Di delitti d’onore e di sentenze condizionate dai contesti
di Marcella Onnis
Per la sua XXI edizione, il Festivaletteratura di Mantova ha proposto una nuova e interessante tipologia di eventi: i processi. Si tratta di rievocazioni di processi storici a carico di donne – inscenate nell’aula della Corte d’Assise e basate sugli atti processuali – con l’intento di far riflettere non solo sulla condizione femminile ma anche sui temi connessi a singoli casi, sui loro legami con l’attualità e sull’influenza che l’opinione pubblica può avere sui giudici. Perché, come ha rimarcato l’archivista Danilo Craveia, «la legge è uguale per tutti, ma non è detto che dal punto di vista della Giustizia questo sia stato fatto fino in fondo, non è detto che dal punto di vista morale questo sia altrettanto vero». Il programma del Festival era anche quest’anno molto, molto ricco, per cui di processi ne ho potuto, purtroppo, seguire solo uno: quello a Lydia Cirillo e Matilde Randazzo, giovani donne che, alla fine della Seconda Guerra mondiale, decisero di vendicare il proprio onore violato da uomini in divisa. A rievocare le due vicende sono stati l’archivista Manola Ida Venzo e lo scrittore Diego De Silva con la collaborazione di Danilo Craveia, nel ruolo di moderatore, e degli attori Stefano Gianfreda e Paola Sarzola.
A Diego De Silva è stato chiesto di rievocare la vicenda di Lydia Cirillo, che il 10 ottobre 1945 assassinò il capitano inglese Sydney Lush. Beccata in flagrante, fu condannata a soli 4 anni di reclusione e 3 anni di ricovero in casa di cura (manicomio), ottenendo successivamente anche la grazia. Una sentenza piuttosto eclatante se vista con gli occhi di oggi, ma che si può arrivare a comprendere ricostruendo il contesto storico dell’epoca: «L’arrivo dei Liberatori aveva un senso ambivalente» ha rimarcato De Silva, spiegando che inizialmente gli americani [ma il discorso vale anche per gli inglesi come Lush, ndr] furono applauditi, c’era molta fiducia nei loro confronti e tante donne avviarono con loro relazioni sentimentali, anche con l’obiettivo di ottenere così l’accesso per la tanto agognata America. Alcune di queste coppie convolarono a nozze, tanto che gli americani istituirono addirittura delle scuole per mogli per preparare le donne al matrimonio e alla vita in America, il che includeva apprenderne la lingua e la cultura. Qualcosa di simile a ciò che alcuni ritengono debba essere fatto con gli immigrati oggi, ha rimarcato De Silva, per poi affermare che «questa è assimilazione, cosa diversa dall’integrazione. Anzi, sono concetti confliggenti». Non tutti gli americani (e inglesi), però, furono gentiluomini: ve ne furono parecchi molesti, ha raccontato ancora lo scrittore, per cui «a un certo punto l’atteggiamento dell’opinione pubblica cambia e nasce una certa insofferenza verso il loro atteggiamento spavaldo, truffaldino, un po’ colonizzatore». Lush è uno di questi esempi negativi: non dice a Lydia di essere sposato e di avere dei figli, la seduce e la abbandona, cioè «applica una truffa» (e dopo avrà anche altre amanti). In più, «lei è molto religiosa», per cui il sesso fuori dal matrimonio, aggravato dal mancato adempimento della promessa di matrimonio (fatta davanti alla Madonna di Pompei, ha precisato Venzo), «per lei diventa una colpa indelebile». Lydia parte, dunque, da Torre Annunziata e va a Roma apposta per ucciderlo: «Non è un delitto d’impeto», «ci troviamo davanti indubitabilmente allo schema dell’omicidio premeditato», eppure il giudice esclude la premeditazione. Perché? «Perché il delitto ha una collocazione socio-politica», suggerita dalla stessa Lydia che, al momento dell’arresto, dichiarò di aver ucciso Lush «per vendicare l’onore di tutte le donne italiane». Nasce da qui l’esortazione a che «i nostri uomini difendano le nostre donne».
