Festivaletteratura di Mantova: souvenir nn. 5-7
di Marcella Onnis
Souvenir n. 5: Rodotà for President
L’intervento di Rodotà al Festival è stata l’occasione, per questo giornale, di sperimentare il live tweeting. All’uccellino azzurro abbiamo, infatti, affidato in custodia, in tempo reale, alcuni concetti chiave di quella che un mio amico ha appropriatamente definito una lectio magistralis.
Il suo “viaggio” è partito concettualmente dal suo ultimo libro Il diritto di avere diritti e cronologicamente dal 1979, anno in cui il filosofo francese Jean-François Lyotard certificò la morte delle tre grandi narrazioni: illuminismo, idealismo e marxismo. Dopo di loro, l’unica narrazione che si è imposta – ha detto Rodotà – è quella dell’economia, è la legge del mercato. Un’imposizione che – ha proseguito – noi europei stiamo vivendo, in particolare, in questa fase: «Da Bruxelles ci arrivano, infatti, i criteri cui devono sottostare anche i diritti, impossibilitati a muoversi indipendentemente da queste regole economiche stringenti.»
Ma le minacce giungono anche dal mondo globale che – ha fatto notare – si è sottratto ad alcune forme con cui i diritti venivano tutelati in quanto non sono più individuabili le frontiere degli stati. Per tale ragione, «i loro strumenti di tutela dei diritti oggi funzionano poco». Gli esempi son fin troppo ovvi: internet, grazie al quale/a causa del quale «il confine non ha più senso e non ha più realtà», e Google, il cui strapotere e la cui invasività stanno seriamente mettendo a repentaglio la riservatezza delle persone. Occorre, dunque, trovare nuove forme di tutela che, senza ingabbiare gli individui, ripristino la privacy e facciano riemergere la forza dei diritti.
Il loro tempo non è finito – ha in sostanza detto Rodotà – perché «c’è una marcazione dei diritti nella coscienza universale degli individui» (anche in Cina, ha fatto notare, gli operai cominciano a scioperare, seppure se ne parli poco) e «davanti alla narrazione del mercato, la narrazione dei diritti afferma le sue ragioni». Non solo: «i diritti sono l’unico potere per contrastare le leggi del mercato».
Solo che hanno molti nemici, ad esempio chi subordina la libertà di opinione all’identificazione («l’anonimato è fondamentale per esprimere la propria opinione», soprattutto per chi vive sotto un regime), chi cerca di giustificare le restrizioni alla libertà e le violazioni della privacy con l’emergenza, il potere in generale perché «il potere in qualche modo è sempre infastidito dai diritti». Ma il peggior nemico resta il mercato perché «nel sistema globale le persone diventano merce e con essi i loro diritti» e qui ha chiamato in causa Face book e la mole di dati che è in grado di raccogliere per poi fornire agli operatori economici.
Venendo poi a chi giustifica l’erosione delle tutele con la necessità di rispettare i vincoli finanziari, ha affermato che «i diritti hanno tutti un costo, quindi c’è un legame con le risorse, ma andrebbe capovolta la prospettiva» perché «i diritti costano quando non vengono rispettati in termini economici ed umani». Qui un esempio è stato il caso Ilva: se si fosse garantito subito anche il diritto alla tutela dell’ambiente, – ha sostenuto Rodotà – oggi questo non si ritroverebbe contrapposto al diritto al lavoro.
Ma qual è, allora, la strada maestra da seguire? L’ha indicata citando Hannah Arendt: «il riconoscimento dei diritti passa per il riconoscimento dell’umanità delle persone». Quindi, tanto per cominciare, «oggi che gli stati nazionali non sono più separati va abbandonata la vecchia idea dei diritti» e va, innanzitutto, ripensata la cittadinanza. Dovrebbe essere un fatto ovvio per noi italiani che – ci ha ricordato – siamo stati un popolo di migranti; invece «abbiamo rimosso la nostra memoria e siamo diventati incapaci di riconoscere agli altri l’umanità che vogliamo ci venga riconosciuta.» E in fatto di “ripensamento dei diritti” stiamo incassando lezioni anche dai paesi in via di sviluppo – ha fatto notare – perché «sono in atto “processi di universalizzazione” che dimostrano come non sia vero che le grandi narrazioni sono morte.»
