione dinamica perché è il risultante fra l’interazione di un problematica intrinseca al soggetto, e in quest’ottica c’é ancora molto da fare nel settore sanitario, educativo e sociale». Alcuni bambini con “bisogni speciali” hanno una prevalenza del 15-16%, quelli con condizione disabilitante sono in prevalenza l’1%. Per quanto riguarda questi ultimi ci sono ancora deficienze assistenziali nella misura del 50-60%, in quanto sono ospedalizzati quattro volte di più rispetto ad altri, e l’ospedalizzazione dura otto volte di più. Inoltre, 88 bambini con patologie congenite contro 60 bambini normali hanno subito un incidente che si è rivelato letale. «Come pediatri – ha precisato il relatore – abbiamo lavorato per la prevenzione degli incidenti domestici nel bambino normale, ma poco si è fatto per i soggetti ipovedenti o con problemi di motilità. Ci troviamo di fronte a pazienti molto complessi: ritardo mentale importante, epilessia talvolta scarsamente controllabile, difficoltà motorie ingravescenti, difficoltà respiratorie e nutrizionali, etc. L’approccio alla complessità, alla rarità e alla disabilità coinvolge più specialisti, e all’esigenza di pianificare le dimissioni». Nel reparto del dott. Spada vengono trattate soprattutto le malattie metaboliche (malattie causate da un’alterazione di quei processi biochimici che consentono alla cellula di utilizzare e scomporre sostanze come i carboidrati (zuccheri), le proteine e i lipidi in composti più semplici per ricavarne energia, ndr), con oltre 600 casi in trattamento; e vi afferiscono anche la struttura di Dietetica e Nutrizione clinica con 160 pazienti in nutrizione artificiale. In questo ambito pediatrico è pure attivo il Day Service (D.S.) multispecialistico per le patologie pediatriche complesse, malformative, con esiti di encefalopatia anossico-ischemica. «Per quanto riguarda la prevenzione delle malattie curabili – ha precisato il clinico – è stato attivato uno screening e in questo arco di tempo (dal 1982 al 2015) sono stati sottoposti a screening oltre 1 milione e 300 mila neonati, di cui 700 portati ad una condizione di normalità. E una delle sfide che ci siamo posti è quella di prevenire le malattie croniche progressive con danno d’organo irreversibile proponendo proprio un adeguato screening».
Ma qual è la situazione delle malattie complesse in età adulta? E cosa capita dopo i 18 anni? Simone Baldovino, professore aggregato di Patologia Clinica all’Università di Torino, e afferente al Centro Multidisciplinare di Immunopatologia e Documentazione su Malattie Rare (CMID), diretto dal prof. Dario Roccatello, ha “rivisitato il concetto di disabilità complessa precisando che va intesa come difficoltà di comprensione del proprio percorso, difficoltà dovuta alla molteplicità di elementi e di aspetti. «Nell’affrontare le problematiche complesse – ha precisato il clinico – bisogna considerare che tutti gli “attori” sono indipendenti fra loro: il paziente, la famiglia, gli operatori sanitari e sociali; e il fatto stesso che esistano assessorati diversi per affrontare queste problematiche ritengo sia paradossale… Tuttavia, è più corretto parlare di differenze e non di minorazioni, e neppure di momenti differenti poiché nessuno di noi è uguale all’altro. Siamo tutti diversi e abbiamo più difficoltà che sono legate a come interagiamo con la società, con l’ambiente, etc.». Spesso le malattie hanno delle cause complesse che coinvolgono l’ambiente, il nostro patrimonio genetico e le modifiche del nostro genoma che avvengono dopo la nascita. Ma va anche detto che le disabilità complesse non hanno un significato solo dal punto di vista medico, in quanto le stesse necessitano avere un approccio onnicomprensivo che comprendono gli aspetti psicologici e sociali. In Piemonte sono censiti 34 mila casi, tra questi vi sono sia pazienti pediatrici che adulti; di questi pazienti 28 mila hanno più di 18 anni, e nel solo 2018 risultano essere circa mille i pazienti che si trovano nella fascia di età soggetta a transizione dall’età infantile all’età adulta. E i pazienti over 18 con malattia neuropsichiatrica da chi verranno seguiti? «Si tratta – ha spiegato il prof. Baldovino – di dare loro una risposta integrata tra ospedale e territorio, cercando di raggiungere anche quelli che sono distanti dai Centri di riferimento, mantenendo nel contempo la collaborazione tra pubblico e privato. E per quanto riguarda il futuro il Piano Nazionale Cronicità (PNC) dovrebbe avviare le sperimentazioni, l’integrazione dei Servizi, il potenziamento dell’assistenza domiciliare, la personalizzazione delle cure, e mettere al centro la persona».
Per una vita indipendente nel mondo di tutti come sfida della disabilità complessa è stato l’auspicio della dr.ssa Cecilia Marchisio (nella foto), ricercatore universitario del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione all’università degli Studi di Torino, informando che il Centro Studi subalpino sta portando avanti un programma di ricerche, il cui obiettivo è quello di proporre dei percorsi di accompagnamento all’età adulta di persone con disabilità, sperimentando e valutando al tempo stesso in che modo sia possibile, e quanto costi, prendere in carico persone con disabilità anche complesse. E ciò nel “rigoroso” rispetto a riguardo della Convenzione Onu, nella quale si ribadisce che i diritti valgono per qualsiasi essere umano, con o senza disabilità. «Tutta la nostra organizzazione dei Servizi sociali e sanitari – ha precisato – è regolata sui livelli di complessità e gravità, per erogare così i servizi più appropriati. L’appropriatezza diventa un concetto inutile e dannoso quando si considera il sostegno al percorso di vita di una persona». Sotto la spinta della Convenzione Onu sono da considerare inadeguati i nostri servizi se non sostengono il percorso di vita della persona con disabilità e la sua famiglia, ampliando e non restringendo la possibilità e l’opportunità del set capability, ossia l’approccio allo sviluppo del processo di espansione delle capacità e delle opportunità reali delle persone disabili, affinché ciascuna possa scegliere di condurre una vita a cui attribuire valore. «Ma ciò – ha precisato e concluso Marchisio – richiede agli Enti pubblici e agli attori coinvolti a vario titolo, un cambiamento culturale poiché le persone con disabilità, le loro famiglie e le associazioni non saranno più dei destinatari passivi di politiche e servizi, ma soggetti attivi del cambiamento». Una sessione conclusiva ha preso in considerazione le competenze e responsabilità degli stakeolder, ossia i portatori di interesse in grado di influenzare il percorso a qualunque livello, alla quale hanno preso parte rappresentanti di associazioni quali il Cepim (Centro Persone Down), la FMRI, la Consulta per le persone in difficoltà (CPD), e l’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici (ANGSA).