Ora, un ascoltatore/lettore attento e acuto avrà notato – come ha fatto mia sorella – che questo è lo stesso meccanismo che si sta verificando oggi con un altro tipo di “invasori”, ossia con gli immigrati provenienti dai paesi arabi. Persone che si accusa di non rispettare le nostre donne e dai quali dovrebbero difenderle i nostri uomini… i quali, però, sono gli stessi contro cui, in altri momenti, abbiamo puntato e puntiamo tuttora il dito per il crescente e allarmante numero di femminicidi. Tuttavia, questa visione d’insieme non è stata colta – non so se volutamente o meno – neppure da De Silva: «Conta il contesto socio-politico in cui si verifica un fatto anche molto grave, soprattutto se le donne si sentono violate. È quello che succede oggi con la quasi negazione del diritto di lasciarsi. Le donne denunciano, ma non si interviene finché non arriva il gesto estremo, per cui di fatto lo stalker è libero di fare ciò che vuole. Per Lydia la società ha fatto muro intorno a lei; oggi siamo nella condizione paradossalmente opposta in cui non riusciamo a dare una risposta». Acutamente Craveia ha fatto notare che in questa vicenda «c’è un’altra donna tradita: l’Italia. La truffa la stavano già perpetrando gli Alleati verso il nostro Paese; già l’Italia capiva che non tutte le promesse erano state mantenute. Non è stata sedotta e abbandonata, però è stata colonizzata». Inoltre, ha sottolineato Venzo, «c’era una volontà di pacificazione, di assoluzione, nei giudici come nel comando inglese, che per questo non si costituì come parte civile». Per farsi un’idea più chiara della vicenda, però, deve essere considerato anche un punto di vista che controbilancia quello di Lydia: quello della moglie di Lush, che, dopo l’omicidio, scrisse all’assassina di suo marito una lettera terribile nella sua dolorosa compostezza (cliccate qui per leggerla). Una lettera che, ha rimarcato successivamente De Silva, suona «molto autentica, viscerale. È come se volesse dire “Ci sono anch’io”; è come se dicesse “Non posso fare nulla, posso solo maledirti”». «Mary Lush è dolente ma lucida» ha commentato a sua volta Craveia. Tale documento, peraltro, impedì a Lydia di ottenere subito la grazia. Da segnalare, inoltre, che dalla vicenda fu tratto un film, “La donna che ha ucciso”, in cui compare la stessa Lydia (che potete vedere nel fotogramma).
La vicenda della siciliana Matilde Randazzo è, invece, stata ricostruita e commentata da Manola Ida Venzo. Crocerossina in servizio a Roma, conosce in ospedale il tenente Antonio Benetti che, ferito in battaglia, aveva perso una gamba. Lei rinuncia per lui alla verginità finora gelosamente custodita, però poi lui decide di sposare la storica fidanzata, ragion per cui «lei diventa una furia»: inizia a perseguitarlo «perché vuole farsi sposare» (non può, infatti, accettare che il suo onore sia stato violato in questo modo) e – non riuscendo a convincerlo né con le buone né con le cattive – decide di ammazzarlo, senza riuscire neppure in questo. Però, il giudice la proscioglie anche dall’accusa di tentato omicidio. Perché? Anche qui per via del contesto storico, condizionato da un «codice d’onore arcaico» oggi superato: «Quasi sempre le vecchie carte ci narrano la grande Storia, ma ci raccontano pure le vite “minuscole” delle persone ordinarie. Quando accade, per noi archivisti è una gran cosa perché ci danno meglio di altre un’idea della realtà del tempo». Matilde lasciò molto tracce scritte, «era una grafomane», inoltre, «come tutte le crocerossine, era di estrazione medio-borghese ed era di una certa cultura». Venzo è anche un’esperta di scrittura femminile, per cui proprio Matilde le ha consentito di fare alcune considerazioni su questo tema: «L’accesso delle donne alla scrittura è stato un processo lungo e faticoso. Non a caso storici e studiosi definiscono la scrittura come “luogo delle differenze”. Tutte le società hanno sempre messo in campo misure per impedire l’accesso alla scrittura fuori dai ruoli prestabiliti. Quando le donne forzavano queste barriere, erano sempre considerate elementi di eversione. È stato così fino all’Ottocento. Soltanto con lo Stato unitario si rompe questa subalternità delle donne e si consente loro l’accesso all’educazione e alla scrittura».
