Epatite C e trapianti in Sardegna, tra presente e futuro
di Marcella Onnis
Domenica 2 aprile 2017 si è svolto a Cagliari il convegno “Sardegna, Isola dei trapianti”, organizzato dalla Prometeo AITF Onlus. Il nutrito programma ha riservato spazio anche a uno dei temi che più stanno agitando la Sanità italiana e l’opinione pubblica: i nuovi farmaci per la cura dell’epatite C (HCV).
I NUOVI CRITERI DI ACCESSO AI FARMACI – Dopo essere intervenuta in sostituzione del dr. Zamboni, la dr.ssa Laura Mameli, gastroenterologa del Day hospital del Centro trapianti di fegato dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari, ha potuto raccontare le novità in un campo che conosce benissimo. E lo ha fatto con la consueta chiarezza ed esaustività, senza sforare i tempi assegnati a ciascun relatore: compito certamente non semplice quando si affrontano temi articolati come questo. Il primo dato rilevante che ha comunicato è che, grazie alle nuove terapie, si sta verificando un graduale calo della cirrosi da epatite C come indicazione al trapianto di fegato cui, però, fa da contraltare un aumento della cirrosi da epatopatia alcolica e della steatoepatite non alcolica. Tuttavia, l’allarme HCV non è certo svanito: «esistono ancora milioni di pazienti da curare per evitare che arrivino alla cirrosi», ha precisato la dr.ssa Mameli, aggiungendo anche che, purtroppo, «la guarigione dall’HCV non elimina il rischio di epatocarcinoma». Come sa chiunque stia seguendo la vicenda dei nuovi farmaci, il 21 marzo scorso l’AIFA (Agenzia italiana del farmaco) ha presentato i nuovi criteri di trattamento, passati da 7 a 11. Conoscerli e comprenderli in dettaglio è cosa da specialisti o specializzati, anche se a chiunque è apparso chiaro quello che la dr.ssa Mameli ha rimarcato in questa sede: «Ora possiamo trattare praticamente tutti, anche i pazienti senza fibrosi». Ci voleva, però, il suo intervento per comprendere che due dei nuovi criteri sono particolarmente importanti per “il mondo del trapianto” (sui rapporti tra trapianto e vecchi criteri vi rimandiamo all’articolo “La sicurezza nei trapianti dal lato del ricevente”): il secondo e il quinto. Il secondo criterio prevede la possibilità di prescrivere il trattamento dopo il trapianto di fegato, purché il paziente sia stabile e tale sia anche il suo livello di immunizzazione. Il quinto criterio, invece, consente di trattare i pazienti in lista attiva per il trapianto di fegato con MELD (sistema di valutazione della gravità delle malattie epatiche croniche) inferiore a 25 e/o con livelli di HCC (epatocarcinoma) entro i cosiddetti criteri di Milano e una possibilità di attesa in lista di almeno 2 mesi («per consentire la guarigione prima dell’intervento»). Perché sono importanti questi due nuovi criteri? Perché, ha chiarito la dr.ssa Mameli, il virus può reinfettare il fegato dopo il trapianto, per giunta con «un’evoluzione più rapida» e con una possibilità del 20-30% di sviluppare una cirrosi in soli 5 anni, il che implica «una riduzione della sopravvivenza dell’organo e del paziente». Con queste nuove cure e grazie ai nuovi criteri, dunque, è possibile evitare la recidiva.
I NUMERI DEL SOFOSBUVIR A CAGLIARI – Dopo aver sinteticamente ma esaurientemente ripercorso le tappe del progresso scientifico nel campo della cura dell’epatite C, la dr.ssa Mameli si è soffermata sulla data di svolta per l’Italia: il 7 gennaio 2014, giorno in cui è stato immesso in commercio il Sofosbuvir, il primo antivirale ad azione diretta (DAA) di nuova generazione, già adottato nell’ambito di programmi per uso compassionevole. Da allora le innovazioni si sono susseguite sotto forma di nomi complicati e un po’ troppo simili per ricordarseli correttamente, per cui ci limiteremo a ricordare solo alcuni dei farmaci elencati dalla dr.ssa Mameli (con relativi accenti perché già pronunciarne i nomi è problematico): Simèprevir, Daclàtasvir e la combinazione di Sofòsbuvir+Ledìpasvir. Questi nuovi antivirali, ha spiegato la dr.ssa Mameli, garantiscono la guarigione nel 70-90% dei casi, in più offrono una maggior sicurezza e tollerabilità per il paziente. Inoltre, richiedono l’abbinamento con la sola ribavirina e non anche con l’interferone pegilato, fino a qualche anno fa cura standard per l’epatite C e causa di significativi effetti collaterali, i quali – ha precisato la gastroenterologa – per i trapiantati si aggiungevano a quelli già causati dagli altri farmaci assunti.
