L’ UTILITÀ DELLA MUSICOTERAPIA NELLE DEMENZE SENILI E ALZHEIMER
Due relazioni distinte ai Lunedi pomeriggio sulla Prevenzione e Salute tenute al Molecular Biotechnology Center di Torino.
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
La nostra era ci porta a considerare con più attenzione tutte quelle patologie che coinvolgono la mente umana, in particolare le demenze senili. Argomento sul quale è intervenuto il prof. Innocenzo Rainero, illustre neurologo e neurofisiologo all’ospedale Molinette di Torino che, nello specifico, ha trattato il tema: È possibile prevenire la malattia di Alzheimer? Va subito detto che sta emergendo tutta una serie di indicazioni atte a modificare lo stile di vita che può cambiare il rischio o il decorso di questa malattia. «Noi medici – ha esordito il relatore –, quando abbiamo affrontato la tematica dell’Alzheimer siamo stati poco più che frenologi (il riferimento è alla teoria scientifica affermatasi nel sec. XIX e oggi abbandonata, secondo cui dalla conformazione del cranio è possibile risalire allo sviluppo di certe zone del cervello, sedi di particolari funzioni psichiche, ndr), limitandoci ad osservare poche caratteristiche e questo purtroppo è ancora un atteggiamento diffuso nella classe medica. Si tratta (o si tratterebbe) di cambiare mentalità, ossia bisogna fare un salto di qualità significativo». La malattia di Alzheimer (d’ora in poi M. di A.) è molto diffusa tanto che si riscontrano soggetti anche molto giovani (in età presenile), in cui si fanno diagnosi preliminari di questa patologia. C’è chi sconfortato dice che non vi siano cure per il trattamento di questa patologia, altri sostengono che è possibile prevenire le demenze, ossia tutte quelle che hanno un deficit cognitivo. Ma quali risposte si possono dare? «È bene – ha spiegato il clinico – fare una distinzione fondamentale tra il termine demenza e il termine M. di A. Nel primo caso si tratta di un quadro clinico che presenta un insieme di sintomi, ma ci sono diverse malattie che possono causare una demenza; un altro concetto non meno importante consiste nel fatto che si dovrà cercare di diagnosticare le malattie che possono causare demenza il più precocemente possibile, al fine di prevenire quadri clinici particolari». È stato calcolato che nell’arco di 40 anni la prevalenza delle demenze triplicherà, causando conseguenze su tutti i sistemi sanitari. Nel nord America il numero di questi pazienti è più basso, mentre in Europa che ha una popolazione più anziana, andrà incontro ad un raddoppio di pazienti con questa patologia, così come anche gli altri continenti vanno incontro a questo “fenomeno sociale”. Le Società americane dei pazienti con M. di A. spesso promuovono queste indagini: ogni 3 secondi in tutto il pianeta si ha un nuovo paziente affetto da questa malattia (entro il 2050 si passerà da 50 milioni i a 150 milioni di pazienti). Alcune nazioni hanno attivato dei “Piani nazionali per le Demenze”: in Italia, ad esempio, nel 2014 è stato preparato un piano per strutturare i Centri che si occupano di questa malattia che, però, per sette anni non ha avuto alcun finanziamento… a fronte anche del fatto che la M di A. è la più diffusa, oltre alla Other diseases, demenzia di Lewi Bodries, demenza frontotemporale, demenza vascolare (con vasculopatia cerebrale). «Si tratta di capire il prima possibile – ha spiegato il relatore – qual è la malattia che sta provocando il deficit cognitivo, e cercare di intervenire per modificare la progressione della patologia stessa. Oggi sappiamo che nel cervello di questi pazienti ci sono due grosse alterazioni: la formazione di placche di materiale proteico (placca senile) e il groviglio neurofibrillare, ossia la precipitazione all’interno della cellula fondamentale (neurone), una struttura proteica anomala. Il paziente con M. di A. non ha solo un problema di memoria o di altre funzioni cognitive, ma anche degli importanti problemi dal punto di vista emotivo: nelle fasi più avanzate avrà allucinazioni, deliri, grave depressione (maggiore) dell’umore, e il quadro clinico nasce dalla sovrapposizione di questi gruppi di sintomi». La strada dell’Alzheimer è ancora molto lunga: le ricerche degli ultimi vent’anni hanno dimostrato che prima che il paziente sia sintomatico possa avere, ad esempio, problemi di memoria, alterazioni di alcune proteine per almeno un ventennio; quindi si hanno normali fenomeni di normale invecchiamento cerebrale, ma all’interno dei soggetti con normale evoluzione in alcuni il cui percorso è già iniziato, entrano in quella prima fase nota come “deficit cognitivo”, ma non ha ancora una demenza e successivamente entra nella fase conclamata della malattia. Si tratta di fare una diagnosi precoce, quindi quando non c’è ancora un danno grave al cervello. Ma nel contempo, in fase preclinica, che cosa sta succedendo nel cervello e come fare una diagnosi precoce di M. di A. e studiare le fasi preliminari? «Ciò attraverso i biomarcatori – ha suggerito il prof. Rainero –, ossia una serie di esami “personalizzati”, e tra questi si tratta del prelievo del liquor cerebrospinale, al fine di misurare le concentrazioni di determinate proteine; poi sono possibili le neuroimmagini funzionali, test genetici per verificare l’entità della sintomatologia clinica». Sulle cause della M. di A. il relatore ha precisato che è multifattoriale, quindi non vi un’unica causa. Da un lato ci sono i fattori genetici che possono predisporre il soggetto alla malattia, ma su questo vi sono molti fattori scatenanti di