Ma torniamo a Matilde: «Il suo diario ci dà un’idea della sessualità del tempo» ha affermato Venzo, precisando però che «le scritture soggettive come i diari vanno interpretate, perché c’è sempre una strategia di costruzione dell’Io. In Matilde c’è sempre il tentativo – inconscio o consapevole, non lo sapremo mai – di apparire come una ragazza perbene e ingenua». Emblematico, ha rimarcato, il suo modo «quasi ottocentesco» di descrivere la sessualità: «È un’ingenuità poco credibile, un po’ costruita». Matilde sa scrivere molto bene – ha evidenziato lei, così come Craveia – e «sa costruire il suo Io, la sua personalità. Crea questa sorta di sceneggiatura perché si sente violata, ferita nel suo onore: allora la verginità era ancora un bene da difendere fino al matrimonio». Per questo, come anticipato, Matilde prova a riconquistare l’amato in tutti i modi: tenta più volte il suicidio davanti a Benetti; scrive una lunga serie di lettere indirizzate a lui, alla sua famiglia, ai suoi amici, alla sua fidanzata; va persino a casa dei suoi genitori che, però, la scacciano; controlla i suoi movimenti… Insomma, «mette in atto un vero e proprio spionaggio», «è una vera e propria stalker». Qualche volta lui risponde alle sue lettere e usa espressioni terribili come “piuttosto che sposare te sposerei un cane rognoso”, parole cariche di «cinismo e scherno», comprensibili, però, se consideriamo che era un uomo esasperato da questa persecuzione, ha rimarcato Venzo (cliccate qui per leggere alcuni brani tratti dal diario di Matilde e dalle lettere scritte da lei e da Benetti). Giunta all’apice della follia, Matilde – che era «perfettamente informata sui movimenti di lui» – lo attende alla stazione Termini con una pistola in mano, ma dimentica di toglierle la sicura per cui spara a vuoto e i passanti riescono a disarmarla. La donna, quindi, fugge e si nasconde al cimitero del Verano, dove aggiorna il suo diario e poi si taglia le vene, ma ancora una volta viene salvata dai passanti e portata in ospedale. La perizia psichiatrica, però, la dichiara sana e, come anticipato, viene anche prosciolta dall’accusa di tentato omicidio. Per De Silva «questa è una donna che si è sentita defraudata, tradita, secondo l’educazione del suo tempo. È una delle prime stalker in assoluto. Penso che il suo gesto estremo fosse assolutamente dimostrativo, come i mancati suicidi: c’è sempre la speranza che lui la sposi. Sono gesti simbolici perché lei ci crede ancora».
Lydia e Matilde erano, dunque, colpevoli o innocenti? Chiamato da Craveia a esprimersi sui due casi, il pubblico ha espresso in maggioranza l’opinione che, in entrambi casi, la sentenza non sia stata equa. Il che dimostra quanto l’opinione pubblica, a sua volta condizionata dal contesto, possa influire pesantemente sull’esito dei processi: a noi starebbe ora regolarci di conseguenza…
Good afternoon
My grandfather was Sidney Lush who was killed by Lydia Cirillo. I am in NZ and am researching this part of his life. I would be very grateful if you would be able to point to some reference material (Italian is fine) that I can read more about the case.
Dear reader, we recommend that you contact the Literature Festival at segreteria@festivaletteratura.it. You can also write to the archivist who handled the event who can indicate useful sources: craveiadanilo@libero.it