I numeri del Centro trapianti di fegato di Cagliari anche in questo sono più che positivi e rassicuranti: già ai tempi dell’interferone e della ribavirina, la guarigione si verificava nel 40% dei casi, a fronte di una media nazionale del 18-33%, ha evidenziato la dr.ssa Mameli; venendo all’era del Sofosbuvir, è guarito il 70% dei 20 pazienti da loro trattati nell’ambito del programma per uso compassionevole, mentre i pazienti trattati in seguito all’immissione in commercio del farmaco (34 dopo il trapianto e 10 nel pre-trapianto) sono tutti – tutti! – guariti.
IL NUOVO SISTEMA SANITARIO REGIONALE – Queste nuove cure rappresentano senza dubbio una sfida, in termini organizzativi ma soprattutto economici, per la nostra Sanità, sia a livello centrale che regionale. A rappresentare la Regione Sardegna in questa sede è stato il dr. Giuseppe Sechi, Direttore generale della sanità dell’Assessorato regionale dell’Igiene, sanità e assistenza sociale, che ha “ricalibrato” il proprio intervento per rispondere alle istanze avanzate dai relatori e dalla Prometeo. Come prima cosa, il dr. Sechi ha rimarcato come gli esordi pionieristici dell’attività trapiantistica raccontati dai relatori, in particolare dal dr. Ugo Storelli, implichino che «questi interventi non possono essere effettuati senza le istituzioni al fianco». Riguardo, invece, alle oscillazioni dei numeri di donazioni e trapianti da un anno all’altro (negli ultimi anni significative anche in Sardegna), sintetizzando quanto evidenziato dagli altri relatori, Sechi ha individuato due tipologie di motivazioni: emotive («in parte legate alla nostra [di istituzioni competenti in materia, ndr] capacità o incapacità di comunicare») e organizzative.
A suo parere, «il principale compito della Regione, al di là del finanziare le attività, è ripensare l’organizzazione affinché sia al passo con l’evoluzione che il sistema dei trapianti deve avere». Per raggiungere tale obiettivo ritiene che occorra, innanzitutto, «una cabina di regia che coinvolga tutti gli ospedali della rete e tutti i comuni». Qualche passo importante, peraltro, è già stato fatto con la recente riforma del Sistema sanitario regionale (Legge regionale 27 luglio 2016, n. 17): il nuovo sistema, ha spiegato, prevede l’istituzione dell’Areus (Azienda regionale dell’emergenza e urgenza della Sardegna), che avrà il compito di gestire anche i trasporti di sangue, organi e pazienti. Si tratta di «una nuova struttura rispetto alle vecchie asl», che «avrà un ruolo intermedio tra la Regione e le aree socio-sanitarie locali», ha precisato il dr. Sechi. Tale azienda avrà (speriamo non solo sulla carta) una struttura «“leggera”, con pochissimi dipendenti» e svolgerà il suo «ruolo fortemente operativo» in prevalenza tramite convenzioni con gli operatori del settore, seguendo «protocolli molto definiti» e con l’obiettivo di «garantire un altissimo livello di organizzazione del sistema dei trasporti nella sanità». Un ruolo importante, ha rimarcato il dr. Sechi, sarà giocato anche da un’altra innovazione organizzativa introdotta con questa riforma: l’Azienda per la tutela della salute (ATS), ossia l’azienda sanitaria unica regionale in cui saranno accentrate le attività amministrative precedentemente svolte dalle asl.
LE STRATEGIE DELLA REGIONE CONTRO L’EPATITE C – Venendo poi ai farmaci contro l’epatite C, il Direttore generale della sanità li ha definiti «una sfida incredibile» per la Regione e le cifre che ha fornito da sole sono bastate a dimostrare che non ha esagerato: per curare i malati con il Sofosbuvir, nel 2015 la Regione ha speso 52 milioni di euro, mentre nel 2016 addirittura 71 milioni, a fronte di un trasferimento di fondi nazionali pari a soli 3 milioni e 600 mila euro (sì, avete letto bene: non mancano zeri). Dove e come sono stati reperiti questi fondi e saranno reperiti quelli necessari per questo e gli anni a venire? «È stato necessario spingere tutta la rete, anche i medici di famiglia, a un uso appropriato dei farmaci, anche optando per quelli meno costosi» ha spiegato Sechi. Una strategia che, ha evidenziato, «dimostra che non si vuole tagliare l’assistenza, ma utilizzare in modo più opportuno le risorse». I risultati, del resto, parlano per lui e per l’istituzione che rappresenta: «2.000 pazienti trattati in 2 anni con risultati eccezionali». Quanto ai nuovi criteri adottati dall’AIFA, anche lui è molto ottimista: «I benefici saranno maggiori perché i pazienti saranno trattati prima dell’evolversi della malattia» e, ha aggiunto, «se noi facciamo un patto con i medici di famiglia, riusciremo a trattare più pazienti».
Foto Prometeo AITF Onlus
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