carattere ambientale e, agendo su questi, si può ipotizzare una strategia di prevenzione. «Le cause genetiche – ha sottolineato – sono state studiate a fondo, ma le forme monogenetiche (di un solo gene) sono molto rare; la maggioranza sono forme multigeniche, ossia sono diversi i fattori di rischio che predispongono alla malattia: storia famigliare, età, etc. Inoltre, un fattore di rischio può essere modificato e può diventare “protettivo”, come ad esempio fare attività fisica regolare, stimolando il livello cognitivo, l’assunzione di alcuni farmaci, e il controllo del rischio vascolare. Tra quelli modificabili vi sono l’ipertensione, l’attività fisica, il non fumare etc.». Sul concetto di prevenzione il clinico ha evidenziato quella primaria che è riferita a norme di comportamento; quella secondaria, è relativa a soggetti che iniziano ad avere dei disturbi, nei quali si attivano meccanismi specifici di prevenzione in relazione all’età; e in quella terziaria il soggetto è già patologico e pertanto si cerca di rallentare l’evoluzione della malattia stessa. Quattro anni fa l’Oms ha realizzato una pubblicazione con una serie di indicazioni per prevenire il deficit cognitivo e quindi la demenza. Essa contiene i cosiddetti 12 punti da seguire: attività fisica, sospensione del fumo di tabacco, corretta alimentazione, controllo dell’abuso di alcool, stimolazione cognitiva specifica o generica, attività sociale, controllo del peso corporeo (sovrappeso), controllo dei rischi vascolari (ipertensione, diabete, dislipidemie), trattamento della depressione dell’umore, e il trattamento dei deficit sensoriali, in particolare l’ipoacusia. «Tutti questi fattori – ha concluso il prof. Rainero – hanno fatto considerare che il 40% delle cause di M. di A. sono prevenibili; quindi, sulla base di dati scientifici, agendo su questi fattori si può ridurre l’incidenza dei casi di questi pazienti. La ricerca scientifica è sostanzialmente progredita per comprendere le cause e le possibilità di strategie terapeutiche per tutte le malattie con demenza».
Non è certo un caso, ma in gran parte è in linea cona la relazione precedente, quella dedicata al tema Io questa canzone la ricordo: perché la musica ci aiuta a ricordare?, tenuta dallo psicologo e musicoterapeuta Antonio Mauro Sarcinella, presidente dell’associazione “Seven Arts”. Sia pur in diversi contesti la musica può contribuire a migliorare la nostra qualità di vita anche in presenza di alcune patologie, come ad esempio, nel caso della M. di A. tale contributo è utile per rallentare i processi cognitivi. Con la musica si può interferire nelle qualità comportamentali delle persone migliorando il loro benessere. «Si dà per scontato – ha ricordato il relatore – che l’uomo è un “Essere musicale”, in quanto le prime sensazioni (già nel grembo materno) sono di carattere sonoro, a cominciare dal tono di voce della mamma e dai rumori dei suoi organi interni. La musica ci appartiene ed è pure stimolante. In tutte le parti del mondo c’è una cultura musicale e spesso con la relativa storia, tant’è che per molti è considerata un “dono Divino”, e che l’inizio esistenziale ha come effetto sonoro il verbo, sia pur non esista un linguaggio universale. Il linguaggio è verbale e musicale, nel primo caso utilizza la sfera cognitiva, nel secondo quella sensoriale, motoria, emotiva ed affettiva… L’esperienza musicale è però soggettiva che, se legata ad un evento della propria vita, può suscitare emozioni particolari…». Va detto che all’interno di tutte le culture umane si sono sviluppate forme di espressione musicale, il cui linguaggio nasce dall’esigenza propria di tutti gli esseri, ossia quella di esprimersi e comunicare. Ciò si traduce in una più ampia possibilità di fruizione e di percorsi, ma anche in una impossibilità di collegare in termini di senso ogni “suono” ad un significato preciso, così come è possibile fare per la parola. Ma come può avvenire la lettura e la comprensione del linguaggio musicale? «Bisogna considerare – ha spiegato lo specialista – che l’ascolto di un evento sonoro è “condizionato” dalla nostra soggettività come piacere e interpretazioni personali…». In riferimento indiretto alla relazione del prof. Rainero, il musicoterapeuta ha posto il quesito: “Cosa possiamo fare negli incontri di musicoterapia per “aumentare” il benessere delle persone affette da M. di A.? In quest’ambito gli interventi sono indirizzati a promuovere la qualità di vita delle persone malate, e di quelle che se ne prendono cura (famigliari e/o caregiver), adattamento alla malattia, uso ottimale delle risorse disponibili e stimolo delle capacità residue, dando loro un senso di coesione, accoglienza ed empatia. È dato a sapere che il più delle volte la musica facilita il riaffiorare i ricordi autobiografici e vicende vissute; quindi, ascoltare musica conosciuta o ri-conosciuta, può aiutarci a riannodare il filo della nostra esperienza di vita. Inoltre, è un veicolo che facilita l’integrazione, ancor più se oggetto di ripetitività a continuo sostegno dei ricordi non privo di emozioni, talvolta condivisibili. «L’elemento sonoro – ha concluso il dr. Sarcinella – aiuta ad instaurare un clima di leggerezza e spontaneità e ad esaltare le emozioni positive come la gioia e l’allegria, tanto da contribuire a sciogliere i meccanismi stereotipati di difesa, causa di stati ansiosi e depressivi, distraendo i soggetti dall’attenzione ossessiva di se stessi e permettendo loro di rivolgerla verso gli altri e al mondo esterno».
Foto di Giovanni Bresciani