«La narrazione dei diritti è la narrazione della vita delle persone» per cui non ha più senso – ha affermato – distinguere tra diritti politici, sociali, …: «i diritti sono indivisibili.»
E sono die hard (duri a morire), direi: «ci sono gli “anticorpi” che nascono dalla consapevolezza che esistono dei diritti inviolabili», quali il diritto alla costruzione delle personalità e il diritto all’uguaglianza, che persino la Corte dei Conti ha riconosciuto come valori superiori rispetto all’osservanza dei vincoli del famigerato patto di stabilità. Quindi «è possibile una narrazione dei diritti come contropotere [alle leggi del mercato].» Ma, ha proseguito, perché questa si affermi è necessario che non deleghiamo più interamente la tutela dei diritti ai giudici: dobbiamo fare la nostra parte. «La lotta per i diritti ci appartiene», ci ha ricordato. E dobbiamo difenderli (a partire dal diritto all’istruzione, pubblica in particolare, perché «la scuola è il luogo dove imparare la conoscenza degli altri») perché «sono diventati negoziabili» e perché «i diritti escludono l’ipocrisia, la doppia moralità, impedendo di buttare il sasso e togliere la mano», ha detto prendendo spunto dalla battaglia di Beppino Englaro.
Rodotà è il Presidente del popolo, lo dice il lungo applauso con piccola standing ovation finale che lo ha accolto al suo arrivo in piazza Castello e lo dicono i ripetuti applausi ottenuti durante il suo intervento. E se mai ce ne fosse stato bisogno, ad esplicitare questo comune sentimento ci ha pensato uno spettatore, che si è rammaricato per la sua mancata elezione a Presidente della repubblica, “un’occasione persa”. Lui, da gran signore qual è, si è limitato a dire di non volerne parlare perché il passato è passato. Ha solo aggiunto che non rimpiange quell’esperienza perché ha fatto ciò in cui credeva. Chapeau bas!
Souvenir n. 6: i bracciali celtici
Tra i vari interessanti reperti del Museo archeologico di Mantova (visitabile gratuitamente), mi hanno colpito in particolare i bracciali celtici. Non solo perché sono donna e in quanto tale subisco il richiamo dei monili, ma perché il materiale (silver) e le forme ricordano in maniera impressionante quelli della Breil. Insomma, neanche in questo settore stiamo inventando qualcosa di veramente originale!
P.S. Il museo si trova in una struttura ampia e bella, ma l’esposizione occupa solo il piano terra: spero che il piano superiore venga adibito a mostre itineranti o altri eventi a breve durata; diversamente, sarebbe un imperdonabile spreco.
Souvenir n. 7: il maestro Abate, il capoclasse Mastandrea e l’allievo Cavina
Giovedì 5 settembre Federica Cardia se n’è andata; venerdì 6 settembre Francesco Abate, suo amico, ha fatto la prima presentazione ufficiale del suo nuovo romanzo, Un posto anche per me. Un dolore così grande e recente non si può nascondere e lui, che è un grande uomo ma anche un professionista serio ed onesto, non lo ha nascosto, confessando al pubblico riunito a Palazzo San Sebastiano di essere arrivato lì «con le pile scariche». Ma il suo compito era parlare di “Strade”, in compagnia di Valerio Mastandrea e Cristiano Cavina, per cui l’ha fatto comunque, onorando nel modo più bello la memoria dell’amica: «A Federica dedico tutte le strade che sono qui oggi».
Cristiano Cavina, nonostante la febbre alta, l’ha buttata più sul ridere e ha esordito con i suoi trascorsi scolastici, confessando di non essere mai stato un allievo modello, eccetto che in un periodo della sua vita: «Andavo da Dio all’asilo». Ma per la scuola ha comunque un amore “incidentale”: «Ho sempre pensato che la scuola fosse il posto ideale in cui uno può incappare nella passione della sua vita.» Che sia perché il suo non è un passato facile o perché ha voluto seguire il sentiero tracciato da maestro Abate, fatto sta che piano piano ha saputo scendere in profondità, anche perché senza di questa l’umorismo alla lunga diventa sterile: «Quando ho scritto il primo libro, non pensavo che a qualcuno sarebbe piaciuto. Scrivevo per salvare le cose della mia vita»; «Quando scrivo mi sembra di ringraziare o chiedere scusa a qualcuno»; «Scrivere è rispedire lettere d’amore a chi potrebbe averle dimenticate»; «Anche io un po’ ho seguito la strada di mio nonno, che era contadino, perché, anziché coltivare la terra, ho coltivato storie»; «A volte scrivere è proprio fare un viaggio nelle vite degli altri.»
