Dedicato a mamma: una lettrice racconta – 2^ parte
Vi proponiamo oggi la seconda parte del racconto autobiografico che Rita, una nostra lettrice, ha voluto condividere con noi. È una storia che narra del grande amore di una madre per sua figlia e che dimostra tutta l’affettuosa riconoscenza di quella figlia per sua madre.
La prima volta lo seppi per vie traverse – e non certo nel modo migliore – che ero figlia del fratello più piccolo di nonno Antonio. Verso gli otto anni, capii che mia madre non si sarebbe potuta sposare. Primo perché lui era già sposato. Secondo perché (dettaglio da non trascurare) era suo zio. Me lo dissero in modo cattivo, senza rispetto per i miei 8 anni e la benché minima considerazione per la bambina che voleva giocare ancora con le bambole, anche se fatte di stracci, per la bambina che voleva saltare, giocare, cantare, insieme agli altri bambini, che rubava le ciambelle di nascosto e poi infilava le briciole nell’occhio del suo bambolotto.
Avevano deciso di disorientare e di impensierire la bambina che ero e ci riuscirono perché la mia fiducia negli uomini la persi proprio allora, sebbene inconsapevolmente. La mia infanzia forse finì lì; non ricordo di essere stata mai più spensierata, sorridevo certo, ma nel mio cuore c’era sempre tanta tristezza. In casa certo mi volevano tutti bene, ma nonno mi educava in un modo e zia credeva di far bene in un altro, per cui finii soffocata dal troppo amore e sempre più disorientata. «Rita, non toccare i fiori, odorali con le mani dietro la schiena!». Per una befana trovai in un grande tavolo tanti giocattoli, tutta la cameretta per i miei bambolotti di pezza. Io ne ero incantata, li guardavo per ore, ma quando volevo impadronirmene per giocare alla mamma non me li lasciavano. «Rita, stai attenta che si rompono. Bisogna tenerli d’acconto per conservarli».
Dina, una mia zia, portò a casa un paniere colmo di uova fresche e mettendomele davanti, vicino ai giochi, aspettò per vedere la mia reazione. A una ad una le ruppi tutte giocando, con suo grande divertimento. «Lassadda fai, sa pippia, ca d’ollu bì.» (“Lasciala fare, la bambina, che voglio vedere cosa fa”).
Mi mandavano alla bottega a comprare del concentrato di pomodoro e al ritorno a momenti non ne portavo a casa perché, durante il tragitto, col dito lo leccavo.
A volte mi capitava di incontrare una persona col cappello, che m’incuteva soggezione e che per educazione mi dicevano di salutare. Lui si fermava, mi metteva due dita sotto il mento, mi guardava bene, poi, con gesti studiati, lentamente si infilava le mani in tasca, toglieva fuori 5 lire e me le dava dicendo: «Conservali!». Io tornavo a casa tutta contenta e lo raccontavo: chissà perché si inquietavano dicendomi di non prendere niente da quell’uomo e di non fermarmi neanche. Avevo la sensazione però, nonostante mi sgridassero, che fossero contenti che quest’uomo si occupasse di me.
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