Due parole per raccontare “Stirpe” e “Nel tempo di mezzo” di Marcello Fois
Potrei parlare del senso di angoscia che pervade “Nel tempo di mezzo” come già “Stirpe”;
potrei dire della costante percezione di un’incombente ed ineluttabile disgrazia – “Peggio che sapere. Peggio che ignorare” – che accompagna l’intera lettura, a ricordare quanto la felicità umana sappia essere fugace e quanto la stessa vita terrena possa essere provvisoria.
Potrei parlarne, ma non lo farò.
Dirò invece due parole – una per ogni libro – che, a mio avviso, portano in sé il senso stesso di quest’epopea.
FIGLIO.
Quando Giuseppe Mundula, ormai vecchio, trova Michele Angelo Chironi al centro della vigna distrutta dalla sua stessa disperazione, gli sussurra appena: “- Figlio, – gli dice. È la prima volta che lo chiama in quel modo” a quel figlio adottivo. E Michele Angelo “pensa a quanto dolore possa generare quella parola”.
Figlio: non a caso, la parola scelta da Susanna Dudieva – presidente dell’Associazione Madri di Beslan – per raccontare la strage avvenuta nel 2004, in una scuola della cittadina dell’Ossezia del Nord, dove 186 bambini morirono per mano di un commando di separatisti ceceni.
Michele Angelo, di fronte ad un nipote scoperto più che ritrovato, si trova a “riprendere una funzione che è stata vacante per tanto tempo, troppo tempo”: così, continuando “a vedere il suo amore che gli sussurra: ‘Ma lo sai chi eri tu prima?’”, vede se stesso che risponde “Padre, – le dice, – comunque padre, anche se fossi stato albero o pietra, sarei stato padre, amore mio”.
Ed infine una donna che posa sulla lapide la foto del marito che sorride, incorniciata da un supporto di marmo sul quale ha fatto incidere, in caratteri tutti maiuscoli, la parola PADRE.
Silvia Onnis