E nelle vite degli altri, degli ultimi soprattutto, ancora una volta si è introdotto, con la sensibilità che lo contraddistingue, Francesco Abate. Con quale scopo? «Se questo libro ha uno scopo, è quello di percorrere le storie dei bambini come Peppino», il protagonista di Un posto anche per me. Ma Peppino chi è? È il suo compagno di scuola che tutti prendevano in giro perché la sua colazione era una rosetta grondante minestrone; è il ragazzo che lo scrittore, ai tempi in cui faceva il dj, ha sentito domandare, timidamente e dopo lungo tentennare, ad un gruppo di giovani: “Posso essere vostro amico?”. Quindi questo libro – ha spiegato – è un risarcimento per loro. E non solo: anche per le tante Marisa (altro personaggio chiave del romanzo) che sono o sono state al mondo, a partire da quella che l’ha ispirato e di cui ha deciso di parlare «perché la vita non gliel’ha permesso». Ha raccontato di aver conosciuto Marisa grazie a Chiedo scusa (il suo precedente romanzo scritto a quattro mani con Mastandrea), ma di non aver raccontato in queste pagine tutto ciò che ha saputo di lei perché la sua era una storia troppo dolorosa. La storia di Un posto anche per me, ha spiegato, è anche un risarcimento per lei, «gemella che non doveva nascere», «bambina brutta che non può esistere per un padre bello che ama la bellezza». Non l’ha detto, ma è naturale pensare che questa sua nuova fatica prosegua idealmente il viaggio iniziato con il suo spettacolo È colpa tua, nato anche questo per risarcire dei bambini con cui la sorte non è stata troppo generosa.
«Non sono uno scrittore, – ha affermato Abate – sono un narratore perché sento la necessità assoluta di condividere le storie.» Perché «abbiamo sempre bisogno di raccontare qualcosa a qualcuno.» E allora le storie lui se le va a cercare, soprattutto sugli autobus (che usa abitualmente e che ha affibbiato come mezzo di trasporto a Peppino) perché lì «è pieno di storie. Di notte ancora di più.»
E Valerio Mastandrea? Oltre che “padre naturale” di Peppino (questa storia doveva essere un suo film, ha rivelato Abate in più interviste), è stato il collante tra i due scrittori. A lui il compito di far tornare il sorriso al maestro e di mettere un po’ in riga l’allievo. Ha legato risate e commozione attraverso le sue parole e quelle di alcune pagine di Un posto anche per me. Pagine che ha letto senza toni enfatici, con la partecipata naturalezza dei veri attori. Bello starlo ad ascoltare e divertente osservarlo alle prese con le parole e le espressioni sarde che qua e là spuntavano nei passaggi scelti.
Scanso equivoci, lo scrittore cagliaritano non ha comunque svolto il ruolo del “pesantone”, che proprio non gli si addice. Ha fatto ciò che gli riesce bene come pochi: essere serio ma non serioso. Come quando ha confessato pubblicamente di aver un’ossessione per la cacca, rendendomi felice perché finalmente potrò dire che anche per questo lo apprezzo tanto. Quello della cacca è un tabù ridicolo quanto quello del sesso: tutti facciamo l’una e l’altro, sono entrambi istinti naturali, per cui perché dobbiamo vergognarcene, perché dobbiamo fare finta di non dedicarci a queste attività? Certo, mantenere la giusta dose di pudore è doveroso, come lo è evitare l’ostentazione, ma se ne può parlare anche pubblicamente! È questo che – a torto o ragione – ho sempre pensato voglia farci capire Abate parlando della cacca nei suoi libri e, addirittura, raccontando di una “celebre diarrea” in prima pagina sull’Unione sarda.
Serio ma non serioso, perché la vita e la morte si danno il cambio alternando gioia e dolore, a volte rendendo difficile tracciare il confine tra loro come tra questi sentimenti. Lo sa bene lo scrittore sardo che da mali più grossi, come la droga, si è salvato grazie alla malattia, alle cure e poi al trapianto: «Sono qui grazie a una donna morta a 38 anni che ha fatto sì che oggi sia qui con voi a ridere tantissimo.»
Foto di Giuseppe Argiolas